Colleghi di lavoro: come prenderli e imparare a conviverci

Non li abbiamo scelti, eppure passiamo con loro gran parte della nostra giornata: con i colleghi collaboriamo per la riuscita di qualcosa, ci passiamo informazioni, spesso pranziamo allo stesso tavolo.

Possono essere una croce o diventare amici veri, da frequentare anche al di fuori dell’orario di lavoro.

Certo, la rete di interazioni (più o meno piacevoli) che si crea in un ufficio, in una fabbrica e in tutti gli altri ambienti professionali è anche questione di fortuna perché dipende dalla personalità di chi incontriamo sulla nostra strada.

Ma per coltivare relazioni piacevoli sul lavoro, secondo gli psicologi, molto di ciò che si può fare resta in mano nostra.

I colleghi di lavoro possono essere irritanti ma anche, al bisogno, veri e propri salvatori. Di certo, bisogna saperli prendere e imparare a conviverci. Ecco come, secondo gli studi.

1. FASTIDIOSO, MA MI PIACI

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La convivenza forzata con persone che, di fatto, sono degli estranei in effetti non è facile: i colleghi hanno età, storie e soprattutto caratteri diversi.

Lo scoglio più difficile da superare è andare al di là dei tratti personali che riteniamo irritanti (lo scorbutico, il chiacchierone ecc.), ognuno di noi del resto ha comportamenti che non sopporta (negli altri).

Risultato: il conflitto più o meno aperto con il collega molesto sarà inevitabile e la produttività, ovvero la “resa sul lavoro” di entrambi colerà a picco.

Secondo gli psicologi bisognerebbe invece essere capaci di mettere a fuoco soltanto la relazione di lavoro e pensare soprattutto a quella, magari cercando di trovare i pregi della persona irritante (quasi tutti ne hanno: l’odiato vicino di scrivania potrebbe avere anche qualità oppure, pur restando ciò che è, potrebbe essere molto capace sul lavoro).

Perché, come affermano Elwood Chapman e Barb Wingfield, esperti statunitensi di gestione delle risorse umane, coloro che permettono al carattere altrui di influire sul proprio atteggiamento sono destinati a soffrire.

«Con le persone che si frequentano al di fuori del posto di lavoro le cose sono diverse», fanno notare. «Di conseguenza, alcuni si aspettano che i rapporti tra colleghi seguano le stesse leggi della vita quotidiana, ma non è così».

Presto si impara invece che essere inseriti in un team vuol dire adeguarsi a regole non scritte per quanto riguarda tutti gli aspetti del comportamento: il modo di vestire, di parlare, di scrivere, di muoversi e di socializzare.

E bisogna gestire le proprie debolezze e idiosincrasie in un contesto in cui a volte forma e apparenze contano quanto, se non di più, della sostanza. Che fare, dunque?

2. GRAZIE DI ESSERCI

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Il primo “segreto” per una buona convivenza è praticare la “reciproca gratitudine”.

Sembra una cosa ovvia ma ringraziarsi vicendevolmente dopo aver raggiunto un buon risultato in team (non importa se gli altri membri del gruppo sono parigrado, sottoposti o superiori) fa la differenza.

Di più: ringraziarsi è fondamentale perfino prima di cominciare un progetto di lavoro.

Lo ha dimostrato una recente ricerca condotta all’Università della California a San Diego: a 200 studenti di marketing divisi in gruppi di lavoro è stato dato un compito impossibile e quindi molto stressante: dovevano ideare una bicicletta da commercializzare agli studenti del campus elaborando il relativo business plan, e tutto ciò in soli 6 minuti.

I membri dei team che si erano reciprocamente ringraziati e stretti la mano prima di cominciare hanno avuto più idee, ma soprattutto, dato che indossavano alcuni dispositivi medicali, è stato possibile rilevare che la loro pressione sanguigna e il battito cardiaco avevano le caratteristiche di chi affronta una sfida e non quelle di chi invece ne è spaventato (cioè non mostravano vasocostrizione); mentre chi non si era ringraziato era – anche dal punto di vista fisiologico – meno disposto a mettersi in gioco.

Insomma, il consiglio giusto è considerare i colleghi una risorsa anziché un ostacolo, anche perché osservare come si muovono gli altri, come affrontano le difficoltà, quanto sono propositivi e come gestiscono gli errori è una continua fonte di insegnamento, soprattutto se si tratta di colleghi esperti.

E dopo averli osservati un po’ si può decidere su chi investire dal punto di vista umano e chi invece va (se possibile) evitato.

3. RECITAZIONE PROFONDA. NON SOCCOMBERE

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Possono perfino diventare provvidenziali: nei casi di emergenza, quelli in cui proprio non si riesce a portare a termine il compito assegnato, molti di noi hanno almeno un collega pronto a tirarci fuori dai guai.

Gentilezza e disponibilità, dunque. E sembrerebbero scontate, come abbiamo già detto, ma metterle in pratica non è affatto semplice (per verificarlo basta fare il test al termine di questo articolo).

Gli esperti di psicologia del lavoro chiamano il sistema per diventare i colleghi ideali “Deep acting ” (recitazione profonda). Si tratta di forzarsi ad assumere un atteggiamento positivo verso i compagni di lavoro “credendoci” davvero e finché questo modo di fare non diventerà quello spontaneo.

Non basta essere gentili, dunque, bisogna intervenire sul proprio stato d’animo per cambiarlo. Allison Gabriel, ricercatrice all’Università dell’Arizona, in una vasta ricerca condotta su 2.500 lavoratori ha dimostrato che chi riesce a mettere davvero in pratica il metodo è più felice e soddisfatto della propria vita professionale. Facile vero? Mica tanto: le controindicazioni non mancano.

I ricercatori dell’Università della Georgia (Usa) hanno recentemente dimostrato che la gentilezza forzata ha un costo cognitivo alto che può portare chi la pratica a distrarsi di più sul lavoro, a causa della stanchezza mentale. Sarà gentile sì, ma andrà a casa esausto.

Anche con tutti questi limiti, riassumendo, con i colleghi la ricetta ideale è essere positivi, mantenere aperta la comunicazione, cercare di non essere troppo sensibili alle differenze caratteriali, utilizzare spesso la gratificazione reciproca ed essere capaci, in caso di controversie, di fare il primo passo per riavvicinarsi, non importa se si è dalla parte del giusto.

Per ripristinare i buoni rapporti Chapman e Wingfield suggeriscono di rivolgersi al collega con una frase tipo: “Per quanto mi riguarda il nostro rapporto è importante e vorrei sapere che cosa posso fare per riaggiustarlo e conservarlo nel tempo”.

Insomma, occorre essere disponibili a dare di più di ciò che si riceve e soprattutto permettere all’altro di salvare la faccia (mai quindi umiliare qualcuno anche se ha torto marcio). Bisogna poi cercare di non reagire con rabbia ai piccoli contrattempi, perché alla fine chi perde le staffe passa dalla parte del torto.

Il suggerimento di Chapman e Wingfield è ripetere a se stessi che le persone in gamba passano oltre con eleganza in caso di episodi spiacevoli e non si lasciano trascinare in liti futili.

4. NO AI PRIMI DELLA CLASSE

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Questo non significa soccombere o lasciarsi maltrattare da colleghi “tossici”, disposti a tutto pur di primeggiare.

Innanzitutto i conflitti non vanno sepolti dentro, cercando di far finta di nulla: in un rapporto di lavoro pensare a se stessi come vittime comporta cattivo umore, risentimento, stress mentale e qualche volta esplosioni di rabbia.

Con il collega che vuole pestarti i piedi e si attribuisce tutti i meriti meglio passare all’azione. Il metodo migliore è prenderlo da parte e fare un discorso che suoni più o meno così: “Per me il mio lavoro è importante quanto lo è per te il tuo. Io non amo la competizione ma ti dico anche che non sarò la tua vittima. Non prenderti mai più gioco di me”. Molto spesso funziona e il prepotente di turno cercherà qualcun altro su cui sfogarsi.

Il rapporto di lavoro più importante è naturalmente quello con il capo che, se si incrina, va riaggiustato subito, ricordando che non tutti i capi sono a proprio agio con lo status di “superiore” e magari tendono senza volere a mostrarsi troppo severi o troppo amiconi, oppure – peggio – ambivalenti.

Se provare a usare il metodo del ringraziamento reciproco oppure definire con fermezza qualche limite ovviamente dipende dalle situazioni, ma un ottimo modo per ingraziarsi un superiore è proprio avere eccellenti rapporti con i colleghi.

La capacità di lavorare bene in gruppo è sempre molto apprezzata dai capi che (anche giustamente, visto che di solito hanno altro da fare) non vogliono e non possono perdere tempo a dirimere controversie caratteriali tra colleghi.

Attenzione poi all’orgoglio e alla sindrome da primi della classe: chi si dà più da fare e magari porta più risultati finisce per provare disagio guardando la bassa produttività altrui, se ne lamenta e così finisce per perdere il sostegno degli altri membri del gruppo, e alla fine l’intero team funziona male.

In questi casi, di nuovo, occorre mettere in campo tecniche di risoluzione dei conflitti come la comprensione reciproca, la contrattazione o la collaborazione. Sembra una corsa a ostacoli, ma ne vale la pena: in un buon ambiente di lavoro non sembra nemmeno... di lavorare.





5. LE TRAPPOLE DA EVITARE

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Ecco, secondo la studiosa tedesca Barbel Wardetzki, quali sono le trappole più comuni da evitare perché l’ambiente di lavoro resti piacevole.

- SE NON SEI STATO TU...
È la caccia al colpevole, in cui si cerca di incolpare un altro del fallimento di un progetto. Per difendersi occorre non stare al gioco e ricostruire in maniera puntuale tutti i passaggi degli avvenimenti accaduti, i contributi dati affinché il progetto riuscisse e i motivi (quindi le responsabilità) del fallimento. Va ricostruito il ruolo anche delle altre persone coinvolte.

- CE L’HANNO CON ME
In molti si lamentano di continuo del carico di lavoro, dell’ingiustizia, della durezza del capo. Chi fa così spera di attirarsi aiuto e una diminuzione della mole di lavoro. Anche se tutti, chi più chi meno, abbiamo motivi di lamentele, si può rispondere: “Sì ti capisco, però finora te la sei cavata benissimo”.

- TI HO SCOPERTO
Il capo o il collega critica il presunto colpevole di qualcosa per far sì che non si ponga attenzione ai suoi errori. In questo caso la cosa migliore è smascherare il gioco dicendo “vedo che non fa che sottolineare solo i miei errori, ma ce l’ha con me?”.

- COSÌ NON VA
Il capo o il collega non fa che criticare, ma se gli si chiede che cosa c’è che non va ci si accorge che in realtà non ha argomenti. Si tratta spesso di persone poco creative che vogliono così farsi notare. Ma si può coinvolgerle dicendo: “Dato che sei bravo a trovare il pelo nell’uovo, sei la persona giusta per capire che cosa c’è che non va in questo progetto”.

- SÌ, PERÒ...
Trovare sempre un argomento contrario per non portare avanti un’azione è un modo per non agire e non prendersi responsabilità. È un atteggiamento difficile da contrastare perché porta chi fa proposte a credere che le sue idee siano sbagliate. Meglio prendere in mano le fasi successive del lavoro invitando i colleghi a partecipare comunque.








Note

COLLEGA “TOSSICO”? FATE COSÌ
1 Evitate che si appropri del successo altrui.
2 Definite in modo chiaro le sfere d’azione di ognuno.
3 Se ama mettersi sempre in mostra lasciategli comunque spazio in qualcosa.
4 Trattatelo con distacco, evitando di offendervi se attacca.
5 Riconoscete i suoi meriti, se li ha.
6 Se rifiuta di collaborare, prima di rivolgervi al capo tentate di trovare un terreno comune o un compromesso.
7 Respingete i suoi attacchi e provate a inserire nella risposta qualcosa che sottolinei i vostri meriti, dimostrando di conoscere il vostro valore.

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