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Come gestire i conflitti: l’arte della mediazione

Noi stessi dovremmo essere capaci di mediare tra posizioni diverse e gestire costruttivamente un conflitto. Ma non è facile…

La mediazione è una competenza complessa, frutto di una conquista personale basata su consapevolezza, empatia, autocontrollo e… un pizzico di tattica.

Per ulteriori approfondimenti sull’argomento, vi consigliamo la lettura dei libri “Surfando sul conflitto. Esercizi e tecniche per evitare la trappola del conflitto e migliorare le relazioni” di Tiziana Fragomeni e “La scienza della negoziazione” di George Kohlrieser.


 

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1. Siamo come animali...

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Una delle cose più complicate, nella vita di coppia, è decidere sulle vacanze: il problema non è tanto il viaggio in sé quanto il mettersi d’accordo sulla meta se, ad esempio, lui vuole andare in montagna e lei al mare.

Ma anche sul lavoro o tra amici la vita ci pone quotidianamente di fronte a questo genere di “sfide”. L’abilità di contrattare e mediare efficacemente tra posizioni diverse vale oro.

È una competenza complessa, che richiede intelligenza, introspezione e un minimo di tattica. Secondo molti esperti, la capacità di mettersi d’accordo sta tutta nella gestione dei conflitti interpersonali.

Se non sappiamo gestire il conflitto, infatti, lo scontro inevitabilmente degenera e la discussione si trasforma in un litigio fatto di offese reciproche. In questo caso la qualità dei contenuti si deteriora perché è in atto una sfida, molto più antica, tra chi vince e chi perde. In pratica, quel che succede nelle liti da talk show.

La mediazione è proprio l’opposto. Richiede di acquisire consapevolezza su ciò che accade dentro di noi. Purtroppo però di fronte a un diverbio di idee la prima e più istintiva reazione non è quella di cercare un accordo.

L’innesco di un conflitto determina una risposta automatica del nostro organismo definita di “attacco o fuga”. Ciò significa che istintivamente siamo portati – come gli animali nelle dinamiche di difesa del territorio – a scontrarci per avere la meglio sull’altro.

Se questo comportamento poteva funzionare agli albori dell’evoluzione, oggi è soltanto dannoso. In una società evoluta come la nostra mediare implica un lavoro più oneroso. Occorrono competenze relazionali.

Per esempio, saper interpretare le dinamiche, ascoltare, comunicare ed essere empatici così da riconoscere gli interessi altrui ed esprimere i propri. Il tutto è però complicato dal tipo di rapporto che intercorre tra noi e gli altri: un’incapacità di mediare tra persone che non intrattengono una relazione significativa può non causare danni eccessivi.

Le cose invece possono cambiare se, per esempio, devo negoziare con qualcuno con cui ho bisogno di mantenere buoni rapporti: pensiamo ai rapporti tra colleghi di lavoro o con i vicini di casa.

 

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2. Litigare (bene) fa bene

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Del resto, conflitti e divergenze di idee non sono solo inevitabili, ma persino utili.

Se ne era accorto già verso la fine degli anni Cinquanta uno dei più noti sociologi statunitensi, Lewis A. Coser.

Nel suo saggio Social conflict and the theory of social change (Conflitto sociale e la teoria del cambiamento sociale), pubblicato dal British Journal of Sociology, l’autore spiegava come i conflitti servano a mantenere la coesione nei gruppi umani, rafforzando la partecipazione dei membri stessi.

Un attrito in famiglia o in un team di lavoro può aumentare la solidità delle relazioni. Ma a una condizione: che sia gestito con intelligenza, non con rabbia o rancore. Un contesto in cui la mediazione dei conflitti è particolarmente importante è quello dei gruppi di bambini e adolescenti, come sono le classi scolastiche.

Proprio su questo tema Luisa Lauretta, psicologa clinica e formatrice presso l’Associazione italiana di counselling, spiega come in occasione di diverbi tra bambini – che naturalmente si vengono a creare già nella scuola elementare – sia necessario educare alla negoziazione: «Occorre aiutarli a riconoscere le reciproche differenze, evitando ogni forma di giudizio e di colpevolizzazione», scrive.

Purtroppo quest’ultimo aspetto è particolarmente difficile. Spesso riteniamo il conflitto come qualcosa che non è “da bravi bambini”. Si pensa cioè che di fronte a un diverbio sia meglio lasciar perdere dando ragione all’altro.

Questo tipo di educazione è negativo: spinge a considerare il conflitto e le divergenze di opinioni come qualcosa di sbagliato tanto da provare disagio di fronte a ogni tentativo di mediazione e di confronto chiarificatore.

 

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3. Il cervello non vuole conflitti ma la società non ci aiuta

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Il problema grosso è che spesso temiamo, anche da adulti, che un disaccordo possa minare i rapporti con gli altri. Peccato che evitare lo scontro non fa che alimentare in noi la frustrazione.

Secondo gli scienziati, la ragione di questo tipo di comportamento potrebbe essere profonda: una decina di anni fa il neurologo Vasily Klucharev del Donders center for cognitive neuroimaging di Nijmegen (Olanda) spiegava in uno studio su Neuron come il nostro cervello sia costruito in modo da adeguarsi all’opinione del gruppo di appartenenza.

Tramite risonanza magnetica aveva individuato l’attivazione di due aree cerebrali connesse ai comportamenti sociali, la porzione rostrale del cingolo e il nucleo accumbens: se la prima controlla la messa in atto dei comportamenti, la seconda è implicata nell’apprendimento sociale.

Nel corso di un esperimento emerse come, nel cervello di ciascuno dei soggetti sotto esame, le due aree si attivassero dopo aver espresso un’opinione difforme da quelle degli altri: in pratica il cervello umano invia alla coscienza un segnale di allerta ogniqualvolta proviamo disaccordo con le opinioni del gruppo del quale facciamo parte.

E questo, in ultima analisi, ci indirizzerebbe a uniformarci con gli altri. Se è vero che queste dinamiche sono dunque in gran parte innate, è però indubbio che oggi viviamo in una società che nulla fa per insegnarci ad affrontare il disaccordo in modo maturo invece di evitarlo del tutto.

Siamo immersi in una totale analfabetizzazione alla gestione costruttiva dei conflitti. La maggioranza delle persone ritiene che se uno ha ragione, l’altro per forza di cose deve avere torto.

Solo la capacità di mediare può quindi condurci a scoprire una terza soluzione, ovvero una forma di accordo che consenta a entrambe le parti in gioco di ottenere il massimo.

 

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4. Le cinque qualità del buon mediatore

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Riuscire ad avere la meglio nei diverbi è una dote rara. Psicologi ed esperti di mediazione individuano alcune caratteristiche tipiche del bravo negoziatore, che deve essere preparato ad affrontare i dissensi salvaguardando le buone relazioni con gli altri.

1. Sa ascoltare
Prima di iniziare una discussione il bravo mediatore è capace di ascoltare i bisogni dell’altro senza anteporre immediatamente i propri.

2. Sa cooperare
Il mediatore non colpevolizza gli altri, ma si concentra su come le persone possono affrontare insieme il problema. Perciò evita i comportamenti istintivi e automatici che potrebbero portare all’antagonismo e a litigi.

3. È razionale
Quando l’altro è ostile, il buon mediatore lascia cadere le provocazioni per concentrarsi sul problema, sapendo distinguere la componente soggettiva da quella oggettiva del problema da risolvere.

4. È empatico
Sa riconoscere paure, emozioni e bisogni propri e dell’altro. Le donne sono avvantaggiate... Essendo “progettate” per essere madri hanno la capacità di cogliere velocemente i segnali che l’altra persona invia.

5. È persuasivo
Sa convincere l’altro delle proprie ragioni, ma lo fa sempre in buona fede: solo così ispira fiducia nell’interlocutore senza manipolarlo.

 

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5. Impariamo a mediare anche sul lavoro

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Contrattare con un cliente o un fornitore oppure trovare un accordo con un collega su un progetto da portare avanti insieme richiede mediazione, empatia e capacità di immedesimarci nell’altro. Qualche consiglio ci può aiutare.

1. Arriviamo preparati
Prima di incontrare la controparte, facciamoci un’idea di che persona è, di come comportarci e che linguaggio usare per entrare in sintonia.

2. Costruiamo un clima favorevole
Non sottovalutiamo l’importanza delle chiacchiere per “rompere il ghiaccio”. Per essere efficaci devono adattarsi al tipo di soggetto di fronte a noi e alla relazione che abbiamo con lei/lui.

3. Parliamo lentamente
Non c’è cosa peggiore di un eloquio frettoloso che comunica nervosismo e paura, quasi avessimo qualcosa da nascondere: usiamo un tono di voce caldo, basso, che infonda sicurezza e senso di autocontrollo.

4. Osserviamo l’altro
Stiamo attenti a come reagisce l’altro: ci aiuterà a tarare il nostro linguaggio. Da un’espressione degli occhi o della bocca, per esempio, potremo intuire che la nostra controparte si sta innervosendo.

5. Occhio alle parole
Chris Voss, negoziatore internazionale per l’FBI e autore con Tahl Raz di Volere troppo e ottenerlo. Le nuove regole della negoziazione, suggerisce un trucco: per creare fiducia ed empatia è utile, quando rispondiamo all’altro, ripetere le sue ultime tre parole.

 

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