Alla larga dai manuali che promettono di aiutarci a migliorare noi stessi.
Non ne abbiamo bisogno: andiamo bene come siamo, visto che proprio accettando i nostri limiti troveremo la chiave della felicità.
Ecco come imparare a piacersi di più!
1. I corsi di “miglioramento personale” non sono la strada giusta
Migliora te stesso, Reinventa la tua vita, Leader di te stesso, Cambio vita in 6 comode lezioni...
Basta fare un giro libreria per trovare una marea di volumi con titoli simili a questi, che ci spiegano come diventare persone migliori, superare i nostri limiti e cambiare la nostra personalità.
Indirettamente sembrano volerci confermare la nostra paura di non essere mai all’altezza delle situazioni. Ma tecniche e corsi di “miglioramento personale” sono la strada giusta?
Secondo Svend Brinkmann, psicologo dell’Università di Aalborg (Danimarca) e autore di Contro il self help. Come resistere alla mania di migliorarsi (Cortina editore), assolutamente no.
Per Brinkmann la mania dell’autoaiuto è la iattura della società attuale: sarebbe proprio l’incapacità di accettarci pacificamente per quel che siamo, e quindi di amarci, a causare i problemi che questi volumi vorrebbero risolvere. Il tema è tutt’altro che irrilevante: il malessere che ci spinge a cercare facili soluzioniin libreria ha ricadute notevoli.
Nel 2017 l’Organizzazione mondiale della sanità ha lanciato un allarme: la depressione è in costante crescita nel mondo e in particolare nei Paesi occidentali.
Secondo lo studio Depression and other common mental disorders, l’incidenza della patologia è aumentata del 18,4 per cento in dieci anni, arrivando a colpire 322 milioni di persone sul pianeta, con picchi nelle società sviluppate.
Secondo molti autori i vissuti depressivi sarebbero connessi proprio al senso di inadeguatezza che nasce da un ossessivo confronto con ciò che vorremmo essere e non siamo: è quello a cui si riferisce il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han quando descrive l’Occidente come una “società della stanchezza”.
In pratica, avverte, abbiamo perso entusiasmo ed energie per colpa di modelli sempre più difficili da raggiungere.
2. Diventiamo ciò che siamo
Dovremmo allora gettare via i manuali di autoaiuto e smettere di fare confronti? Non esageriamo. Il confronto sociale fa parte della natura umana.
È evoluzionisticamente utile perché permette di migliorarci. Il problema nasce quando operiamo confronti sociali troppo verso l’alto.
Occorre essere realistici e smettere di inseguire modelli lontani dalla nostra natura, da quel che siamo veramente.
La consapevolezza dei propri bisogni fornisce la direzione verso cui attivarci per trovare la loro soddisfazione. In fondo è quanto già Friedrich Nietzsche intendeva con il suo celebre monito “Diventa ciò che sei”.
«Nella vita cresciamo per processi imitativi», spiega in un’intervista lo psicoanalista e filosofo Umberto Galimberti. «Diventando adulti, però, bisogna staccarsi da questi modelli e diventare quello che propriamente siamo. E la prima condizione per diventare ciò che siamo è conoscere noi stessi e le nostre potenzialità».
Conoscere noi stessi vuol dire anche accettare che non sempre possiamo essere tutto ciò che vorremmo e che non sempre è possibile essere positivi come la società vorrebbe.
«Lamentarsi di qualsiasi cosa non ci aiuterà a trovare il senso della vita, ovviamente», avverte Brinkmann, «ma in effetti è frustrante non potersi togliere qualche peso di dosso ogni tanto».
Insomma, abbiamo tutto il diritto di essere imperfetti e anche di stare male e, riconoscere la nostra rabbia, la nostra delusione, le nostre frustrazioni è tanto importante quanto riconoscere quando siamo felici, soddisfatti, realizzati.
3. Impariamo ad accettarci
In fondo il benessere parte proprio da una serena accettazione della realtà: solo così possiamo cambiare verso il meglio ed essere felici.
Alcuni anni fa l’associazione Action for happiness condusse un sondaggio su cinquemila volontari in collaborazione la psicologa Karen Pine dell’Università di Hertfordshire (Regno Unito).
L’obiettivo era quello d’individuare quali abitudini quotidiane rendano le persone maggiormente felici.
Tra le dieci individuate dai soggetti ne spiccava una: la capacità di accettare se stessi, la propria indole ma anche le emozioni negative e gli accadimenti spiacevoli della vita.
Già dalle piccole cose, infatti, possiamo notare come prendere la vita con filosofia aiuti molto di più che irrigidirci di fronte alle cose che non vanno nel verso giusto.
La psicologa Erin Olivo della Università della Columbia (USA) lo spiega nel suo saggio Wise mind living (Vivere con una mente consapevole): «A chiunque è capitato di essere in ritardo a un appuntamento e che l’ascensore di cui si è in attesa non arrivi. Siamo lì, impazienti, e ci troviamo a premere nervosamente più volte il pulsante come se così facendo potessimo farlo arrivare più in fretta».
Ovviamente non è così: anzi, quell’azione non fa che renderci ancora più nervosi. Al contrario, accettare di essere in ritardo ci consente di mantenere la nostra serenità e in questo modo, magari, di pensare a un escamotage per non fare brutta figura.
4. La passività non c’entra
Questo approccio non rischia di spingerci alla passività e quindi di non fornirci lo slancio necessario a superare i nostri limiti?
Pensiamo alla storia di Bebe Vio, la celebre campionessa di scherma che da bambina perse gli arti per una meningite: se si fosse fermata di fronte all’accettazione del suo handicap non sarebbe diventata un’eccellenza dello sport.
Accettazione di sé non significa rassegnazione, ma consapevolezza delle proprie capacità e bisogni.
È da questa consapevolezza che nasce la volontà di soddisfarli e quindi di auto- realizzarsi. Insomma: accettare che in fondo andiamo bene così come siamo e che la nostra vita non è poi così male è paradossalmente il primo passo per cambiarla in meglio.
Il perfezionismo non è un male... Voler eccellere in tutto può anche essere un bene: uno sportivo che punta al podio ha più possibilità di raggiungerlo di chi non ha ambizioni.
«Il perfezionismo è uno dei tratti più importanti della personalità, un motore che consente di raggiungere risultati ed è determinante nel processo creativo», afferma lo psichiatra francese Frédéric Fanget. Ma attenzione: il perfezionismo è anche un’arma a doppio taglio.
Nel 2007 uno studio condotto su 620 persone presso l’Università di Southampton (Regno Unito) mostrò un legame tra tendenze perfezionistiche e insorgenza della sindrome dell’intestino irritabile, condizione caratterizzata da dolori addominali e diarree e spesso collegata a stati psichici alterati.
Inoltre chi pretende troppo da sé rischia di danneggiare le relazioni con amici, familiari e colleghi, da cui si aspetta troppo.
5. Quanto conta l’amor proprio
La felicità non è così difficile da raggiungere: basta imparare ad amarsi.
L’amor proprio nasce dalla capacità di accettare se stessi, nei pregi e nei difetti.
Uno storico studio sul tema, uscito già quarant’anni fa, lo dimostrava sperimentalmente: Lorrie Shepard, l’autrice della ricerca pubblicata sull’American Educational Research Journal, mostrava come l’autoaccettazione sia fonte di soddisfazione e come questa sia quindi alla base della buona salute psichica.
Chi non sa apprezzarsi ma è ossessionato dall’imperativo del miglioramento costante può sperimentare stress e, in ultima analisi, anche ansia e depressione: secondo due celebri studiosi di questo tema, i canadesi Paul Hewitt e Gordon Flett, questi soggetti sono convinti infatti di poter essere accettati dagli altri solo se sono perfetti.
Per questo credono che ogni loro imperfezione possa portarli a perdere l’amore e la stima degli altri. Al contrario, dirsi ogni tanto “vado bene così come sono” aiuta a comprendere i propri bisogni e osservare i propri pregi e difetti senza compiacimento e autocommiserazione.
Licenziando il nostro coach vivremo meglio... Sono arrivati dagli USA per aiutare persone comuni, ma anche sportivi e manager, a eccellere: sono i coach, i nuovi guru di chiunque senta di non essere mai all’altezza.
Insegnano un approccio positivo alla vita, qualche tecnica di meditazione, danno consigli di sana alimentazione e distribuiscono nozioni di psicologia spicciola. «Coaching e terapia sono diventati strumenti ricorrenti dello sviluppo di sé», scrive Svend Brinkmann.
«Il coach dovrebbe aiutare a trovare risposte dentro di sé e a realizzare pienamente il proprio potenziale: ma ciò è sbagliato». Secondo Brinkmann il coaching rientra in una visione della vita, oggi di moda, centrata sul sé.
La nostra società esalta infatti l’idea di un “superuomo” che non può mai fermarsi, sbagliare o avere dubbi. Ma così lo stress aumenta.
Brinkmann dice: «Licenzia il tuo coach e chiedigli che lezione di vita ha da darti se intendi dirigere lo sguardo al di fuori anziché all’interno di te».