In tempi di pandemia se ne parla come di uno strumento utile per identificare i contagiati, tracciare mappe dei contatti a rischio e isolare i nuovi focolai.
Ma la posta in gioco è alta perché il funzionamento richiede masse importanti di dati personali che potrebbero finire nelle mani sbagliate.
La questione non è nuova: dopo l’attacco alle Torri Gemelle di New York l’11 settembre 2001, gli americani e il mondo occidentale si erano chiesti quanta libertà fossero disposti a sacrificare in nome della sicurezza.
Oggi la domanda è la stessa, nonostante la posta in gioco, ossia la salute, sia diversa. In realtà, come hanno dimostrato i risultati di molti programmi di controllo su larga scala messi in atto da alcuni governi, i vantaggi non sono così significativi.
Quindi, nel caso del coronavirus, non dobbiamo aspettarci miracoli da queste app. Scopriamo perché.
1. Algoritmi e privacy
Quella del coronavirus è la prima pandemia nell’era degli algoritmi.
A quasi un secolo di distanza dalla Spagnola, l’influenza che ha fatto 50 milioni di morti nel mondo al termine della Prima Guerra mondiale, oggi però possiamo contare sull’avanzamento di medicina e farmacologia per contenere i contagi e limitare i danni.
Non solo. Corre in nostro aiuto anche la tecnologia.
Oltre al distanziamento sociale e all’igiene, infatti, lo smartphone e le sue funzionalità sembrano adattarsi bene alle esigenze imposte dal COVID-19 e cresce sempre più il numero delle app lanciate sul mercato: per saltare la coda al supermercato, prenotare un posto a Messa, salire sui mezzi pubblici o farsi consegnare a casa ogni tipo di menù.
Sono servizi temporanei, legati alla quarantena, ma è fuori di dubbio che l’epidemia abbia accelerato lo sviluppo del digitale nella nostra quotidianità. Se infatti è vero che abbiamo dovuto sacrificare molto, non abbiamo rinunciato a tutto proprio grazie alle applicazioni telefoniche. E c’è di più.
Oltre a restituirci normalità, l’informatica potrebbe rivelarsi un’arma decisiva per spezzare la catena del contagio, calibrare eventuali interventi di restrizione e isolamento, mappare le aree a rischio, stabilire chi necessita di tamponi e test.
È quanto affermano i sostenitori delle app di tracciamento, software che si installano sul telefonino e consentono di ricostruire i contatti ravvicinati, magari a rischio, che ognuno di noi ha con il prossimo.
C'è anche molta incertezza sul da farsi perché queste app presuppongono un’impressionante raccolta di dati personali, informazioni sui nostri movimenti e forme tacite di sorveglianza che agitano l’opinione pubblica.
2. Alt al contagio con il bluetooth
Le app di tracciamento non hanno bisogno di una connessione al web ma al bluetooth, una rete di scambio dati tra dispositivi mobili che si attiva a distanza più o meno ravvicinata. In forme diverse, nell’emergenza coronavirus, sono già state sperimentate a Singapore, Corea del Sud e Australia.
Per svilupparle vengono create delle piattaforme di test, simili a laboratori virtuali dove nerd e informatici di tutto il mondo possono lavorare liberamente al programma.
Un contributo potenzialmente importante è quello dei due colossi Apple e Google che per una volta hanno deposto l’ascia di guerra per fare fronte comune contro l’epidemia, sviluppando un’interfaccia di programmazione (in gergo, una API) che faciliterà lo sviluppo di app di tracciamento contatti aderenti a una serie di requisiti minimi.
In generale, secondo l’architettura di Google ed Apple, l’app di tracciamento rilascia via bluetooth numeri identificativi anonimi ogni 15 minuti e li condivide con altri dispositivi nelle vicinanze dove è presente la stessa app che ne registra la traccia.
Quando una persona che ha scaricato questa applicazione risulta positiva al coronavirus può segnalarlo con un semplice comando. A quel punto il sistema avvisa in forma anonima tutti i dispositivi che ha memorizzato, cioè che ha incontrato in precedenza e che ne hanno memorizzato la traccia.
Spetta poi a chi riceve la notifica telefonare alle autorità sanitarie o al medico di famiglia per sottoporsi a un controllo o per iniziare una quarantena.
Questa app, dunque, consente di registrare il momento in cui due smartphone si avvicinano per un periodo di tempo significativo e utile alla trasmissione del virus, così come stabilito dalle linee guida dell’OMS, l’Organizzazione mondiale della sanità: poi confronta i dati dei telefoni e notifica ai proprietari dei dispositivi dove è installata se siano venuti a contatto con una persona positiva al coronavirus.
Naturalmente non dice con chi, dove o quando è avvenuto il contatto. Dovrebbe funzionare così anche l’app presa in considerazione dal governo italiano per gestire la Fase 2 dell’emergenza. I cellulari dotati di questa app dovrebbero raccogliere dal server del Ministero della salute i codici anonimi dei contagiati e confrontarli con quelli registrati nella propria memoria. In caso positivo, dovrebbero segnalarlo.
3. E' sempre più importante investire sulla componente umana
Le app di tracciamento possono dunque facilitare la ricostruzione della catena di trasmissione del coronavirus.
Di norma questo sarebbe un lavoro da epidemiologo, cioè è un compito affidato a personale specializzato.
Quando il coronavirus ha messo le ali dalla Cina, da dove si è originato, ed è arrivato rapidamente in Italia e in Europa, questo lavoro investigativo è stato affidato agli ospedali dove ogni paziente positivo viene intervistato per risalire alla cerchia sociale e alle persone che ha incontrato di recente.
Infatti uno dei sistemi per contenere, se non azzerare, un’epidemia come quella che stiamo vivendo è quello di trovare e curare ogni malato e anche di individuare le persone a rischio di contagio.
La velocità con cui si opera il tracciamento è importante perché la propagazione del virus è facile, mentre è difficile e risulta spesso impreciso tracciare i contatti basandosi solo sui ricordi delle persone risultate positive.
Oltre a questo ostacolo naturale, quando il numero dei casi è iniziato a salire, le risorse umane non erano sufficienti per redigere una mappa dettagliata delle interazioni di ogni singolo paziente.
Senza contare che ci possono essere incontri occasionali ma ravvicinati con sconosciuti, impossibili da avvisare. Le app di tracciamento servono potenzialmente proprio a colmare queste lacune. La tecnologia mobile, in altre parole, offrirebbe una “protesi” digitale ai detective dei virus, gli epidemiologi.
Ma non è mai stata utilizzata per un’epidemia. Qualche progetto, mai arrivato in porto, era stato sviluppato negli USA per l’Ebola, una febbre emorragica trasmessa, in Africa e non solo, dai primati all’uomo.
Sarebbe comunque sbagliato aspettarci miracoli da queste app. Ci sono dei limiti nelle tecniche di tracciamento con lo smartphone e spesso non permettono di identificare con precisione tutti i contatti ravvicinati.
Inoltre l’app di tracciamento è progettata sui parametri di distanza e di tempo stabiliti dall’OMS per la trasmissione del virus: meno di 2 metri per 15 minuti.
Se il contatto tra due persone avviene per esempio schiena contro schiena nel vagone di una metropolitana è improbabile che si verifichi il contagio perché bisogna essere faccia a faccia. L’app lo segnalerà comunque come un rischio e questo è un limite invalicabile con la tecnologia attuale.
Non è nemmeno il solo perché il virus si trasmette anche dalle superfici contaminate come le maniglie dei mezzi pubblici, un tipo di contatto che l’app non è in grado di rilevare.
Ecco perché, per contenere un’epidemia come quella del coronavirus, è sempre più importante investire sulla componente umana, cioè sugli operatori specializzati, per i quali questo tipo di tecnologia può costituire un sussidio in più.
Non è un caso che negli USA, in Massachusetts e California, dove certo non mancano le competenze informatiche, abbiano arruolato un esercito di addetti per intervistare telefonicamente uno a uno i malati di COVID-19 e le persone potenzialmente infette.
4. Limite legato al sistema operativo dello smartphone e al consumo di batteria
Il secondo limite delle app di tracciamento per il coronavirus è legato al sistema operativo dello smartphone e al consumo di batteria.
Il bluetooth è una delle connessioni più “energivore” presenti sui cellulari.
Per far fronte a questo problema, le app di tracciamento per il COVID-19 dovranno appoggiarsi su una versione di connessione a basso consumo energetico, chiamata Low-Energy Bluetooth, già utilizzata nella telemedicina, per esempio, per i dispositivi di controllo della pressione arteriosa e la misurazione della febbre.
Inoltre, alcune applicazioni di questo genere, come TraceTogether sviluppata a Singapore, per funzionare devono essere attive in background (cioè devono essere state preventivamente avviate) e prevedere il bluetooth operativo.
Ciò significa che il telefono deve essere sempre acceso in tasca e l’app aperta in primo piano, che è una prerogativa bloccata per questioni di sicurezza sugli smartphone con il sistema operativo iOS.
Di recente l’NHSX (l’unità del governo britannico responsabile della definizione e dello sviluppo delle migliori pratiche per la tecnologia, il digitale e i dati del servizio sanitario nazionale) ha dichiarato di essere in grado di far funzionare il software di tracciamento dei contatti “sufficientemente bene” sui telefoni senza che gli utenti debbano mantenerlo attivo e in background sullo schermo.
Infine, perché sia efficace, l’app di tracciamento dovrebbe essere scaricata almeno dal 60 per cento della popolazione italiana, che equivale all’80 per cento dei proprietari di un telefonino.
Al contrario, potrebbe funzionare solo su base locale, dove l’applicazione fosse fortemente presente. Ma in Italia, come in altri Paesi europei, si è deciso di non renderla obbligatoria perché i vantaggi sono inferiori ai rischi.
5. Il rischio della sorveglianza
Le app di tracciamento per il coronavirus, se non opportunamente progettate, possono registrare moltissimi dati sui nostri movimenti e incontri.
È quanto già avviene in società basate sulla sorveglianza di massa e senza limiti come la Cina che, per le democrazie occidentali, non è certo un modello.
Da una parte, dunque, le informazioni su percorsi e spostamenti sono un pericolo per le libertà individuali. Dall’altra, applicazioni mobili opportunamente progettate potrebbero essere d’aiuto per affrontare un virus che uccide. Da quale lato pende la bilancia?
Senza adeguate garanzie i sistemi di profilazione di massa resi possibili dalle tecnologie digitali generano diseguaglianze e discriminazioni che possono limitare tutti i diritti delle persone, nessuno escluso.
Tra i requisiti necessari perché questi software siano di supporto al personale medico senza essere un pericolo per la privacy c’è la decentralizzazione dei dati. Ciò significa che i dati non vengono tenuti tutti insieme, ma sono lasciati sui telefoni dei cittadini un tempo limitato per scomparire periodicamente e comunque a fine emergenza.
Ancora. Per garantire un maggiore anonimato nel nostro Paese si è orientati a scegliere una tecnologia che non memorizza le coordinate di localizzazione del GPS dello smartphone.
In Corea del Sud, dove questi dati erano utilizzati, i cittadini hanno iniziato a uscire senza telefono.
Ma chi potrebbe sfruttare questi dati in modo illecito? Anche senza evocare organizzazioni criminali, le informazioni presenti nelle app di tracciamento potrebbero arrivare a un datore di lavoro per sapere chi della sua azienda è contagiato oppure a un assicuratore per cambiare il prezzo di una polizza.
Oppure ancora a un avvocato che sarebbe tentato di usare le informazioni sugli spostamenti del signor Mario Rossi all’interno di una causa legale.
Per tutti questi motivi, in merito alle app di tracciamento il Garante italiano della privacy e altre istituzioni europee hanno chiesto di stringere un patto di fiducia tra Stato e cittadini basato su alcuni requisiti: dallo scopo unico dell’app alla minimizzazione dei dati raccolti, dalla temporaneità del software (sparisce con tutti i dati dopo l’epidemia) a un elevato grado di sicurezza informatica.
L’app, inoltre, dovrà essere disponibile pubblicamente, con il codice sorgente completo e con licenza di software libera e quindi verificabile da parte di chiunque. Insomma, il diritto alla salute è sacrosanto, ma non è l’unico da tutelare.
Prima di metter in campo le app di tracciamento contatto, dobbiamo accertare che i rischi di questi programmi non superino i benefici.
Coinvolgiamo gli operatori sanitari per capire che cosa potrebbe essere loro d’aiuto per contrastare l’epidemia e poi progettiamo soluzioni che massimizzino i benefici senza creare pericolosi effetti secondari, adesso o a emergenza terminata.