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Cosa ci dicono i sogni: i segreti del mondo onirico

Bizzarri, spaventosi, misteriosi o piacevoli al punto che non ci si vorrebbe svegliare.

Sognando per tutta la notte, ci capitano “esperienze” di ogni genere e fin dall’antichità l’uomo si è sempre chiesto che cosa significassero quelle visioni così potenti da sembrare reali, capaci di emozionare quasi più della vita vera.

Una curiosità che non si spiega solo con la necessità di indovinare il futuro o i numeri vincenti al lotto.

Già gli antichi, infatti, affascinati da questo strano fenomeno notturno, cercavano di dare un significato ai sogni: alcune civiltà arcaiche, in anticipo sulle scoperte delle neuroscienze degli ultimi anni che hanno certificato la continuità fra il pensiero cosciente e il sogno, non ponevano una netta distinzione fra realtà e visioni oniriche, ma consideravano il sogno come un “mondo” dove si andava di notte, più misterioso e potente di quello diurno.

Da “filo diretto” con le divinità, a finestra sull’inconscio. In quale stato mentale ci troviamo quando sogniamo? E perché viaggiamo in un mondo parallelo dove tutto è possibile?

Ecco le ultime scoperte sui ogni (ma  vediamo anche come sono stati interpretati nei secoli).

 

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1. Trascritti su tavolette d’argilla e la strada per il vero sé

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L’anima, vagando nel sogno, poteva avvicinarsi agli spiriti, dialogare con dèi e defunti e trarne segni utili e verità per la vita terrena.

Iniziò così l’interpretazione dei sogni e i primi a tenerla in gran conto furono gli Accadi della Mesopotamia, che trascrissero su tavolette d’argilla in caratteri cuneiformi una sorta di libro sul tema.

Avevano un dio del sogno, Zaqiqu, oniromanti a cui rivolgersi per capire qualcosa delle visioni più bislacche, rituali da seguire per evitare guai in caso di incubi, fin da allora ritenuti messaggi da demoni maligni.

Nei secoli successivi, Greci e Romani furono ugualmente affascinati dai sogni: li consideravano profetici segnali inviati dalle divinità, visioni simboliche capaci di guarire o anche diagnosticare malattie (la pensava così il medico Ippocrate secondo cui, per esempio, sognare un fiume che scorre poteva indicare qualche guaio alla circolazione sanguigna).

E se fin qui i sogni furono una parte rilevante delle pratiche religiose perché ritenuti un anello di congiunzione fra umano e divino, nel Medioevo invece furono guardati con maggior sospetto e giudicati spesso pericolosi, demoniaci, mentre l’oniromanzia che li interpretava era ritenuta superstizione.

C’è voluto Sigmund Freud (nella foto in alto a sinistra) per riportare l’interesse sul significato dei sogni, che lui chiamava “la via regia per l’inconscio”: grazie al neurologo austriaco infatti i sogni non sono più considerati portatori di presagi, ma un modo per conoscere se stessi e la propria personalità.

Nel suo libro del 1899, L’interpretazione dei sogni, si trovano molte delle basi del pensiero del fondatore della psicoanalisi: Freud spiega infatti che sogniamo per riportare alla luce ciò che abbiamo rimosso dalla coscienza, materiali “incandescenti” che solo così trovano uno spiraglio verso la consapevolezza.

Nella psicoanalisi freudiana quindi esaminare il sogno è la via maestra per acquisire una superiore conoscenza di se stessi accedendo a ciò che è inaccessibile alla coscienza: nel sogno possiamo scostare la pesante tenda che mettiamo su ciò che è scritto più profondamente dentro di noi, su traumi del passato, desideri inconfessabili, esperienze rimosse.

Un mondo interiore inconscio che spesso è censurato perché può essere socialmente inaccettabile e che invece nel sogno viene a galla, anche se va decodificato: il contenuto del sogno, quello che vediamo succedere durante l’attività onirica, non è mai il senso vero di ciò che è celato nel profondo.

In altri termini, se il trauma che giace in fondo alla mente (e crea tensione e disagio a cui da svegli non riusciamo a porre rimedio perché cerchiamo di tenerlo il più possibile sepolto) è per esempio un lutto vissuto da bambini, non sogneremo chi non c’è più, ma costruiremo una visione onirica in cui mettiamo qualcosa che per noi rimanda a quella persona e a quel lutto.

Il compito dell’analisi è perciò fare il percorso inverso, identificare il simbolo e scovare quel che c’è sotto: l’esatto contrario insomma della smorfia napoletana, per cui sognare un’anziana signora indica sempre qualcosa che ha a che fare con la saggezza (e dover giocare al lotto il numero 89).

Così lo stesso sogno, per Freud, in due persone differenti può avere interpretazioni completamente diverse, perché a seconda del vissuto personale l’immagine di una vecchia signora può “nascondere” significati perfino opposti: è il sognatore, nella relazione con l’analista, a dare gli “indizi” che aiutano a decodificare i sogni.

 

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2. Simboli ambigui e dialogo tra il passato e l’oggi

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Le idee di Freud furono rivoluzionarie e dirompenti, ma negli anni sono state messe fortemente in discussione.

Già Carl Gustav Jung (foto accanto), che all’inizio ne condivise le teorie, nel 1913 si staccò dalla concezione freudiana del sogno.

Secondo lui non poteva essere solo il segno di un “travestimento” dei desideri repressi, ma un’espressione della persona nella sua interezza, indipendente da volontà e coscienza, in cui compaiono simboli che hanno significato come tali (sognando un campanile, insomma, non per forza c’è sotto un richiamo fallico, può darsi che stiamo inserendo nella visione onirica un elemento religioso e basta).

Così a metà del secolo scorso la psicoanalisi non era più tutta centrata sulla vita onirica, ma anche sul comportamento consapevole e sul conscio: erano gli anni delle prime scoperte delle neuroscienze, che nei decenni successivi hanno cambiato ancora di più l’approccio psicoanalitico ai sogni.

«Ora sappiamo infatti che sognare e pensare sono due processi analoghi, due modi che abbiamo per “digerire” le esperienze della vita: perciò è importante non tanto il contenuto del sogno, quanto il fatto stesso di sognare», osserva Anna Maria Nicolò, presidente della Società Psicoanalitica Italiana.

Con il sogno possiamo elaborare conflitti, angosce e traumi che altrimenti subiremmo, somatizzandoli o mettendo in atto comportamenti alterati. Come se il sogno fosse un apparato digerente, non guardiamo a quel che c’è dentro ma dobbiamo assicurarci che funzioni.

A volte il processo fallisce e produciamo un incubo, che è un sogno “abortito”, un’elaborazione mancata: esperienze negative e traumatiche spesso si manifestano così, quando non riusciamo a superarle. Anche i brutti sogni ricorrenti che si interrompono sempre allo stesso punto sono tipici di chi non riesce a superare un’esperienza negativa.

Il sogno viene perciò considerato ancora oggi una porta d’accesso alla parte più profonda di noi stessi, e può anche riguardare traumi antichi di cui non siamo più consapevoli, ma non è più solo un viaggio a ritroso nel tempo, anzi.

Ora si ritiene che sognare consenta di riattivare esperienze passate ma utilizzando l’inconscio del presente, in un dialogo interno di cui il sogno è il contenitore narrativo.

Se infatti il sogno è il pensiero del cervello che dorme e non per forza un “velo” messo su traumi o desideri rimossi, diventa solo un altro mezzo di espressione di noi stessi, che l’analista indaga per aiutarci a capire meglio quel che siamo.

C’è di più, oggi la psicoanalisi ritiene che il sogno non sia più soltanto di chi lo vive: c’è un “inconscio condiviso” fra persone che hanno relazioni forti (una coppia, una famiglia) che può manifestarsi anche nei sogni.

Succede per esempio che il membro di una coppia sogni ciò che l’altro fa (come nel romanzo Doppio sogno di Arthur Schnitzler, dove la moglie sogna il tradimento che il marito vuole mettere in atto), oppure le angosce che l’altro non riesce a verbalizzare.

Può accadere perfino in una buona analisi, in cui si instauri un rapporto forte con il paziente: lo psicoanalista sogna il trauma, la memoria non pensata, il conflitto che l’altro non riesce a sognare da solo. Anche così si può arrivare alla trasformazione emotiva del paziente.

 

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3. Come avere solo visioni piacevoli e cosa sappiamo sui sogni “premonitori”

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L’interpretazione e il significato dei sogni, insomma, va ben oltre i semplici contenuti; pare tuttavia certo che la “qualità” dei sogni sia molto indicativa del grado di benessere interiore.

In altri termini se siamo sereni faremo bei sogni, quando siamo sotto stress saranno più probabili gli incubi.

Una correlazione netta al punto che Pilleriin Sikka, una neuropsicologa del Brain and Mind Center di Turku, in Finlandia, di recente ha proposto di valutare l’umore e addirittura lo stato di salute mentale semplicemente chiedendo di raccontare i sogni.

Del resto sembra vero anche il contrario: se i sogni sono belli influenzano in positivo la giornata, al punto da indirizzare perfino le decisioni che prendiamo da svegli.

Lo ha sottolineato l’American Psychological Association, secondo cui gran parte di noi non resiste alla tentazione di dare significati a ciò che sogniamo: così “ascoltiamo” moltissimo questo nostro vissuto notturno e ce ne facciamo influenzare, nel bene e nel male, nell’umore e nelle scelte quotidiane.

A chi non è successo di guardare con occhi più benevoli qualcuno dopo averlo sognato in atteggiamenti positivi? Il corollario è che, oltre a cercare di capire come i sogni “parlano” di noi stessi per conoscerci meglio, dovremmo anche provare a sognare meglio.

E l’American Academy of Sleep Medicine ha indicato come aumentare la probabilità di riuscirci: la ripetizione immaginativa, in cui si creano immagini positive e si ripete mentalmente lo scenario onirico gradevole durante la veglia, può scacciare gli incubi e riuscire a “chiamare” i bei sogni. Che magari portano davvero con loro un po’ di serenità.

Ma esistono quelli “premonitori”? I sogni possono essere davvero profetici, come si credeva nell’antichità? Fin dalla notte dei tempi ci si interroga su questo e a chiunque è capitato di cercare nelle esperienze oniriche un “indizio” per il futuro o almeno un numero vincente al lotto, ma la scienza per ora non ha dato risposte certe e ovviamente la questione è parecchio complicata da indagare.

Uno degli esperimenti più famosi per rispondere alla domanda risale al 1937, quando negli Stati Uniti fu rapito il figlio del famoso aviatore Charles Lindbergh e l’Harvard Psychological Clinic chiese agli statunitensi di riferire i sogni eventualmente fatti sul bimbo: ne arrivarono 1.300, ma quasi tutti ripetevano le supposizioni dei giornali e solo quattro predissero che il piccolo era stato ucciso e indicarono un luogo di sepoltura.

Spiega Jonathan Smith in Pseudoscience and Extraordinary Claims of the Paranormal (Wiley-Blackwell): «Immaginiamo che ognuno di noi ricordi appena un sogno per notte, solo negli Stati Uniti avremo 110 miliardi di sogni ricordati ogni anno: anche per mera coincidenza, qualcuno è destinato a predire un evento. Ma per un sogno che si avvera, miliardi invece no».

 

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4. Dov’è davvero la nostra mente, quando sogniamo?

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Si spegne la luce e comincia il film. Siamo a letto però, non al cinema. E del film siamo gli unici registi e interpreti, perché stiamo sognando: come ogni notte, come ogni volta che ci addormentiamo.

Dormiamo per un terzo della nostra vita e, a differenza di quel che si pensava fino a poco tempo fa, oggi sappiamo che passiamo tutto questo tempo a sognare: di essere la regina d’Inghilterra o di volare poco importa, come se fossimo in un mondo parallelo dove tutto è possibile.

Ma dov’è davvero la nostra mente, quando sogniamo? Il cervello da sveglio pensa, quando dorme sogna. Non siamo quindi in un posto “speciale”: il cervello non si spegne mai e ha bisogno di produrre sempre un’attività mentale.

Poiché però durante il sonno cambiano un po’ la neurochimica, l’attività elettrica cerebrale, le sensazioni che arrivano dall’esterno, il risultato anziché un pensiero cosciente è il sogno.

Infatti sogniamo sempre, non solo durante la fase di sonno REM (in cui ci sono i tipici movimenti oculari rapidi) come si supponeva fino a qualche tempo fa: i sogni REM sono quelli più complessi e che ricordiamo meglio, ma non sono gli unici.

Del resto se alla sera ci viene chiesto di raccontare quel che è successo nella giornata rammentiamo uno, due episodi importanti e riduciamo le ore di veglia a pochi ricordi salienti.

Lo stesso è vero per i sogni, che ci accompagnano dall’addormentamento fino agli istanti prima del risveglio, ma ce ne ricordiamo solo una parte, quella più strutturata che viviamo appunto durante la fase REM.

Chissà, magari c’è un momento della notte in cui sogniamo di lavarci i denti o grattarci la schiena, ma passa sotto silenzio rispetto ai sogni in cui viviamo da nababbi o incontriamo l’attore preferito.

Certo quel che succede nella vita onirica è spesso bizzarro, per cui viene da chiedersi come un cervello che di giorno lavora “come un impiegato in un ufficio” di notte si sbizzarrisca sul set di film fantascientifici. La risposta è nella peculiare condizione in cui si trova il cervello che dorme.

Yuval Nir, neuroscienziato dell’Università di Tel Aviv, per esempio ha di recente verificato che durante il sonno la corteccia uditiva si accende in risposta a un suono come accade da svegli, ma siccome resta spenta quella peririnale, un’area importante nella memoria e nella percezione consapevole, il cervello non riesce ad avere cognizione di ciò che ha sentito. Una sorta di disconnessione sensoriale a cui si aggiunge un’attività cerebrale differente rispetto alla veglia.

Grazie alla possibilità di analizzare il sonno in maniera più dettagliata, per esempio con gli elettroencefalogrammi (EEG) ad alta densità che usano centinaia anziché pochi elettrodi poggiati sulla testa, si è capito che, come durante la veglia alcune zone lavorano di più e altre meno, così anche durante il sonno certe aree sono più attive, altre meno. Come se il cervello non dormisse mai completamente, il che spiega anche perché sogniamo durante tutto il sonno.

Fra le zone più attive quando dormiamo c’è il “circuito di default”, che comprende aree corticali frontali e altre legate all’elaborazione delle immagini mentali legate ai ricordi: si accende anche quando divaghiamo con la mente da svegli (non a caso si dice “sognare a occhi aperti”), un’attività mentale che non è orientata a uno scopo dettato da richieste esterne e segue una logica associativa più libera. Come quella dei sogni, appunto.

 

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5. Analizzarli su un monitor

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C’è comunque chi prova a “leggere i sogni” dall’esterno.

Giulio Tononi dell’Università del Wisconsin (Usa) ha confrontato le immagini dei sogni con certe tracce sugli EEG e verificato che sognare volti accende il sistema che da svegli ci consente di riconoscere i visi.

Yukiyasu Kamitani dei Computational Neuroscience Laboratories di Kyoto, in Giappone, grazie a tecniche di machine learning ha associato le immagini nei sogni all’attivazione di precisi circuiti neuronali, così da poter leggere che cosa stia sognando una persona solo guardando quali zone si attivano (con un’accuratezza fino al 60 per cento, a suo dire, ma la ricerca non è stata replicata).

«Noi abbiamo studiato chi parla nel sonno e osservato che quando il soggetto durante il sogno articola parole comprensibili si accendono zone corticali connesse alla programmazione linguistica».

«Tutti questi dati indicano che nella veglia e nel sonno possono attivarsi aree simili, ma cambia appunto il “codice” dell’attività cognitiva che, quando dormiamo, prende la forma del sogno».

Che non è quindi il frutto di un cervello “impazzito”. Non c’è una frattura netta fra attività mentale diurna e notturna, non cambia il modo di funzionare della mente. La vera differenza è lo stato di coscienza: il sogno è un’allucinazione più complessa di qualsiasi altra possiamo vivere durante la veglia, con le droghe o l’alcol.

Simuliamo alla perfezione una realtà articolata, con tutte le sue percezioni, movimenti e così via, al punto da ritenerla vera: qualsiasi bizzarria ci sembra plausibile, siamo in un’altra dimensione esistenziale.

In una vita parallela, insomma, che il cervello costruisce in modi spesso strampalati non perché è svincolato dalle sue consuete modalità di funzionamento ma perché è libero dal vincolo della realtà.  E poiché l’attività cerebrale è un unico flusso, da svegli o nel sonno, il sogno attinge e rielabora esperienze e ricordi, “frullandoli” però in maniera originale.

Anche per questo è stato considerato dalla psicoanalisi una chiave per accedere all’inconscio: non c’è un metodo empirico per provarlo, ma di certo per le sue caratteristiche il sogno ci mostra qualcosa di profondo di noi stessi.

Così i sogni cambiano a seconda dell’esperienza di ciascuno di noi: si stima che il 50-70 per cento delle vicende vissute da svegli venga utilizzato dall’attività onirica e non stupisce, allora, che per esempio i sogni terrifici siano un segno tipico del disturbo post-traumatico da stress (da svegli si vivono flashback del trauma, dormendo piombano addosso i brutti sogni).

Proprio perché dall’esperienza si attinge per la sceneggiatura dei sogni, è difficile immaginare come sia la vita onirica della primissima infanzia; e anche gli studi sui bimbi un poco più grandicelli sono rarissimi perché è molto difficile scindere il ricordo del sogno dalle fantasie tipiche dei più piccini.

Sono poche anche le ricerche sugli anziani, che hanno una minor motivazione a ricordare i sogni e quindi spesso dicono di non farli. Non è così, in realtà sogniamo tutti: anche chi dice di non sognare mai, se venisse svegliato durante il sonno REM, in circa il 90 per cento dei casi recupererebbe una traccia onirica.

 

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