«Uno storico assalto alla specie umana, inimmaginabile fino a pochi mesi prima, capace di mettere in discussione le nostre conoscenze e le nostre certezze».
Così, in settembre, due fra i massimi esperti mondiali di malattie infettive – gli statunitensi Anthony Fauci e David Morens – definivano la pandemia di Covid-19 in un articolo pubblicato dalla rivista Cell.
Siamo nell’era delle pandemie. Quali insegnamenti possiamo trarre da Covid-19, per ridurre l’impatto delle malattie emergenti? Scopriamolo insieme.
1. NOI E LA NATURA
«Uno storico assalto alla specie umana, inimmaginabile fino a pochi mesi prima, capace di mettere in discussione le nostre conoscenze e le nostre certezze».
Così, in settembre, due fra i massimi esperti mondiali di malattie infettive – gli statunitensi Anthony Fauci e David Morens – definivano la pandemia di Covid-19 in un articolo pubblicato dalla rivista Cell.
Comparsa alla fine dello scorso anno, e diffusasi a un ritmo crescente, la nuova malattia ci ha infatti catapultato in uno scenario che pareva possibile soltanto nei film di fantascienza. Uno scenario che potrebbe però ripetersi, se non impareremo ad “addomesticare” i virus che verranno.
Nel loro articolo, Fauci e Morens lo sottolineano con grande efficacia: «I passaggi di agenti infettivi dall’animale all’uomo hanno caratterizzato tutta la nostra storia. Ma l’accelerazione alla quale stiamo assistendo negli ultimi decenni non ha precedenti».
Delle 18 pandemie che hanno colpito la specie umana, 11 si sono verificate nel XX secolo e ben 8 negli ultimi 40 anni. Non solo: alle pandemie – termine che indica la diffusione a tutto il mondo di agenti infettivi nuovi – si aggiunge una miriade di altre epidemie che sono rimaste per ora confinate a livello locale.
«Siamo entrati nell’era delle pandemie», scrivono i due esperti. «Le cause di questa nuova situazione sono molteplici, complesse e vanno valutate con grande attenzione».
Il primo insegnamento di Covid-19 riguarda il rapporto fra noi e la natura. Infatti, la probabilità che si verifichi uno spillover (il passaggio di un agente infettivo dall’animale all’uomo) aumenta con la frequenza dei contatti fra noi e le specie portatrici di virus.
Gli animali sotto osservazione sono numerosi, ma i più pericolosi sono i pipistrelli del genere Rhinolophus, da cui è arrivata Covid-19, ma anche la SARS, e la MERS (diffusa in Medio Oriente); i maiali, vettori dell’influenza suina del 2009; i polli, a rischio per l’aviaria; i primati, che ci hanno trasmesso l’Aids; e le zanzare, portatrici di molte malattie.
I contesti più critici sono invece gli allevamenti intensivi, i mercati di animali vivi e le aree deforestate. La deforestazione, in particolare, ha un ruolo rilevantissimo, perché ci mette a contatto con animali che, perdendo il loro habitat, si avvicinano pericolosamente a villaggi e città, con tutto il loro carico di virus.
Recentemente, sulla rivista Science, un gruppo di ecologi ed economisti ha stimato che un investimento annuo di appena 9,6 miliardi di dollari potrebbe dimezzare il ritmo della deforestazione nelle aree più a rischio (Sud-est asiatico, Amazzonia, alcune parti dell’Africa) e ridurrebbe del 40% la probabilità di spillover.
Sotto, un’area deforestata in Indonesia.
2. UN’IMPROVVIDA RETROMARCIA, PIPISTRELLI E MAIALI
Ma finché la situazione resterà quella che è, l’arma che dobbiamo imparare a usare meglio è il monitoraggio.
L’istituzione di sistemi di sorveglianza, capaci di identificare gli spillover, è stata tentata più volte.
La pandemia in corso ne testimonia il fallimento, legato a finanziamenti inadeguati e, in un caso, anche a una clamorosa marcia indietro.
Ce la racconta Paolo Vineis, epidemiologo dell’Imperial College di Londra e autore, con Luca Carra e Roberto Cingolani, del libro Prevenire:
«Dopo l’epidemia di Ebola, che ha colpito l’Africa Occidentale fra il 2013 e il 2016, spaventando molto anche gli Usa, l’allora presidente Obama aveva predisposto un sistema di sorveglianza globale, istituendo una rete di esperti in diversi Paesi, che avrebbero dovuto a loro volta attivare dei piani locali. Questo sistema è però stato smantellato da Trump poco dopo essersi insediato».
Peraltro, organizzare un sistema di sorveglianza globale è tutt’altro che banale. Servono piani internazionali e obiettivi condivisi, che possono cozzare con gli interessi economici di tanti Paesi; in Cina, per esempio, lo stop al consumo di carne di animali selvatici costerebbe 19,4 miliardi di dollari all’anno.
Serve, inoltre, personale con competenze multidisciplinari, capace di individuare situazioni di rischio che possono sfuggire a un osservatore meno esperto. Situazioni come quella che, nel 1998-1999 ha determinato lo spillover del Nipah virus in Malesia.
Questo agente infettivo arriva dai pipistrelli del genere Pteropus e determina una malattia che ha un tasso di letalità particolarmente elevato (40-75%).
Nella vicenda malese, la deforestazione, attuata per ottenere nuove terre da coltivare, spinse i pipistrelli a migrare sugli alberi che facevano ombra agli allevamenti intensivi di maiali, presenti nella zona. Il passaggio del virus dai volatili ai suini avvenne attraverso le feci. La carne dei maiali infettò gli allevatori.
Nella foto sotto, un pipistrello del genere Rhinolophus, serbatoio di virus.
3. SENTINELLE E BIG DATA
La sorveglianza può però basarsi anche sull’identificazione dei focolai epidemici che, se presi sul nascere, possono essere controllati con relativa facilità.
Il monitoraggio può coinvolgere medici sentinella, che rilevano aumenti anomali nella frequenza di sintomi collegabili a malattie infettive (disturbi respiratori, gastrointestinali e così via). Ma i sistemi di analisi dei big data potrebbero essere altrettanto validi, e meno costosi.
«L’idea è quella di raccogliere le ricerche fatte su Internet da persone malate, che interrogano la rete per sapere che cosa potrebbero avere», spiega Vineis.
«In questo modo si possono identificare le aree in cui sta accadendo qualcosa che va indagato. Studi condotti all’Imperial College di Londra, e anche dall’italiano Alessandro Vespignani, alla Northeastern University di Boston, mostrano che si tratta di un metodo affidabile».
Una volta individuato il focolaio, le misure di contenimento sono le stesse che, su scala molto più vasta, stiamo attuando da mesi per limitare la circolazione di SARS-Cov2.
Sul piano dei comportamenti individuali, l’uso delle mascherine e il distanziamento riducono sensibilmente il rischio di ammalarsi, come confermano numerosi studi.
L’ultimo, pubblicato da Nature Medicine, ha stimato che negli Usa, il Paese che conta il maggior numero di vittime per Covid-19, l’impiego universale delle mascherine potrebbe evitare 130.000 dei 500.000 decessi previsti dai modelli matematici entro la fine di febbraio.
Sotto, la sperimentazione del vaccino russo Sputnik-V.
4. LE MISURE CHE FUNZIONANO
Ma per “abbassare la curva” contano moltissimo anche la capacità dei singoli Stati di identificare i casi e tracciare i contatti, e le caratteristiche dell’assistenza sanitaria.
A settembre, una ricerca pubblicata su Lancet ha valutato secondo questi parametri i risultati ottenuti da 9 Paesi durante la prima ondata.
In generale, hanno fatto meglio i Paesi che già avevano un’efficace medicina del territorio, che hanno potuto assistere i malati nelle loro abitazioni, o in strutture dedicate, riservando gli ospedali ai casi più gravi.
La mortalità è stata poi influenzata dalla disponibilità di posti letto nelle terapie intensive (per esempio, la Germania ne aveva 34 ogni 100.000 abitanti, contro i 9,7 della Spagna). Mentre sistemi di tracciamento come quello della Corea del Sud, capace di seguire i singoli individui 24 ore su 24, hanno consentito di controllare la diffusione del virus, ma sarebbero forse improponibili da noi per motivi di privacy.
E poi c’è il lockdown, contestatissima misura, che è però la sola in grado di invertire la tendenza se la curva dei contagi si impenna. Lo abbiamo imparato durante la prima ondata. «Il principale determinante della diffusione del virus è la mobilità delle persone», riprende Paolo Vineis.
«Nelle diverse regioni italiane, il numero di casi nella prima fase è stato direttamente proporzionale al ritardo con cui è avvenuto il lockdown. Il Sud è stato risparmiato perché il lockdown è stato emesso prima che arrivassero i casi dal Nord. Quello che ha influito sull’attenuazione è stata la tempestività del lockdown, e quindi la riduzione di mobilità e trasporti».
L’ultima lezione di Covid-19 riguarda i farmaci e i vaccini. Nell’emergenza, sono infatti saltate tutte le procedure che si seguono normalmente per verificarne l’efficacia e la sicurezza.
Anche prima della pandemia, le agenzie regolatorie (la FDA negli Usa, l’Aifa in Italia) disponevano di iter accelerati per l’approvazione di medicinali destinati a malattie particolarmente gravi, per cui non esiste una cura. Queste procedure sono state ampiamente usate per Covid-19, con risultati misti.
C’è il caso positivo del desametasone, un antinfiammatorio noto da tempo, che si è mostrato utile nei pazienti più gravi. Ma c’è anche la vicenda dell’idrossiclorochina, approvata in emergenza a marzo sulla base di pochissimi dati, ma ritirata poi a fine maggio, quando studi più approfonditi hanno mostrato che non serviva contro la malattia, ed era persino tossica.
Sotto, tende temporanee per l'analisi dei tamponi installate a ottobre 2020 nella città cinese di Qingdao. Qui, in seguito a un focolaio che ha coinvolto 12 casi, in una settimana sono stati sottoposti al tampone nove milioni di persone.
5. TROPPA FRETTA? IL VACCINO NON È LA PANACEA
Da queste vicende possiamo trarre due insegnamenti. Il primo è che è importante sostenere la ricerca anche quando non siamo in emergenza.
Se non disponiamo di un antivirale efficace è anche perché i laboratori non hanno ricevuto abbastanza fondi per cercarlo.
Il secondo insegnamento riguarda la fretta: in situazioni di emergenza possiamo accettare di usare farmaci, anche in assenza di dati sufficienti su efficacia e sicurezza. Ma dobbiamo sapere che è un rischio, e non va fatta passare l’idea che si sia trovata “la cura”.
Lo sottolinea anche un editoriale pubblicato dalla rivista medica Jama, riferito proprio all’idrossiclorochina: «La vicenda illustra bene i problemi delle autorizzazioni di emergenza», vi si legge.
«Essi includono: il fatto che si approvino medicinali inefficaci e potenzialmente nocivi; l’interferenza di personaggi politici e di non esperti che generano pressioni sulle agenzie regolatorie; i costi che queste autorizzazioni determinano per la salute delle persone e per la credibilità delle istituzioni».
Le questioni legate all’efficacia e alla sicurezza diventano ancora più critiche con i vaccini, che sono dati a persone sane, per prevenire una malattia che magari non avrebbero mai preso.
L’accelerazione alla quale stiamo assistendo per Covid-19 non ha precedenti, ed è stata possibile grazie al grande dispiegamento di forze dei laboratori pubblici e privati.
Già ora ci sono una cinquantina di preparati in fase di sperimentazione, e Cina e Russia hanno persino approvato i loro vaccini, ammettendo tuttavia di non aver completato l’iter sperimentale.
Per prodotti occidentali, i dati sono già sufficienti a garantire la sicurezza. La valutazione dell’efficacia però richiede più tempo e si farà necessariamente sul campo, una volta che i vaccini saranno disponibili.
L’errore da evitare è considerare il vaccino una panacea. Il vaccino ridurrà la circolazione del virus e ci restituirà una vita più normale. Ma SARS-Cov2 resterà con noi ancora a lungo, e non potremo abbassare la guardia.
Sotto, le malattie comparse dal 1981 a oggi. In rosso: gli agenti infettivi nuovi; in blu, quelli che sembravano sconfitti, ma sono tornati a colpire. Accanto ai virus, ci sono anche batteri e protozoi diventati insensibili ai farmaci.