Don Milani: il maestro degli ultimi

Tanto dileggiato e criticato in vita, quanto elogiato e celebrato da morto: la vicenda di don Lorenzo Milani, nato il 27 maggio di 100 anni fa, è uno spaccato dell’Italia e della sua società.

Durante la sua breve vita fu attaccato da una parte della Chiesa (la “ditta”, come la chiamava lui) e da quei benpensanti che vedevano in lui un pericoloso agitatore, colpevole di dare la parola agli ultimi e di fornire loro l’unica vera arma in grado di riscattare la loro esistenza: la cultura.

Un innovatore che è stato compreso solo anni dopo la sua morte, quando si è capita l’importanza dei suoi insegnamenti e l’influenza del suo pensiero.

Scrive Mario Lancisi nel libro Don Milani. Vita di un profeta disobbediente (Terra Santa Edizioni), lui «è stato un prete e un maestro straordinario […] un profeta religioso e civile. E disobbediente».

Nel centenario della nascita, ripercorriamo l’esperienza del prete “scomodo” don Milani e della sua scuola a Barbiana.

1. NATO “BENE”

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Secondogenito di Albano Milani, chimico, ed Alice Weiss, figlia di una famiglia di ebrei triestini, Lorenzo nacque il 27 maggio 1923 a Firenze.

«Siamo agli inizi degli anni Venti», racconta Lancisi. «Anni difficili, carichi di violenza, segnati dalla presa del potere da parte del fascismo con la Marcia su Roma del 18 ottobre 1922».

I genitori (foto a sinistra) non vedevano di buon occhio il nuovo governo, anzi. «Detestavano Mussolini e il fascismo», scrive Lancisi.

Si prodigarono affinché i figli ricevessero un’educazione tale da stimolare la loro crescita umana e intellettuale. Nel 1930 si trasferirono a Milano, e tre anni dopo, visto il crescente antisemitismo fascista, i tre fratelli – Lorenzo, Adriano (1920-1986) ed Elena (1929-2010) – vennero battezzati.

Dopo il diploma, i sogni dei genitori di vederlo laureato vennero però delusi dall’annuncio di Lorenzo: “Io all’università non ci vado”. Si iscrisse invece all’Accademia di Brera. Con il ritorno a Firenze, nel 1943, arrivarono dubbi e incertezze sul futuro. E soprattutto fu catturato dall’attrazione per il sacro.

La curiosità di Lorenzo era irrefrenabile e il bisogno di capire lo spinse a cercare un sacerdote per farsi accompagnare nel suo percorso. A cambiargli la vita fu l’incontro del 4 giugno 1943 con don Raffaele Bensi, che ricordava così quel periodo: “Passò luglio, agosto, settembre. Lorenzo veniva quasi tutti i giorni a trovarmi. Si fece una cultura intensiva di cristianesimo che per lui era una cosa nuovissima”.

Una full immersion religiosa che sfociò nella conversione al cattolicesimo e nella decisione di diventare sacerdote. La scelta non venne accolta bene in famiglia: la madre scoppiò a piangere, entrambi i genitori cercarono di dissuadere il figlio, ma ormai la decisione era presa. Come ricorderà la sorella Elena (foto sotto), “i miei genitori non permisero mai, ma subirono la decisione di Lorenzo”.

Il 9 novembre 1943 Lorenzo Milani entrò nel seminario di Cestello in Oltrarno, quartiere popolare di San Frediano, a Firenze. Tra inverni gelidi e una fame cronica («La mattina a colazione, accanto alla ciotola, trovavano un pezzo di pane che sarebbe dovuto bastare per l’intera giornata», scrive Lencisi), Lorenzo iniziò a dare i primi segni di quella che sarebbe stata la sua caratteristica principale, cioè l’apparentemente contraddittoria dicotomia obbedienza-disobbedienza.

Se da un lato non venne mai meno alle regole del seminario, dall’altro non si tirava indietro quando c’era da discutere con i compagni di corso sui temi sociali più attuali. Ma a indispettire Milani era in primo luogo l’ipocrisia della vita del seminario.

Una testa calda, insomma, uno studente che non aveva paura di sfidare lo status quo, criticando anche superiori e professori, che non lo sopportavano più. Ma, come spiega Lancisi, «mandarlo via non era possibile perché Lorenzo “era un fanatico dell’osservanza della regola” e i superiori non avevano appigli per rimproverargli alcunché».

2. PRIMO INCARICO E SCUOLA POPOLARE

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Milani venne ordinato sacerdote nel Duomo di Firenze il 13 luglio 1947.

Dopo un breve incarico nella parrocchia di Montespertoli, fu cappellano nella vicina San Donato di Calenzano, sempre presso Firenze, come aiuto del vecchio parroco.

In questa parrocchia composta da circa 1.200 persone, don Milani sperimentò la distanza tra gli insegnamenti seminaristici e una realtà fatta di «povertà, materiale e culturale» e «mancata, o perduta, cristianizzazione», come sottolinea Giorgio Pecorini nel volume Lorenzo Milani. I Care ancora. Inediti. Lettere, appunti e carte varie (Editrice Missionaria Italiana).

Don Milani non era tipo da scoraggiarsi e, inforcata la bicicletta, andava a cercare le anime perdute là dove erano, cioè nelle loro abitazioni, nelle fabbriche e nelle case del popolo. A loro non offriva solo la parola del Vangelo, ma anche un esempio concreto di credibilità con uno stile di vita povero, come quello dei parrocchiani: «Solo così», scrive Lancisi, «sarebbe stato possibile abbattere il muro di diffidenza che li separava dalla Chiesa».

Il sacerdote capì che alla base delle condizioni di povertà di tanti c’era la mancanza di cultura: «Il suo compito di “evangelizzatore” doveva essere preceduto da quello di “maestro”». Nacque così, in canonica, la scuola serale popolare aperta a operai e contadini.

Don Milani era però attento a non mischiare la funzione sociale della cultura con quella pastorale: le persone che don Milani andava a cercare casa per casa, infatti, potevano frequentare la scuola senza alcun obbligo religioso da seguire.

Diceva lo stesso don Milani: “Vi prometto davanti a Dio che questa scuola la faccio soltanto per darvi l’istruzione e che vi dirò sempre la verità d’ogni cosa, sia che faccia comodo alla mia ditta (la Chiesa, ndr), sia che le faccia disonore”.

Una dichiarazione d’intenti alla quale tenne fede e che gli procurò i primi screzi con la curia di Firenze, che vedeva in quel sacerdote un pericoloso sobillatore.

Meglio cercare di arginare il suo operato, magari assegnandogli una parrocchia piccola e sperduta come quella di Sant’Andrea a Barbiana (foto sotto), frazione del comune di Vicchio del Mugello (Firenze), «un centinaio d’anime in una manciata di case sparpagliate sulle pendici del monte Giovi, senza strada, senz’acqua, senza luce». E fu lì che don Milani arrivò il 7 dicembre 1954.

3. L’ESILIO A BARBIANA E L’AULA NELLA CANONICA

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Il trasferimento apparve agli occhi di tutti come una punizione, un esilio di fatto, per isolare don Milani e, magari, riportarlo sulla retta via.

Ma la curia aveva fatto male i suoi conti e, soprattutto, non aveva valutato con il dovuto peso quella già citata combinazione di obbedienza e disobbedienza che caratterizzava l’azione del sacerdote.

Lui accettò la “promozione” a priore, ma non rinunciò alla voglia di insegnare. Inizialmente la scuola di Barbiana era serale e le materie svariate, «da come riempire i moduli di un conto corrente alla stesura di un telegramma, dall’aritmetica alla lettura comparata dei giornali».

Nel 1956 la scuola serale chiuse i battenti: a Barbiana erano rimaste le famiglie con bambini piccoli e non ancora in età di lavoro. Tutte le altre erano scese in pianura, in cerca di un’occupazione. Don Milani decise quindi di dedicarsi proprio ai più giovani e mise in piedi una scuola di avviamento industriale per chi aveva fatto le elementari.

“Una scuola unica al mondo”, ha scritto Michele Gesualdi (1943-2018), uno dei primi sei ragazzi di Barbiana, nel suo libro Don Lorenzo Milani. Lettere (San Paolo Editore), “unica per allievi, per contenuto, per orari, per obiettivi, per metodi, per insegnanti. Una scuola poverissima dove tutto si costruiva giorno per giorno con i ragazzi”.

Nella canonica, diventata aula, gli studenti più grandi aiutavano quelli più piccoli e quando un ragazzo non comprendeva il significato di una parola doveva interrompere il maestro e farsela spiegare: “Ogni parola che non conosci”, diceva don Milani, “è una fregatura in più, è una pedata in più che avrai nella vita”.

Era una scuola moderna, aperta al mondo, dove si affrontavano argomenti di attualità tutti assieme e nella quale le lingue straniere rappresentavano un insegnamento essenziale: «Don Milani teneva molto a mandare i ragazzi all’estero per lavorare e apprendere la lingua. Spesso», sottolinea Lancisi, «passava le serate a convincere i loro genitori a dare il consenso. Spiegava loro che i giovani dovevano imparare almeno tre lingue perché ad aspettarli c’era un mondo sempre più cosmopolita».

E alla base di tutto c’era quel motto, I care, affisso alla parete “È il motto intraducibile dei giovani americani. ‘Me ne importa, mi sta a cuore’”, spiegava don Milani. “L’esatto contrario del motto fascista ‘Me ne frego’”.

4. IN TRIBUNALE

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I 13 anni a Barbiana furono intensi e produttivi. Nel maggio 1958 don Milani pubblicò Esperienze pastorali, un libro nato a San Donato e nel quale il sacerdote sottolinea l’importanza dell’istruzione come premessa all’evangelizzazione e l’esigenza di una Chiesa missionaria, che deve saper amare i poveri.

Ad amareggiare don Milani era soprattutto “il distacco tra il prete e i suoi fedeli. Il sacerdote è visto come un funzionario, un burocrate della fede e dei sacramenti, la cui vita non si incrocia mai con quella dei suoi parrocchiani”.

Il testo suscitò l’immediata reazione delle alte gerarchie ecclesiastiche, che a dicembre ottennero il ritiro dal commercio del libro per disposizione del Sant’Uffizio, che ne aveva giudicato “inopportuna” la lettura.

Ma i guai per don Milani non erano finiti: nel 1965 venne denunciato (assieme al direttore del settimanale Rinascita, Luca Pavolini) per apologia di reato, incitamento alla diserzione e alla disubbidienza militare.

La sua colpa? Una lettera in risposta ad alcuni cappellani militari che avevano definito l’obiezione di coscienza (allora non contemplata dalla legge) “estranea al comandamento cristiano dell’amore e espressione di viltà”.

Per don Milani la coscienza, e non l’obbedienza cieca e assoluta, avrebbe dovuto guidare i cappellani, se volevano essere guide morali dei soldati italiani. Posizioni ribadite nella Lettera ai giudici scritta in occasione del processo, che si concluse con l’assoluzione in primo grado e la condanna in appello.

Per don Milani, però, il reato venne dichiarato estinto per “morte del reo”, avvenuta il 26 giugno 1967.





5. “CARI RAGAZZI...”

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Da tempo don Milani era malato di linfoma di Hodgkin.

Ma questo non aveva intaccato la sua voglia di farsi sentire: nel luglio del 1966, assieme ai suoi ragazzi, aveva iniziato la stesura del testo che diventerà il libro Lettera a una professoressa, pubblicato nel maggio 1967.

Alla scuola classista che si accanisce contro i poveri e che non garantisce a tutti il diritto al sapere, i ragazzi di Barbiana rispondono con un’idea di istruzione diversa, democratica, aperta all’altro, che mette al primo posto la dignità della persona, che non boccia, ma aiuta chi ha problemi.

Un mese dopo l’uscita del libro, don Milani muore nella casa della madre, a Firenze, e viene sepolto a Barbiana, nel piccolo cimitero vicino alla sua parrocchia.

“Al funerale”, ricorderà Gesualdi, “nessuna autorità religiosa o civile in forma ufficiale [...] ma solo i suoi ragazzi e poche altre decine di persone”.

E proprio agli allievi don Milani dedica il suo ultimo pensiero, il suo testamento spirituale: “Cari ragazzi [...] Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto. Un abbraccio, vostro Lorenzo”.








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