Esprimere è un verbo di origine latina che deriva dall’unione della particella ex, che indica moto da luogo (dall’interno all’esterno), con il verbo prèmere, che ha lo stesso significato italiano.
Dunque esprimere sta, letteralmente, per «spingere fuori». In questa accezione generale il termine non ci è nuovo.
In più occasioni, infatti, si è parlato dell’arte come di uno straordinario mezzo per esprimere stati d’animo e idee.
Sotto questo aspetto ogni forma d’arte potrebbe definirsi espressionista, in quanto, in qualche modo, esprime la volontà, gli ideali e i sentimenti di coloro che l’hanno prodotta.
L’Espressionismo, invece, è una ben definita tendenza dell’avanguardia artistica del Novecento a cui possiamo attribuire sia una precisa collocazione temporale (approssimativamente tra il 1905 e il 1925) sia un’altrettanto circoscritta area di localizzazione geografica (l’Europa centro-settentrionale e, soprattutto, la Germania).
L’Espressionismo tedesco, in particolare, è un fenomeno culturale estremamente eterogeneo e articolato che si manifesta, oltre che in pittura, anche in architettura, in letteratura, nel teatro e nel cinema.
Come l’Impressionismo rappresentava una sorta di moto dall’esterno verso l’interno (era, cioè, la realtà oggettiva a imprimersi nella coscienza dell’artista), l’Espressionismo costituisce il moto inverso: dall’animo dell’artista direttamente nella realtà, senza mediazioni né filtri.
Ecco pertanto spiegata anche la durezza percettiva di tale arte, nella cui realizzazione sono stati banditi tutti gli illusori artifici della prospettiva e del chiaroscuro.
Uno dei primi e più significativi esponenti della pittura espressionista europea è senza dubbio Edvard Munch, il cui influsso fu assolutamente determinante anche per il successivo sviluppo delle esperienze tedesche e austriache.
In lui, infatti, si ritrovano tutti i grandi temi sociali e psicologici del tempo: dall’incertezza del futuro alla disumanizzazione della società borghese, dalla solitudine umana al tragico incombere della morte, dall’angoscia esistenziale al conflitto generazionale, fino alla crisi dei principali valori etici e religiosi.
Ma vediamo chi era questo straordinario pittore norvegese, definito come il “pittore dell’angoscia” e considerato il precursore, se non il primo degli espressionisti.
Conosceremo 4 dei suoi quadri più famosi e cioè “Il grido”, “La fanciulla malata”, “Pubertà” e “Modella con sedia di vimini”.
1. Edvard Munch (1877 - 1877)
Personalità complessa e contraddittoria, Munch nasce a Løten, in Norvegia, il 12 dicembre 1863.
L’anno successivo la sua numerosa e sfortunata famiglia si trasferisce a Christiània (l’odierna capitale Oslo) e nel 1868 la madre muore di tubercolosi.
Nel 1877 anche la sorella appena quindicenne muore dello stesso male.
Sono i primi dei molti, precoci appuntamenti con la malattia e con la morte che costelleranno tutta l’esistenza dell’artista, influendo in modo certo non secondario anche sulla maturazione di un pensiero fortemente negativo.
A partire dal 1880 Munch intraprende regolari studi artistici alla Scuola Reale di Pittura di Oslo e la sua formazione risente dell’evidente impostazione naturalistica dei suoi primi maestri.
Il successivo contatto con gli Impressionisti gli consente però di illuminare la propria tavolozza, anche se rifuggirà comunque dalla pittura en plein air, in quanto convinto del fatto che «non dipingo mai ciò che vedo ma solo ciò che ho visto».
Nel 1892 espone a Berlino una cinquantina di suoi dipinti e il giudizio della critica è così drastico («un insulto all’arte») che dopo una sola settimana la mostra viene sospesa.
Nonostante la salute cagionevole prende parte a tutte le mostre d’avanguardia europee.
A Parigi, dove vive fra il 1895 e il 1896, espone con discreto successo al Salon des Artistes Indépendants, frequentando anche Henri de Toulouse-Lautrec e gli ambienti del Postimpressionismo francese.
Nel 1899, poi, partecipa anche alla Biennale di Venezia ed è fra gli ospiti d’onore alla mostra della Secessione di Vienna.
Nel 1914 i tempi sono ormai maturi affinché la sua arte, anche se mai del tutto compresa, venga comunque accettata anche dalla critica.
Membro dell’Accademia tedesca delle arti e socio onorario dell’Accademia bavarese di arti figurative, nel 1937 Munch conosce le prime persecuzioni naziste. Il regime hitleriano definisce «degenerate» ben 82 sue opere, ordinandone il ritiro dai musei o la loro distruzione.
Muore il 23 gennaio 1944, nella sua piccola proprietà di Ekely, presso Oslo, lasciando tutti i beni e le opere di sua proprietà al municipio della capitale che nel 1963, in occasione del centenario della nascita, gli dedica un apposito museo: il Munch Museet.
Le radici dell’arte di Munch sono forse più letterarie che figurative.
Profondamente suggestionato dalla filosofia esistenzialista del danese Søren Kierkegaard non meno che dai drammi del norvegese Henrik Ibsen e dello svedese Johan August Strindberg, egli ha una visione della realtà profondamente permeata dal senso incombente e angoscioso della morte.
La vicenda personale non è certo estranea al maturare di una visione così lucidamente senza speranza.
La precoce perdita degli affetti più cari, le frequenti crisi depressive, l’inquietudine interiore costituiscono l’unico possibile quadro di riferimento all’interno del quale leggere lo sviluppo artistico di Munch, le cui teorie anticipano di circa un decennio quelli che saranno gli esiti dell’Espressionismo.
2. La fanciulla malata
La pittura di Munch parte dall’abbandono di ogni tradizionalismo e il primo esempio in questo senso, già capace di destare critiche e scandalo, si ha nella Fanciulla malata, dove l’artista ricorda l’agonia e la prematura scomparsa della sorellina Sophie.
La scena rappresenta una ragazza dai capelli rossi a letto, con le spalle appoggiate a un enorme cuscino bianco.
Accanto vi è una figura femminile dal capo reclinato. I due personaggi sono muti.
La fanciulla, con la testa ruotata di profilo, guarda con tenerezza la donna, che a sua volta le accarezza la pallida mano sinistra.
L’intreccio di queste mani, delineato con pochi, rapidissimi colpi di colore, costituisce il centro narrativo del dipinto e dunque ricade perfettamente all’incrocio delle due diagonali.
La prospettiva della stanza è angusta. Il letto sembra compresso tra il comodino e una parete, sulla quale pende un tendaggio verdastro.
L’unica luminosità proviene dal cuscino e dal volto pallido della ragazza, accuratamente studiato anche in un precedente bozzetto a pastello.
Ma non sembra luce riflessa: è come se la federa e la pelle emanassero una loro luminescenza intrinseca, che genera un forte contrasto con il cupo ambiente circostante.
Tecnicamente Munch alterna l’uso di colori molto asciutti, che fanno quasi intravedere la tela sottostante (come nel caso della tenda di destra), a stesure più corpose (come nella coperta del letto e nei capelli ramati della ragazza), al fine di indirizzare più efficacemente l’attenzione dell’osservatore al doloroso tema dell’opera.
«Senza paura e malattia» aveva infatti scritto l’artista «la mia vita sarebbe una barca senza remi».
3. Il grido
Dove il simbolismo di Munch si fa più maturo e il suo messaggio più angosciante, comunque, è nel "Grido", senza dubbio la più celebre delle opere munchiane e una delle più sottilmente inquietante di tutto il secolo.
Il senso profondo del dipinto, realizzato nel 1893, lo troviamo descritto dall'artista stesso in alcune pagine di un suo diario:
«Camminavo lungo la strada con due amici –
quando il sole tramontò –
il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue –
mi fermai, mi appoggiai stanco morto a un recinto –
sul fiordo neroazzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco –
i miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura –
e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura».
La scena, fortemente autobiografica, è ricca di riferimenti simbolici. L’uomo in primo piano esprime, nella solitudine della sua individualità, il dramma collettivo dell’umanità intera.
Il ponte, la cui prospettiva si perde all’orizzonte, richiama i mille ostacoli che ciascuno di noi deve superare nella propria esistenza, mentre gli stessi amici che continuano a camminare tranquillamente, incuranti del nostro sgomento, rappresentano con cruda disillusione la falsità dei rapporti umani.
Come sempre in Munch la forma perde qualsiasi residuo naturalistico diventando preda delle angosce più profonde dell’artista.
L’uomo che leva, alto e inascoltato, il suo urlo terribile è un essere serpentinato, quasi senza scheletro, fatto della stessa materia filamentosa con cui sono realizzati il cielo infuocato, composto da onde sovrapposte di giallo e rosso inframezzate da sottili lingue di bianco e d’azzurro, o il mare vischioso del fiordo.
Al posto della testa vi è un enorme cranio, senza capelli, come di un sopravvissuto, diremmo noi, a una catastrofe atomica.
Le narici sono mostruosamente ridotte a due fori, gli occhi sbarrati sembrano aver visto qualcosa di abominevole, le labbra nere rimandano a loro volta alla morte.
E l’urlo disperato e primordiale che esce da quella bocca straziata si propaga nelle convulse pieghe di colore del cielo, della terra e del mare.
È l’urlo di chi si è perso dentro se stesso e si sente solo, inutile e disperato anche (e soprattutto) fra gli altri.
Munch non ha realizzato una sola versione del suo Grido. Oltre a quella della Nasjonalgalleriet di Oslo, che è forse la più celebre e diffusa, ne conosciamo almeno altre due a tempera e una a stampa litografica, segno di un’attenzione particolare e reiterata al soggetto e ai suoi significati più profondi.
4. Pubertà
In Pubertà, un criticatissimo olio del 1893, il soggetto è quello di un’adolescente nuda, seduta di traverso su un letto appena rifatto, simbolo di una verginità ancora intatta.
Il corpo della ragazzina, definito da una decisa linea di contorno, appare ancora sessualmente acerbo: ai fianchi che sono già di donna, infatti, fanno stridente riscontro le spalle ancora infantili e i seni appena abbozzati.
Lo sguardo è fisso, quasi sbigottito, e le braccia si incrociano pudicamente sul pube in un gesto istintivo di vergogna.
In quegli occhioni che ci scrutano con sospettoso smarrimento c’è il rimpianto per la fanciullezza quasi perduta e la contemporanea angoscia per una maturità alla quale non ci si sente ancora preparati.
Tale opprimente senso d’angoscia, lo stesso che ogni adolescente ha sempre provato, è qui evidenziato e quasi materializzato dalla cupa ombra proiettata sul muro.
Un’ombra informe e inquietante, quasi indipendente dal personaggio che la genera. È l’ombra delle incognite future e delle sofferenze a cui l’amore e la sessualità, oggi appena fioriti, inevitabilmente condurranno.
In prospettiva è l’ombra stessa della morte, quella che ha accompagnato l’artista per tutta la sua tormentata esistenza.
Scrive al riguardo Munch, in una sua pagina di intensa poesia:
«Dopo aver acceso la lampada vedo improvvisamente la mia ombra enorme che va dalla parete fino al soffitto.
E nel grande specchio sopra la stufa vedo me stesso, il mio stesso volto spettrale.
E vivo con i morti – con mia madre, mia sorella, mio nonno e mio padre – soprattutto con lui.
Tutti i ricordi, le più piccole cose, vengono alla superficie».
5. Modella con sedia di vimini
All'ultima fase della produzione artistica di Munch appartiene "Modella con sedia di vimini", un olio su tela nel quale le suggestioni espressioniste sono più che evidenti.
La scena è occupata quasi per intero da una modella nuda in piedi, con il corpo ruotato di tre quarti, le braccia distese lungo i fianchi e la testa dai lunghi capelli scomposti reclinata verso il basso.
A sinistra la sedia di vimini, della quale si intravedono solo le gambe, è coperta da un vivacissimo tappeto decorato a motivi geometrici.
Contrariamente alla maggior parte dei dipinti di Munch, qui i colori, che restano comunque prepotentemente antinaturalistici, sono luminosi e sgargianti.
Questo è particolarmente evidente sia nel corpo della donna, le cui floride rotondità sono modellate con tocchi sparsi di giallo, azzurro, rosso e verde, sia nei capelli, i cui riflessi vengono resi da accese pennellate di blu elettrico.
Analoga luminosità, suggerita dall’accostamento dei complementari blu e arancio con ombre verdi e viola, si riscontra anche nello sfondo, prospetticamente aperto verso una seconda stanza, sulla sinistra.