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Essere madre e donna

La maternità è il mito più antico del mondo: l’uomo preistorico adorava infatti una divinità femminile capace di generare la vita e rigenerare il cosmo.

Discendono da lei le dee di tutte le culture, persino la Madonna.

Chi non era mamma non era donna! Non si poteva scegliere: fin dai tempi dell’antica Roma le donne dovevano solo dare figli al marito.

Le cose sono cambiate nel Novecento a furia di lotte e di battaglie. Nel mondo occidentale non è più l’unico modo di essere donna e il calo delle nascite lo dimostra.

Ma se oggi la maternità è una decisione, la ragione per cui ci si rinuncia o si rimanda nel tempo è soprattutto legata al lavoro.

Cosa vuol dire essere madre e donna? Oggi essere mamma è una scelta? Scopriamo insieme il mito più antico del mondo: la maternità!

1. Molte over 40 sono senza figli

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Nel 1946, quando viene proclamata la Repubblica, nascono in Italia 1.039.432 bambini e ogni donna ha in media 3 figli, avuti da giovane, all’interno del matrimonio e con un uomo.

Nel 2014, ultimo anno di cui conosciamo le rilevazioni statistiche, sono nati 502.596 bimbi, il dato più basso dall’Unità d’Italia a oggi.

Le mamme hanno in media 31,5 anni e 1,39 figli a testa, molte non sono sposate e non è detto che abbiano procreato naturalmente e con un uomo.

La maternità ha dunque vissuto una rivoluzione: da destino segnato, quasi un obbligo sociale, per la maggioranza della popolazione femminile, è diventata oggi argomento di discussione tra chi ritiene sia un diritto di tutti e chi invece sostiene la scelta di non avere figli.

A inserirsi nel dibattito oggi ci sono anche le coppie omosessuali che, non avendone la possibilità in Italia a causa dell’articolo 5 della legge 40/2004, vanno all’estero per seguire tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA).

La maternità, in fine, è vista come un ostacolo alla crescita professionale e la conciliazione tra legittime aspirazioni lavorative e il desiderio di avere figli seguendoli nella loro crescita è un percorso a ostacoli tra tutele legislative e necessità di dimostrare quanto si vale “nonostante” la propria identità di madre.

La natalità italiana, bassa e tardiva, ha senza dubbio molte motivazioni, tra cui quella dell’attuale crisi economica e quella della difficile conciliazione tra vita privata e lavoro, ma non si può nascondere un altro dato, interessante e nuovissimo: oggi una donna su cinque tra coloro che sono nate negli anni Settanta non ha figli perché non li ha voluti.

Dopo millenni in cui la maternità ha rappresentato una delle due sole opzioni femminili socialmente accettabili (l’altra era la vita religiosa), oggi sempre più donne scelgono di non avere figli per le ragioni più svariate: ritengono di non avere istinto materno, preferiscono una realizzazione personale slegata dalla procreazione oppure non vogliono avere la responsabilità di contribuire al sovraffollamento del pianeta.

Il trend, comune in tutti i paesi industrializzati, ha addirittura portato a coniare un acronimo per indicare quelle coppie che scelgono di non avere figli: si chiamano DINK (Double Income No Kids, cioè Doppio Reddito Nessun Bambino).

Il desiderio di avere figli riguarda però un numero sempre crescente di persone, teoricamente escluse dalla possibilità di concepire naturalmente.

Oggi, infatti, si calcola che il 17,7 per cento dei gay e il 20,5 delle lesbiche con più di 40 anni abbia figli e il 49 per cento delle coppie omosessuali vorrebbe un bambino ma non ha ancora intrapreso il percorso per diventare genitore.

L’aspirazione alla maternità delle coppie omosessuali ha aperto questioni di tutti i tipi come ad esempio quelle a carattere giuridico (in Italia il figlio di una coppia omosessuale risulta figlio soltanto del genitore con cui ha un legame biologico; all’altra persona è vietato il riconoscimento giuridico del bambino, la cosiddetta stepchild adoption, cioè “adozione del figliastro”), ecc.

2. Il difficile nodo del lavoro

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Ad accomunare l’universo delle mamme oggi è senza dubbio il tema del lavoro.

Lavoro che non c’è per le donne con figli o in età fertile, eccessivo in gravidanza, che non c’è più dopo il parto, difficilmente conciliabile con le esigenze di una mamma.

Lo dice l’esperienza personale di moltissime donne, ma lo dicono anche e soprattutto i dati ufficiali dell’Istat (Istituto nazionale di statistica): in Italia lavora quasi il 53 per cento delle madri.

Se consideriamo, però, il numero di figli, i dati sono ancora più chiari: lavora, infatti, il 57,8 per cento delle donne con un figlio, il 52,3 di quelle con due figli e solo il 39 di quelle con tre o più figli.

Se al primo figlio risulta ancora fattibile conciliare maternità e lavoro anche in termini di costi per la cura del bambino (asilo nido o babysitter) rapportati allo stipendio della mamma, dal secondo figlio in poi i conti faticano a tornare e spesso la donna sceglie, o è costretta a scegliere, di restare a casa, con una conseguente perdita di risorse umane per la collettività nonché frustrazioni personali per chi, invece, avrebbe voluto continuare a lavorare.

Nel resto d’Europa la situazione è diversa: in Islanda lavora l’85 per cento delle donne con figli minori di 15 anni, in Danimarca l’84%, in Francia la percentuale scende al 74% ma la differenza tra mamme con uno o due figli è minimale e il paese ha il tasso di natalità più alto in Europa (2,1 figli per donna).

I problemi per le donne che hanno figli nascono ancora prima dell’arrivo di un figlio e il periodo della gravidanza e del post parto, oltre a essere emotivamente e fisicamente complesso, può essere aggravato dalle preoccupazioni lavorative e dal fatto di non avere una adeguata tutela contrattuale.

Il congedo di maternità retribuito, infatti, ha una durata diversa a seconda dell’inquadramento professionale ma, soprattutto, viene spesso malvisto dai datori di lavoro, che devono affrontare parte del costo del congedo oltre a quello della sostituzione.

Le donne, inoltre, per timore di non essere reimpiegate con le stesse funzioni o di perdere la stima dei superiori dopo la maternità tendono a ridurre al minimo il tempo di astensione dal lavoro dopo il parto.

La durata del congedo, obbligatorio e facoltativo, è fonte di polemiche e discussioni, anche tra le stesse dirette interessate; ne è un esempio, a tal proposito, il caso di Marissa Mayer, amministratrice delegata della società di servizi internet Yahoo!, che, quando ha comunicato di essere incinta di due gemelle, ha anche sottolineato che, dopo la loro nascita, starà a casa solo due settimane.

Yahoo!, la società di cui Marissa è a capo, offre alle neomamme sedici settimane pagate di maternità in caso di parto e otto in caso di adozione (in Italia, giustamente, parto e adozione sono invece equiparati): allora perché rinunciare a un diritto che per molte americane è ancora un miraggio (negli Stati Uniti non esiste il congedo retribuito, sono le singole aziende eventualmente a concederlo)?

Che messaggio si vuole passare alle ragazze decise a sfondare quel “soffitto di cristallo” che blocca la loro realizzazione professionale? Certo, Marissa Mayer, una delle sole quattro amministratrici delegate donne nella lista delle 1.000 società più importanti stilata dalla rivista Fortune, si scontra con il maschilismo della Silicon Valley e le difficoltà che ogni donna in una posizione di potere si trova a dover affrontare.

È chiaro, quindi, che voglia dimostrare a tutti i costi di essere sempre adatta per il ruolo che ricopre, anche dopo la maternità.

La soluzione, però, non può e non deve essere una riduzione della propria identità di madre a favore di quella di lavoratrice; a farne le spese non sarebbero soltanto i diritti delle donne, ma anche quelli, spesso poco considerati, dei bambini: ogni neonato, infatti, ha il diritto di trascorrere i primi mesi sulla terra vicino alla sua mamma.

3. Chi non era mamma non era donna

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La maternità è il tratto che accomuna buona parte delle donne nel corso dei millenni; il momento del parto e i primi gesti di accudimento del neonato si ripetono immutati in ogni angolo del pianeta fin dagli albori dell’umanità.

A cambiare, invece, è il ruolo della donna e il lento cammino per la conquista di sempre maggiori libertà.

Dalle origini della storia, infatti, la politica e la religione, ambiti tradizionalmente maschili, hanno tentato di limitare l’autodeterminazione femminile.

Benché ci siano alcuni miti circa l’esistenza di primitive società matriarcali, tutte le società antiche, pur venerando la sua funzione generativa, lasciavano la donna ai margini, relegandola a un ruolo passivo e domestico.

Nell’antica Grecia la donna, ritenuta ontologicamente inferiore perfino da Aristotele, trascorreva l’intera esistenza sotto l’autorità maschile, prima del padre e poi del marito; la sua subalternità era rimarcata dall’obbligo di stare in una parte specifica della casa, il gineceo (dal greco γυνηʹ, cioè donna).

Le antiche romane godevano di maggiori libertà: potevano uscire di casa da sole e talora avevano grande influenza sulla vita pubblica della città. Il loro destino, però, era sempre lo stesso: sposarsi e dare dei figli al marito (sotto Augusto era addirittura obbligatorio portare a termine almeno tre gravidanze).

Con l’avvento del Cristianesimo la condizione della donna peggiora ulteriormente: alla celebrazione della donna in quanto madre si affiancano le accuse contro la femmina ritenuta tentatrice dell’uomo, diretta discendente di Eva, malvagia e suadente.

Questa visione perdura fino all’età moderna: lo spazio della donna è quello della casa e della procreazione; alle donne spetta il compito di fornire la prole necessaria per il sostentamento della famiglia o per la trasmissione dei titoli nobiliari e dei possedimenti.

Le donne che si discostano da questo destino segnato rischiano di incappare nelle accuse di stregoneria; le “streghe”, infatti, erano spesso donne lontane dallo status di mogli e madri devote: vedove, nubili, prostitute. Bisogna attendere l’Ottocento perché le idee femministe si facciano lentamente strada nella società.

Dopo le prime rivendicazioni durante la Rivoluzione Francese (il filosofo Condorcet sostiene con forza l’eguaglianza femminile, la drammaturga Olympe de Gouges viene ghigliottinata per la sua Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina), l’ingresso della donna nel nuovo mondo del lavoro capitalistico-industriale impone un cambiamento nei rapporti sociali e politici.

Sempre nel XIX secolo si innescano una serie di cambiamenti che, nel giro di un secolo, portano al passaggio dalla famiglia di tipo patriarcale, in cui convivono insieme varie generazioni o vari nuclei familiari, a quella di tipo nucleare (solo i genitori e i gli non sposati).

Il generale miglioramento delle condizioni di vita e il progressivo calo della mortalità infantile consentono alle madri di poter posticipare le diverse gravidanze (grazie all’allattamento o grazie a rudimentali tecniche anticoncezionali) e ridurre così il numero di figli.

Le teorie illuministe, inoltre, sottolineano l’importanza del rapporto dei genitori con i figli e, pertanto, le donne non accettano più di lasciare i propri figli nelle mani di balie e istitutori, rivendicando il proprio ruolo accudente ed educativo.

Il movimento femminista raggiunge i suoi obiettivi principali all’indomani della Prima guerra mondiale: in molti tra i paesi più importanti del mondo (non l’Italia, che arriva nel 1945) viene concesso il diritto di voto e garantita la parità civile e giuridica.

Non è sufficiente, però, e negli anni Settanta si assiste alla seconda ondata del femminismo poiché ai diritti conquistati sulla carta non corrisponde un’effettiva emancipazione della donna: le femministe combattono contro la pesante autorità paterna, le discriminazioni lavorative e gli stereotipi, ma soprattutto vogliono ottenere il controllo della propria vita sessuale, separandola definitivamente dai confini del matrimonio e dalla riproduzione.

La maternità diventa, quindi, una scelta ben precisa; i figli, spesso unici, sono preziosi (nell’antichità, invece, a causa degli altissimi tassi di mortalità infantile il fatto che molti non raggiungessero l’età adulta era previsto da tutte le madri).

Tutto risolto, allora? Non proprio: ancora oggi in buona parte del mondo la donna è sottomessa all’autorità maschile per quanto riguarda le proprie scelte esistenziali e riproduttive.

4. In principio fu la dea madre

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Inesauribile fonte di vita, capace di dare origine a tutte le cose: non un dio padre creatore dell’universo veniva adorato dai nostri più lontani antenati, ma una dea madre, fertile, pingue, generosa.

Raffigurata come una donna “esagerata”, dalle preponderanti forme sferiche, è stata oggetto di culto fin dal Paleolitico, intorno a 200.000 anni fa.

«In tutto il bacino del Mediterraneo», spiega Marija Gimbutas, l’archeologa lituana specializzata nello studio dei primordi della civiltà europea, «la grande dea rappresentava il principio generatore dell’universo, in grado di controllare la vita e la morte. Aveva capacità di generare, accudire e nutrire non solo la vita umana, ma anche quella dell’intero pianeta e del cosmo».

La dea madre era simbolo dell’unità di tutte le forme esistenti in natura. Il suo potere era nell’acqua, nelle pietre, negli animali, negli alberi e nei fiori, tanto che sulla sua immagine venivano spesso incisi o dipinti semi, boccioli, uova e crisalidi come emblema di rinascita e rigenerazione.

Era anche simbolo del divenire e della trasformazione. Lo stesso seppellimento dei defunti nella terra stava a indicare l’ingresso nel ventre della grande madre, da cui era possibile rinascere nell’eterno ciclo vegetale.

Secondo Marija Gimbutas, le prime comunità umane si svilupparono fondando le proprie basi sul culto per la grande dea madre e organizzandosi in strutture che riconoscevano alla donna un enorme potere politico, sociale e religioso.

L’uomo preistorico, infatti, non metteva in rapporto la gravidanza con l’atto sessuale e la nascita di un bambino gli appariva come un evento magico e inspiegabile e riconducibile alla donna soltanto.

«Ciò è dovuto al fatto», spiega lo psicologo e psicoanalista tedesco Erich Neumann, «che in una società primitiva la vita sessuale è promiscua e inizia prima della maturità sessuale. La sua continuità è interrotta in modo imprevisto dall’inizio e dalla fine delle mestruazioni così come dalla gravidanza. Entrambi i fenomeni si svolgono nell’intimo della sfera matriarcale-femminile. Perciò si crede che la donna sia ingravidata sempre da una potenza extraumana».

Forse per questo, le più antiche statuette umane rappresentavano raramente un personaggio maschile. Tra la miriade di sculture pervenuteci, solo cinque raffigurano figure maschili, che appaiono semplici e non sembrano avere significato culturale. Nella storia delle religioni la divinità maschile si afferma infatti in epoca più tarda, dopo quella in cui domina il concetto di dea madre.

Anche le prime sepolture avevano forme che ricordano la donna o il suo utero. Ricavate da caverne naturali o artificiali, avevano pareti interne dipinte con tinture rosse e ocra per rappresentare gli umori del parto e il sangue mestruale.

In epoca preistorica, quando il mondo era popolato da piccoli gruppi di cacciatori nomadi, l’alimentazione era piuttosto frugale, basata soprattutto sulle proteine. Considerando che queste genti percorrevano a piedi lunghe distanze, l’accumulazione di grasso superfluo era quasi inesistente.

Ma per rimanere incinte, le donne dovevano accumularne abbastanza da mantenere il bambino e se stesse in gravidanza. Le mamme primitive, inoltre, allattavano i figli per circa 4 anni, il che rendeva ancora più difficile l’accumulazione di grasso necessaria per rimanere incinte di nuovo.

Il periodo che intercorreva tra un figlio e l’altro era dunque abbastanza lungo e accresceva il valore della donna nel gruppo, riservandole un posto di rilievo. Di qui dunque potrebbe essersi formato il concetto di divinità femminile, poi sviluppatosi nella figura della grande madre di tutte le cose.



5. Un culto nato nell’inconscio e mille nomi per una divinità

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In ogni parte del mondo sono evidenti tracce del culto della grande madre.

Dal Vicino Oriente fino alle Americhe ne abbondano i simboli: serpentine, labirinti, bande ondulate, motivi a zig-zag, ma anche ogni forma cava, come il vaso che raffigura l’utero.

Per lo psicoanalista e antropologo svizzero Carl Gustav Jung questi sono i frutti che emergono da un insieme di elementi innati nell’uomo, o archetipi, che lo studioso definisce “inconscio collettivo”.

Jung attribuisce all’archetipo della grande dea una forte ambivalenza, positiva e negativa: quella della madre amorosa e quella della madre terribile:
«È la magica autorità del femminile, la saggezza e l’elevatezza spirituale che trascende i limiti dell’intelletto; ciò che è benevolo, protettivo, tollerante; ciò che favorisce la crescita, la fecondità, la nutrizione; i luoghi della magica trasformazione, della rinascita; l’istinto o l’impulso soccorrevole; ciò che è segreto, tenebroso; l’abisso, il mondo dei morti; ciò che divora, seduce, intossica; ciò che genera angoscia, l’ineluttabile».

Questi due caratteri si compenetrano nella figura femminile: a differenza dell’uomo, infatti, la donna ha una struttura in continua trasformazione da cui nasce il bambino, un’altra forma di vita.

Attraverso le generazioni, con gli spostamenti dei popoli e la crescita di complessità nelle culture che venivano formandosi, le “competenze” della grande madre si moltiplicarono in diverse divinità femminili e la dea, pur continuando a esistere e ad avere culti propri, assunse personificazioni distinte.

Nel mondo occidentale, per esempio, era identificata con Astarte, Afrodite, Venere per sovrintendere all’amore e con Demetra, Cerere e Persefone per incarnare la fertilità delle sementi. Per gli antichi Greci era Gea, per gli Etruschi la Mater Matuta.

In Africa, presso gli Yoruba della Nigeria e i Fon del Benin, la grande madre era chiamata Nana. In America, presso i Navajo e gli Apache la madre di tutti gli esseri viventi era Estsanatlehi, che muta d’abito 4 volte l’anno, quando attraversa le quattro porte della sua dimora celeste per creare le stagioni.

In Asia, in area mesopotamica e anatolica, era adorata come Cibele e Anahita. In Cina era chiamata Quan-Yin, in India Durga. La Russia la identificava con Lada dai lunghi capelli d’oro, l’Irlanda con Brigit, la cui figura è sopravvissuta nel Cristianesimo fondendosi con santa Brigida, badessa di Kildare.

Gli antichi Egizi identificavano la grande madre con Iside, la divinità femminile più importante del loro pantheon, venerata in tutte le case, dove spesso le era dedicato un piccolo altare come protettrice del focolare.

Rappresentata talora mentre allatta il figlio Horus, era venerata fin dal IV millennio avanti Cristo come moglie e madre ideale, simbolo della fertilità e della purezza, signora della natura e della magia.

Con l’avvento della dinastia tolemaica nel 323 avanti Cristo, il culto di Iside si diffuse in tutto il Mediterraneo e giunse fino a Roma dove, nel I secolo avanti Cristo, incontrò grande favore presso il popolo.

I Romani, che in epoca imperiale avevano eretto in suo nome diversi grandi templi, la identificavano a volte con altre divinità femminili locali come Demetra e Cerere.

A lei erano attribuiti vari epiteti, tra cui raggio di sole, regina del cielo, grande vergine, ma anche, come scrive Lucio Apuleio ne L’asino d’oro, “apportatrice di salvezza, capace di proteggere gli uomini e allontanare le tempeste della vita”.

Queste qualità verranno in seguito conferite a Maria, la madre di Gesù, che sembra essere tutto ciò che rimane dell’archetipo dell’antica dea.

Faro splendente della Cristianità, la Madonna sarà una figura che, perduta la duplice natura di madre amorosa ma oscura, è diventata semplicemente la generatrice buona che nutre e protegge, colei che ha riscattato gli uomini dalla triste condizione in cui l’antenata Eva li aveva relegati.






Note

Da Cibele ad Astarte: le dee madri del mondo antico

  • Cibele
    Dea della natura di origine anatolica risalente a 8 millenni fa.
    È la più antica dea della storia, anticipando di 5.000 anni le divinità sumere ed egizie.
    Il culto fu introdotto a Roma nel 204 a.C. quando la pietra nera, suo simbolo, vi fu trasferita dal santuario turco di Pessinunte e collocata in un tempio sul Palatino.
  • Durga
    Figura induista, il suo nome in sanscrito significa fortezza o luogo difficile da espugnare.
    Raffigurata come una donna che cavalca una tigre, con numerose braccia e mani che impugnano diverse armi, è la madre dell’universo, la forza che regola la creazione, il mantenimento e la distruzione del mondo.
  • Gea
    È la prima dea del mondo greco, simbolo dell’importanza della terra, ma anche del ruolo della donna nel procreare e allevare i figli.
    Emersa dal caos primigenio, rappresenta la materia originaria da cui prendono vita tutte le cose ed è la madre di ogni altra divinità simboleggiante gli elementi naturali.
  • Astarte
    Era la madre fenicia progenitrice dei viventi.
    Dal II millennio a.C. era raffigurata nuda che sorregge i propri seni oppure mentre allatta un bambino o che tiene tra le mani fiori di loto, un disco o dei serpenti.
    Era posta in relazione con la guerra e spesso rappresentata in armi su un carro o in groppa a un leone.
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