Io ti saluto! Vado in Abissinia, cara Virginia, ma tornerò, cantavano i soldati italiani che nel 1935 si imbarcavano alla volta del Paese africano.
L’Abissinia, odierna Etiopia, era da sempre fra gli obiettivi della politica espansionistica nazionale.
Dopo aver occupato l’Eritrea, a nord, e buona parte della Somalia, a sud, la conquista dell’interno del Corno d’Africa appariva una tappa automatica.
Inoltre l’impero abissino era l’unica terra dell’intero continente africano non ancora colonizzata dalle potenze europee, insieme alla minuscola Liberia.
Altre ragioni spingevano l’Italia a occuparla, sfidando la comunità internazionale e la Società delle Nazioni, di cui l’Abissinia faceva parte. Mussolini smaniava di ampliare le sue conquiste per porsi sul piano delle maggiori potenze mondiali.
L’Etiopia, poi, era una ferita aperta fin dal tempo della batosta di Adua (1896), che aveva segnato un brusco ridimensionamento delle ambizioni coloniali del nostro (allora) giovane Paese.
All’orgoglio nazionale da vendicare si aggiungevano altri scopi, a cominciare dalla necessità di trovare una destinazione che non fosse un Paese straniero per gli emigranti.
Nelle ambizioni del Duce l’Italia doveva tornare alla grandezza di Roma antica e competere con le maggiori potenze coloniali europee.
Per questo si lanciò nella conquista del Corno d’Africa, ma l’avventura si rivelò ben più ostica del previsto. E molto meno fruttuosa.
1. Un pugno di mosche
L’Etiopia doveva diventare una “valvola di sfogo”, al pari della Libia, per la massa di poveri che lasciavano la Penisola sognando un avvenire in un Paese dove avrebbero potuto ricominciare da zero e, magari, fare fortuna.
Il Corno d’Africa rappresentava quindi una nuova frontiera, un po’ come l’America e il Far West per altre generazioni di emigranti italiani. La realtà si sarebbe rivelata assai più misera.
Il vasto altopiano etiope era ed è una terra arida, priva di risorse naturali, difficile da coltivare e a quel tempo quasi completamente sprovvista di vie di comunicazione che non fossero piste in terra battuta.
Insomma, si trattava di un altro “scatolone di sabbia”, come il socialista Gaetano Salvemini aveva bollato a suo tempo la Libia.
Per il breve tempo in cui vi si trasferirono – la colonia fu strappata agli italiani dagli inglesi pochi anni dopo la conquista, nel 1941 – contadini e imprenditori dovettero fare i conti con un ambiente ostile, con una quantità di problemi logistici e pure con la guerriglia degli irriducibili abissini.
Infatti, mentre la campagna militare per l’occupazione si risolse in tempi brevi, mettere in completa sicurezza quelle regioni impervie e talvolta inaccessibili si rivelò impossibile. Ma non fu questo il solo ostacolo con cui il Regno d’Italia dovette fare i conti.
La Società delle Nazioni espresse la sua condanna per l’attacco a uno Stato membro e agì con sanzioni economiche che proibivano agli altri Stati membri di commerciare con noi italiani. Di fatto, non ne risentimmo particolarmente.
Alcune delle maggiori potenze, a cominciare dagli Stati Uniti, non avevano aderito alla comunità internazionale antesignana dell’ONU, o ne erano uscite, come la Germania e il Giappone; come se non bastasse, le sanzioni – rimaste in vigore non più di otto mesi – furono aggirate per meri interessi materiali dagli stessi Paesi che avrebbero dovuto applicarle.
Per contro il fascismo trasse ulteriore consenso interno, dopo il buon esito della guerra, dall’apparire vittima delle “congiure” internazionali ordite a suo danno dalle invidiose potenze rivali. Da allora, però, le ragioni economiche spinsero l’Italia a legarsi sempre più strettamente alla Germania nazista.
Con quali conseguenze, la storia lo avrebbe mostrato molto presto. Nella foto sotto, partenza per il fronte dei soldati italiani da Montevarchi.
2. Netta superiorità italiana
Quella che fu l’ultima impresa coloniale – in un’epoca in cui il colonialismo stava già entrando in crisi – ebbe inizio dopo un incidente di frontiera provocato a bella posta dagli italiani, che avevano eretto un forte sull’incerta linea di confine tra Etiopia e Somalia, sicuri che prima o poi sarebbe stato attaccato da bande irregolari abissine.
Fu quello che accadde nel dicembre 1934. La propaganda fascista ebbe buon gioco ad accendere gli animi e a distorcere l’episodio, fino ad accusare l’Etiopia dell’imperatore Hailé Selassié di voler aggredire la Somalia italiana.
Quanto stava accadendo, invece, era l’esatto opposto. Mussolini in persona assunse la supervisione strategica dell’attacco. Furono mobilitati centinaia di migliaia di soldati e l’intera nazione finì coinvolta nello sforzo bellico.
Il fascismo voleva mostrare i muscoli e chiudere la partita in fretta per ragioni di prestigio e per non dare tempo alla comunità internazionale di ostacolarne i piani. Nella guerra d’Etiopia furono applicati le tattiche e gli strumenti del Secondo Conflitto mondiale, destinato a scoppiare di lì a poco.
Nella foto sotto Àscari eritrei "penne di falco" in posa con le loro mitragliatrici Fiat-Revelli Mod. 1914.
Si trattò di una guerra di massa e di movimento, in cui gli italiani sfruttarono la loro netta superiorità numerica e tecnologica. Furono inviati reparti dell’esercito armati di cannoni e mitragliatrici, oltre a reparti volontari di “camicie nere” e perfino di italiani all’estero, dotati di migliaia di automezzi e veicoli di ogni genere, compresi i trattori di fabbricazione americana Caterpillar per rimorchiare mezzi e cannoni sul fango e nei guadi.
Inoltre gli italiani disponevano di una flotta aerea, che per la prima volta fu impiegata in misura massiccia nelle operazioni belliche senza distinguere tra bersagli militari e civili: un’altra, tragica anticipazione dei bombardamenti indiscriminati e a scopo terroristico poi adottati da entrambe le parti nella Seconda Guerra mondiale.
Si arrivò a contare 330.000 soldati fra italiani e truppe coloniali (i cosiddetti “àscari”), più 100.000 lavoratori militarizzati per la costruzione di strutture e infrastrutture quali opere difensive, strade, ponti, linee telegrafiche e telefoniche.
Hailé Selassié contava invece su un esercito mal equipaggiato e peggio armato, quasi privo di cannoni e mitragliatrici e completamente sprovvisto di aerei; a ciò si aggiunga che le truppe dell’imperatore erano formate da etnie diverse, in contrasto tra loro e al comando di capi non tutti fedeli fino all’estremo sacrificio.
Nella mappa sotto, il Corno d'Africa nei primi anni trenta.
3. Vinta la guerra...
Le operazioni militari iniziarono il 3 ottobre 1935, senza formale dichiarazione di guerra.
Le truppe italiane entrarono dall’Eritrea in territorio etiope sotto il comando dell’anziano generale ed ex ministro delle colonie Emilio De Bono.
Questi, però, si dimostrò troppo prudente agli occhi del Duce, che pensò bene di sostituirlo con il generale Pietro Badoglio.
Appena giunto al fronte, Badoglio dovette contrastare un tentativo di controffensiva degli abissini, che minacciavano di occupare l’Eritrea.
Dopo averli respinti, gli italiani ripresero l’iniziativa e impegnarono il nemico in alcune grandi battaglie campali, dove potevano sfruttare a pieno la loro superiorità di armi e di mezzi. Nell’aprile 1936 ebbe inizio l’attacco dal fronte meridionale.
Il generale Rodolfo Graziani mosse dalla Somalia, travolgendo ogni tentativo di resistenza. Già il giorno 9, le truppe dei due fronti d’attacco si incontrarono alla stazione ferroviaria di Dire Daua, a metà strada tra Harrar e la capitale Addis Abeba.
La manovra a tenaglia si concluse il 5 maggio, quando Badoglio entrò nella capitale alla testa di una colonna motorizzata. Il Duce poté così annunciare la fine della guerra.
L’imperatore etiope era fuggito, lasciando la città nell’anarchia e gli italiani furono accolti come salvatori dai diplomatici stranieri, asserragliati da giorni nelle ambasciate. La vittoria sul campo era stata schiacciante, come voleva Mussolini.
I caduti italiani furono meno di 3.000. La batosta di Adua era stata vendicata e il 9 maggio il Duce proclamò che l’impero era riapparso sui “colli fatali” di Roma: l’Italia si era finalmente conquistata il suo “posto al sole” nel momento di massimo consenso registrato dal fascismo nel Ventennio.
Nella foto sotto, Mussolini passa in rassegna le truppe pronte a imbarcarsi per il Corno d'Africa.
4. ... cominciò la guerriglia
Per tutta la durata dell’occupazione italiana, la guerriglia diede filo da torcere agli invasori, che reagirono con estrema violenza.
La segregazione razziale e l’imposizione delle nostre abitudini sociali e culturali alimentarono il risentimento nella popolazione.
Ai continui attacchi dei guerriglieri le autorità risposero con rastrellamenti che finivano per coinvolgere i civili, con gli àscari che saccheggiavano e incendiavano i villaggi. I ribelli etiopi, che godevano del sostegno del clero copto, arrivarono a colpire la più alta autorità locale italiana.
Il 19 febbraio 1937, in un attentato ad Addis Abeba, furono uccise sette persone e Graziani, nel frattempo assurto a vicerè della colonia, rimase ferito. La reazione italiana fu durissima, con migliaia di morti (forse fino a 30.000) fra gli abissini.
I fascisti si accanirono sui ceti intellettuali come sulla popolazione comune, fucilarono i cadetti di una scuola militare e perfino centinaia di monaci e diaconi, accusati senza alcuna prova di collaborare con la resistenza, come accadde nella città conventuale di Debre Libanos.
In definitiva, gli italiani si dimostrarono incapaci di gestire la situazione senza ricorrere alla violenza, mentre molti funzionari inviati da Roma non conoscevano la realtà locale e applicavano direttive ineseguibili.
Ne fece le spese lo stesso Graziani, che fu sostituito con il duca Amedeo d’Aosta, destinato a governare l’Africa Orientale Italiana fino alla sua caduta in mano inglese, nel 1941. Nella foto sotto, il generale Rodolfo Graziani (al centro).
Per vincere gli italiani usarono anche il gas. Il ricorso ad armi proibite da parte italiana nella guerra di Etiopia è stato riconosciuto solo in tempi recenti.
Bombe cariche di gas tossici quali iprite e arsine, composti di arsenico, furono usate in barba alla Convenzione di Ginevra del 1925 sottoscritta pure dall’Italia. Le vittime andavano incontro a una morte atroce dopo lunga sofferenza.
Nel corso della guerra, inoltre, gli italiani fecero leva sui reciproci odi etnici e religiosi degli indigeni. Così in Etiopia furono inviate al fronte truppe coloniali libiche di fede musulmana contro gli abissini, che erano cristiani copti.
Gli eccidi proseguirono anche dopo la fine della guerra, come quello terribile nella zona di Debra Brehan: qui, nel 1939, 800 ribelli asserragliati in una grotta furono avvelenati col gas e i sopravvissuti stanati con i lanciafiamme e fucilati.
5. Amba Aradam e la propaganda fascista
- Amba Aradam: una battaglia diventata “un modo di dire”
Nel febbraio 1936, sull’altopiano strategico dell’Amba Aradam si combatté una delle battaglie decisive della guerra.
Conquistare quei rilievi montuosi significava controllare la strada per Addis Abeba. Italiani ed etiopi si fronteggiarono per dieci giorni con 80.000 uomini per parte, ma quelli guidati dal ras (capo locale) Mulugeta Yeggazzu disponevano di appena 18 cannoni contro i 280 degli italiani e di 400 mitragliatrici contro 5.000. La sproporzione di armi segnò le sorti dello scontro.
Dopo un copioso fuoco di sbarramento, gli italiani agli ordini di Badoglio attaccarono il nemico fino a circondarlo; l’ultimo atto della battaglia fu un assalto alla baionetta. Sul campo rimasero migliaia di caduti etiopi, a fronte di 800 italiani.
Le truppe in rotta del ras furono poi ripetutamente attaccate dai cacciabombardieri e dai guerriglieri Galla, nostri alleati. Da allora “ambaradam” o “ambaradan” è diventato sinonimo di grande confusione.
- Così il fascismo propagandò la sua missione “civilizzatrice” in Africa
La guerra d’Etiopia si distinse per la massiccia propaganda cui ricorse il regime attraverso ogni mezzo di comunicazione, dai giornali alle canzoni, dagli spettacoli nei locali pubblici ai film, fino ai fumetti.
L’impresa fu celebrata ovunque: nelle piazze da gerarchi e podestà, nelle scuole da maestri e professori, nelle chiese dai sacerdoti.
Nelle radio si trasmettevano canzoni come Faccetta Nera, sulla bocca di ogni soldato in partenza per l’Abissinia, che secondo uno stornello allora in voga sognava di «allungare lo Stivale, sino all’Africa Orientale».
Nelle immagini divulgate dalla stampa, gli indigeni appaiono come fanciulli selvaggi e ingenui, spesso vestiti solo di un gonnellino di banane, mentre le donne sono semivestite e a petto nudo.
Per celebrare l’impero, nel 1937 fu girato il film Scipione l’Africano di Carmine Gallone, che risaliva fino alla vittoria di Zama (202 a.C.) per tracciare l’inizio del destino civilizzatore di Roma nel Continente Nero.