Per la filosofia antica, a cominciare da Platone, «l’esistere saggio» consiste proprio nel prepararsi alla morte.
Socrate parla nel Fedone di questo prepararsi e lo chiama esercizio di morte: allenamento, meditazione.
Un po’ più tardi, Seneca e Marco Aurelio diranno che ci si allena vivendo ogni giorno come fosse l’ultimo.
E Seneca, in una lettera a L ucillo, scrive: «Nella nostra dissennatezza, crediamo che la morte sia uno scoglio. Invece è un porto, cui talvolta dobbiamo tendere. Il saggio vivrà quanto deve, non quanto può».
E aggiunge: «Se una morte è accompagnata dai tormenti, l’altra è agevole e facile, perché non dovrei scegliere quest’ultima?».
Questa visione della vita e della morte è cambiata radicalmente, nel mondo occidentale, con l’avvento del cristianesimo e soprattutto del cattolicesimo.
Per il Catechismo della Chiesa Cattolica «la vita è un dono di Dio e noi dobbiamo fare il possibile per evitare la morte».
Certo, è necessario riconoscere in partenza che l’eutanasia costituisce un tabù – letteralmente, una interdizione sacrale – molto forte, apparentemente insuperabile.
E va ricordato che sulla eutanasia la Chiesa ha sempre posto un veto assoluto. Il documento principale sul tema, Dichiarazione sulla eutanasia. Iura et bona, è quello del 5 maggio 1980 della Congregazione della Fede, di cui all’epoca il prefetto era Joseph Ratzinger.
Il carattere sacro della vita vi è affermato come una verità indiscutibile e un valore non negoziabile.
I sondaggi e le ricerche sull’atteggiamento degli italiani riguardo alle scelte di fine vita sono stati numerosissimi negli ultimi anni. I sondaggi sulla eutanasia che hanno maggior eco sulla stampa sono quelli dell’Eurispes del gennaio 2010 e del gennaio 2011.
Dal primo risulta che il 67,4 per cento degli italiani è favorevole alla pratica della «dolce morte», il 21,7 per cento si è espresso in senso contrario e il 10,9 per cento non ha saputo dare alcun parere sull’argomento.
Pressoché uguali i dati del rapporto 2011: il 66,2 per cento degli italiani (il 67,9 per cento degli uomini e il 64,6 per cento delle donne) si dice favorevole. A questa possibilità si è dichiarato contrario il 22,3 per cento degli uomini e il 26 per cento delle donne.
Con l’andar del tempo, la parola «eutanasia» ha assunto un significato negativo. Qualche ultra cattolico si è spinto fino al punto di ricordare la «eutanasia» di Hitler.
Va evidenziato, in fine, che la situazione dell’Europa, nel suo complesso, dimostra quanto sia forte questo tabù.
Ogni tentativo di portare documenti favorevoli alla eutanasia al Consiglio d’Europa (nel 1999 e di nuovo nel 2005) si è infatti rivelato fallimentare e le relative mozioni sono state bocciate da larghissime maggioranze.
Oggi vedremo 5 casi celebri di eutanasia che hanno fatto molto discutere. Vediamoli insieme.
1. Il caso di Vincent Humbert (Francia)
24 settembre 2000. Vincent Humbert, 19 anni, ha un terribile incidente stradale che, dopo nove mesi di coma, lo lascia tetraplegico, muto e quasi cieco, ma drammaticamente lucido.
Novembre 2002. In preda a continue, indicibili sofferenze, Vincent detta a un’infermiera - sfruttando l’unica parte di sé che riesce a muovere, il pollice destro - una lettera aperta indirizzata a Chirac, in cui manifesta per la prima volta pubblicamente la volontà di morire.
«A Lei, che ha il diritto di concedere la grazia, io chiedo il diritto di morire». Ma Chirac non può aiutarlo, anzi, lo incita a vivere.
A Vincent non resta che pregare Marie, sua madre, di donargli la più grande prova d’amore: procurargli la morte. Marie somministra dei barbiturici al figlio, che però non muore, come lei aveva sperato, ma a un certo punto cade in coma profondo.
Due giorni più tardi, una équipe medica diretta dal dottor Chaussoy decide di staccare il respiratore e inietta del cloruro di potassio, un farmaco mortale, a Vincent. È il 26 settembre del 2003.
La madre e il medico vengono imputati per somministrazione di sostanze tossiche e per avvelenamento con premeditazione.
Solo il 28 febbraio del 2006 il giudice Anne Morvant, su raccomandazione degli stessi procuratori, assolverà la madre di Humbert e il dottor Chaussoy, affermando che i due hanno agito in circostanze estreme, il che «li esonera da qualsiasi responsabilità penale».
Vincent non leggerà mai il libro che ha dettato e che si intitola Io vi chiedo il diritto di morire.
2. Il caso del dottor Prins (Olanda)
Nel 1993 il dottor Prins, su espressa richiesta dei genitori, pose fine alla vita di una bambina di tre giorni, iniettandole una sostanza letale.
La neonata era idrocefala, con il cervello scarsamente sviluppato, la spina dorsale bifida, i piedi e le gambe deformi.
Non avrebbe mai potuto stare in piedi e avrebbe sofferto dolori continui, in uno stato di vita vegetativo, che si sarebbe protratto per un periodo di tempo imprecisato, ma certamente breve.
Il medico fece rapporto del suo operato, dichiarando di aver agito in conformità alle regole di correttezza.
L’assemblea dei procuratori generali giunse alla conclusione che egli aveva agito accuratamente e che, perciò, non doveva essere perseguito, ma il Ministero della Giustizia sollecitò una pronuncia giudiziaria perché la morte era stata inflitta in difetto dell’esplicita richiesta del paziente.
Proprio per questa ragione l’accusa fu di omicidio premeditato (art. 289 c.p.), ma il Tribunale di Alkmaar prosciolse il dottor Prins, ritenendo che avesse agito in stato di necessità, trattandosi di sofferenze senza speranza, insopportabili e non suscettibili di essere alleviate in misura significativa.
3. Il caso di Amelie Van Elsbeen e di Hugo Claus (Belgio)
I giornali italiani hanno segnalato alcuni casi di eccessiva facilità nel concedere l’eutanasia.
In particolare, «Il Foglio» del 2 aprile 2009 ha raccontato un fatto singolare, aggiungendo anche una vaga notizia secondo cui qualcuno avrebbe ipotizzato la possibilità per i vedovi di ottenere l’eutanasia se si sentono soli.
Una donna ha chiesto e ottenuto l’eutanasia dopo dieci giorni di sciopero della fame. Amelie Van Elsbeen, così si chiamava, aveva 93 anni e non era affetta da alcuna malattia incurabile o che le arrecasse dolori insopportabili.
La donna, nata ad Anversa nel 1916, era soltanto molto anziana e i medici della casa di riposo di Merksem, dove era stata ricoverata per un periodo, le avevano prescritto di stare a letto.
L’anziana, quindi, aveva chiesto a quegli stessi medici di praticarle l’eutanasia, perché così la sua vita era «senza senso».
La casa di cura, applicando alla lettera la legge belga in materia, aveva respinto l’istanza della donna perché mancava il presupposto di base: non era malata.
È così scattata una campagna mediatica in cui la stessa Amelie chiedeva quello che secondo lei era un diritto: essere fatta morire. Amelie, alla fine, ha ottenuto l’eutanasia il primo aprile del 2009, ma solo dopo dieci giorni di sciopero della fame.
Un’altra vicenda che ha suscitato scalpore è quella del più grande scrittore fiammingo, Hugo Claus (nella foto), più volte candidato al Nobel, che a 79 anni ha scelto di morire - come hanno spiegato i medici dell’ospedale di Anversa - tramite «sedazione palliativa, eutanasia attiva per mezzo di farmaci».
Claus era affetto da una grave forma di Alzheimer. «Non ha voluto prolungare la sua sofferenza - ha detto la sua terza moglie, Veerle De Wit (Claus era stato sposato in prime nozze con Sylvia Kristel, l’attrice di Emmanuelle) - e ha scelto lui il momento della sua morte, in lucidità».
Guy Verhofstadt - liberal democratico, Primo Ministro del Belgio dal 1999 fino al 20 marzo 2008 - ha reso omaggio al grande scrittore, dicendo di comprendere la sua decisione.
Il cardinale belga Godfried Danneels è tornato a ribadire il contrasto della Chiesa nel corso della sua omelia della vigilia pasquale. Con toni duri, ma senza esplicito riferimento allo scrittore scomparso, il Monsignore ha criticato la scelta «poco coraggiosa» di chi chiede l’eutanasia.
Immediata la reazione della Associazione belga a tutela del Diritto a morire con Dignità (ADMD), che imputa le scioccanti affermazioni del Cardinale alla nota avversione di Hugo Claus nei confronti della Chiesa cattolica.
Nella sua opera più famosa, La sofferenza del Belgio, Claus imputa proprio alla Chiesa «il bigottismo delle Fiandre».
4. Il caso Chabot (Olanda)
Nel 1994 esplose il «caso Chabot».
Il 28 settembre 1991 una donna di cinquant’anni morì nella sua abitazione alla presenza di un’amica, del medico di famiglia, e di uno psichiatra, il dottor Chabot (nella foto), poco dopo aver assunto una sostanza che lo stesso psichiatra le aveva procurato.
Spinta da una serie di lutti familiari che le avevano causato uno stato di confusione mentale portandola al ricovero nel reparto psichiatrico di un ospedale senza alcun successo, si mise in contatto con l’Associazione per l’Eutanasia volontaria dove conobbe il dottor Chabot che compilò un rapporto, poi consegnato all’ufficiale sanitario del Comune, da cui risultava che la paziente soffriva di una «grave forma di depressione senza caratteristiche psicotiche, nel quadro di un complesso processo di lutti».
Il Tribunale di Assen e la Corte di Appello di Leeurwarden prosciolsero l’imputato per aver agito in stato di necessità, ma nel dicembre del 2011 la Suprema Corte, su impugnazione del procuratore generale presso la Corte d’Appello, non riconobbe lo stato di necessità e giudicò il medico colpevole per il reato dell’art. 294 c.p. (assistenza al suicidio).
Rinunciò tuttavia ad applicare la pena in considerazione della personalità dell’imputato e delle circostanze in cui il fatto era stato commesso.
Dunque, in questo processo fu affrontato il problema del suicidio assistito in presenza di sofferenze esclusivamente psichiche, senza alcuna patologia fisica che in qualche modo le condizionasse.
5. Il caso Chantal Sébire (Francia)
Chantal Sébire, una madre di famiglia di 52 anni, ha presentato al Tribunale di Digione una domanda di eutanasia.
Il suo avvocato spiega le ragioni dell’istanza, «eccezionale ma tuttavia legittima», della sua cliente, che chiede alla giustizia di poter morire.
La signora Sébire, già insegnante scolastica e madre di tre figli, soffre di un «Esthesioneuroblastoma», una rara forma di tumore evolutivo del seno frontale e della cavità orale, che la sfigura e le procura intense sofferenze, senza speranza di remissione.
Dopo una apparizione in televisione alla fine di febbraio, venerdì 7 marzo 2008 Chantal consegna il suo dossier alla Associazione per il Diritto di morire con Dignità - ADMD e invia una lettera a Nicolas Sarkozy.
La richiesta depositata al Tribunale di Digione - che annuncia una decisione entro pochi giorni - tende a costituire un precedente giudiziario. Chantal Sébire si augura di «beneficiare di un suicidio medicalmente assistito secondo un metodo esistente all’estero».
In pratica, la richiesta mira a permettere a un medico volontario di prescrivere a Chantal del Pentothal, che ella potrebbe assumere al momento della scelta.
«Chiediamo semplicemente al magistrato di autorizzare Chantal ad addormentarsi confortata dall’affetto dei suoi» e di dar prova di umanità, conclude l’avvocato, che afferma di voler andare fino in fondo nel dibattito sulla eutanasia.
Dopo pochi giorni, lunedì 17 marzo, l’Alta Corte di Digione respinge la richiesta presentata dalla donna perché il Presidente del Tribunale ha giudicato che favorire il suicidio è un reato, accogliendo il parere della Procura che aveva definito l’istanza «irricevibile».
Chantal annuncia che non farà ricorso e che si recherà in Svizzera, dove il suicidio assistito è legale e dove ha già depositato i documenti necessari. «Voglio partire - dichiara - facendo una festa, circondata dai miei figli, amici e medici, prima d’addormentarmi definitivamente all’alba».
Mercoledì 19 Chantal viene trovata morta nella sua casa. Dalla autopsia non è possibile capire le cause della morte.
Le reazioni alla richiesta di Chantal sono all’inizio prevalentemente negative. Il Presidente Sarkozy, cui Chantal si è rivolta per aiuto, si dice addolorato per la vicenda, ma impossibilitato a intervenire e offre all’avvocato di Chantal di far visitare la donna da una commissione di medici di alto livello (offerta ovviamente inutile, che Chantal rifiuta).
Il Primo Ministro, Francois Fillon e la ministra della Giustizia Rachida Dati non vogliono, in nessun caso, riformare la legge in vigore.
Il tragico epilogo della vicenda muta però radicalmente il quadro delle reazioni. Il ministro degli Esteri Bernard Kouchner - socialista indipendente, medico, uno dei fondatori di «Medici senza Frontiere» - afferma che «non bisognava mettere Chantal nelle condizioni di doversi suicidare in una specie di clandestinità tra le sofferenze dei suoi cari».
Il responsabile dei problemi della sanità del gruppo parlamentare socialista, Jean-Marie Le Guen, chiede di rivedere la legge in vigore affinché il diritto a morire con dignità diventi «un nuovo Diritto dell’Uomo del Secolo XXI». Laurent Fabius - socialista, Primo Ministro dal 1984 al 1986 - propone una legge che introduca «un aiuto attivo a morire».
Messo in crisi da questo schieramento, il Primo Ministro Francois Fillon, d’intesa con il Presidente Sarkozy, incarica il parlamentare Jean Leonetti di condurre una ricerca volta a rimediare alla cattiva interpretazione della legge attuale ed eventualmente anche «alla insufficienza della legislazione vigente».
Leonetti - commentando l’incarico affidatogli - dichiara che «nulla impedirebbe disposizioni specifiche di depenalizzazione dell’aiuto al suicidio in circostanze particolarmente compassionevoli» ed evoca la «eccezione di eutanasia», sul modello della legge svizzera.