Negli anni Sessanta fece il suo ingresso nel linguaggio comune un’espressione destinata presto a imporsi: “gap generazionale”, conflitto tra generazioni (in inglese, gap significa distacco), in riferimento alla frattura ideologica e culturale tra i nati nel dopoguerra e i loro padri.
La contestazione originata nei campus americani si estese all’Europa, aggregando le masse giovanili nel rifiuto, trasversale e condiviso, dei valori che fino ad allora avevano retto la società occidentale.
Tra i primi a interrogarsi sul fenomeno era stato il sociologo tedesco Karl Mannheim, nel saggio Il problema sociologico delle generazioni.
Pubblicato in inglese nel 1952, mentre l’Occidente si stava ricostruendo dopo la rovina della Seconda guerra mondiale, lo scritto di Mannheim risaliva, in realtà, al 1928: anche allora il mondo, uscito da un primo conflitto epocale, stava affrontando il faticoso (e vano) compito di ritrovare un assetto pacifico, mentre la gioventù reduce dalla guerra manifestava apertamente il desiderio di dare un taglio netto alle pastoie del passato.
Ma lo scontro tra padri e figli, benché sia giunto al calor bianco nella seconda metà del Novecento, non è un tratto distintivo solo dei nostri tempi tormentati. Al contrario, esso affonda le radici nel tempo mitico agli albori dell’umanità, e molti tra i più grandi pensatori di ogni epoca si sono cimentati nell’indagarlo.
Da dove origina lo scontro generazionale che trasforma la famiglia in un campo di battaglia fra “nuove idee” e “credenze antiquate”? È un problema di oggi o è sempre esistito? Molti pensatori, fin dall’inizio dei tempi, ci assicurano che mettere d’accordo padri e figli non è mai stata cosa facile.
1. Il mito di Crono
Intorno al 700 a.C., il greco Esiodo scrisse un poema intitolato Teogonia, dedicato alla nascita degli dei. In esso l’autore, raccogliendo in un insieme organico narrazioni diverse e più antiche, cantava le origini del cosmo e del pantheon ellenico.
Sorprendentemente, la visione esiodea rivela che il mondo greco, universalmente considerato culla della civiltà occidentale ed esempio armonioso di virtù civili, nasce da una sconcertante promiscuità e dal conflitto sanguinoso tra padri e figli.
Narra infatti Esiodo che Gea (la Terra) concepì numerosi figli con Urano (il Cielo, suo figlio egli stesso), senza mai riuscire a generarli, poiché Urano li ricacciava nel ventre materno per timore che essi potessero sottrargli il dominio del mondo.
Soltanto Crono (il Tempo) riuscì a venire alla luce e, armato di un falcetto datogli proprio dalla madre, evirò il padre.
Divenuto signore del mondo, Crono si comportò allo stesso modo del suo genitore: unitosi con la sorella Rea, avendo saputo che da lei sarebbe nato il figlio che l’avrebbe spodestato, prese a divorare tutti i figli che lei generava.
Alla fine, con uno stratagemma, Rea riuscì a partorire e salvare Zeus, che forzò il padre a vomitare i figli divorati, portandoli in vita, e lo spodestò instaurando un nuovo regno.
La sorella e sposa di Zeus, Era, generò molti figli, nessuno dei quali tentò di esautorare il padre, e l’Olimpo vide così il sorgere di una vera famiglia.
Qui sotto, il celebre quadro "Crono divora i suoi figli" della pittrice italiana Giulia Elisabetta Lama (Venezia, 1º ottobre 1681 – Venezia, 7 ottobre 1747).
2. Il mondo greco
Ma il mito non è soltanto un racconto sacro che tenta di spiegare le origini dell’universo e dell’uomo: è anche la rappresentazione di un ideale culturale.
In questa prospettiva, la famiglia che emerge dal nuovo ordine imposto da Zeus si riflette nella famiglia umana, come struttura sociale basilare del mondo greco.
Così, poiché la filosofia è nata in Grecia, i primi filosofi non potevano non interrogarsi sul tema delicatissimo dei rapporti familiari, e in particolare di quello tra padri e figli.
Il modello familiare era lo stesso delineato da Omero nei suoi poemi: una piramide, il cui vertice era rappresentato dal marito e padre, e alla cui base stavano i figli; nel mezzo, la donna, che era sposa e madre. I ruoli erano ben distinti, e quello dei figli consisteva nell’obbedire al genitore fino a costituirne il prolungamento ideale nella continuazione della stirpe.
Così, quando nella seconda metà del V secolo a.C. Socrate riunì attorno a sé un folto gruppo di giovani affascinati dalla sua dottrina, che insegnava a porsi domande e perfino a dubitare della tradizione se essa era in contrasto con l’etica e il bene pubblico, le autorità ateniesi non tardarono a rivolgergli l’accusa di essere un “corruttore della gioventù”.
In realtà, a corrompere la gioventù era la classe dirigente nata dopo la vittoria greca sull’Impero Persiano, che aveva liberato la Grecia dall’incubo dell’asservimento al gigante orientale.
Gli uomini che avevano combattuto a Maratona nel 490 e a Salamina nel 480 a.C. avevano costruito l’immensa cattedrale di pensiero che fu la Grecia classica, ma i loro figli e i loro nipoti stavano dilapidando quel patrimonio straordinario, divorati dall’avidità di potere e interessati alla politica solo in quanto mezzo per arricchirsi, in aperto dispregio degli antichi valori.
Qui sotto, La Morte di Socrate (La Mort de Socrate), un dipinto a olio su tela (129,5 × 196,2 cm) del pittore francese Jacques-Louis David, realizzato nel 1787 e conservato al Metropolitan Museum of Art di New York.
Allievo di Socrate, Platone (428-348 a.C.) comprese che l’avvicendamento dei sistemi sociali scaturiva proprio dallo scontro delle generazioni, e nel libro VIII del suo dialogo sulla Repubblica così descrisse la disgregazione della democrazia e le ragioni del suo inesorabile scivolamento verso la tirannide:
«Un padre si abitua a diventare simile al figlio e a temere i propri figli, il figlio diventa simile al padre e pur di essere libero non ha né rispetto né timore dei genitori... un maestro ha paura degli allievi e li lusinga, gli allievi dal canto loro fanno poco conto sia dei maestri sia dei pedagoghi; insomma, i giovani si mettono alla pari dei più anziani e li contestano a parole e a fatti, mentre i vecchi, abbassandosi al livello dei giovani, si riempiono di facezie e smancerie, imitando i giovani per non sembrare spiacevoli e dispotici».
Per questo motivo, sosteneva il filosofo, «nella città destinata al governo più perfetto devono essere in comune le donne, i figli e l’intera educazione, come pure le occupazioni in pace e in guerra, e devono regnarvi i migliori nella filosofia e nella guerra». Eliminata la famiglia, si sarebbe eliminato anche il rischio di un conflitto tra padri e figli, con tutte le conseguenze negative del caso.
Aristotele, benché allievo a sua volta di Platone, non ne condivise le idee sull’abolizione della famiglia, che per lui era la «prima forma di comunità», «la comunità che si costituisce per la vita quotidiana secondo natura» (Politica, libro I).
Al tempo stesso, però, il filosofo individuava nella famiglia «il luogo della tragedia» (Poetica, libro I): è qui, infatti, che affiorano le passioni più profonde e trascinanti, come l’amore, l’odio, l’invidia e la gelosia.
Così, è necessario che la famiglia sia «retta da uno solo», e che il capofamiglia eserciti sui figli l’autorità del re, perché «il re deve essere superiore per natura ai suoi sudditi, anche se è della stessa stirpe: ed è proprio questa la posizione del più anziano rispetto al più giovane, del genitore rispetto al figlio» (Politica, libro I).
È chiaro che in questa visione rigidamente gerarchica non poteva esserci posto per uno scontro generazionale, che per Aristotele è causa di disordine. Emerge invece un importante punto di contatto con il maestro Platone, relativo al ruolo fondamentale dell’educazione nella formazione dei giovani: essa spetta allo Stato, poiché ogni cittadino appartiene alla polis.
Qui sotto, Platone (a sinistra) e Aristotele (a destra), raffigurati ne La scuola di Atene di Raffaello.
3. Onora padre e madre
Come hanno rivelato studi recenti, nell’antica Roma il conflitto generazionale assunse dimensioni di inaudita gravità rispetto alla situazione greca: nell’Urbe, infatti, la patria potestà, detenuta dal capo della famiglia (a cui spettava la gestione del patrimonio e al quale erano soggetti la moglie, i figli e anche le nuore), non cessava con il raggiungimento della maggiore età, ma si protraeva fino a che il padre era in vita.
Questo, chiaramente, comportava una serie di spiacevoli conseguenze sulla vita privata e sulla società, a causa dell’autorità illimitata esercitata dal pater familias, che disponeva del diritto di vita e di morte su tutti i membri della famiglia, liberi e schiavi.
Il parricidio divenne così, oltre a un crimine universalmente esecrato, un sogno proibito e, in alcuni periodi, una pratica tragicamente diffusa, a cui non erano tanto i filosofi a interessarsi, quanto i legislatori.
La situazione si ribaltò con l’irrompere del cristianesimo nel mondo pagano: il quarto comandamento, «Onora il padre e la madre», gettava una luce diversa sul rapporto tra genitori e figli, e riconduceva il rispetto reciproco nell’alveo di una norma religiosa oltre che civile.
Il massimo interprete di questa nuova idea di famiglia fu Tommaso d’Aquino (1225-1274), che sostenne una visione straordinariamente moderna del legame matrimoniale: il matrimonio, spiegava il filosofo, «non è puramente la generazione della prole, ma è la trasmissione della vita e insieme la sua promozione fino al raggiungimento di uno stato umano perfetto».
Ne seguiva l’obbligo, per i genitori, di istruire ed educare i figli, garantendo loro stabilità e assistenza. Consapevole del dono genitoriale, la prole avrebbe provato per il padre e la madre amore, rispetto, riconoscenza e gratitudine, preparandosi a riservare loro le stesse cure ricevute nell’infanzia.
Secondo questa prospettiva, l’eventualità di una ribellione dei figli contro i padri suonava come un oltraggio inammissibile verso l’ordine naturale e divino delle cose, rafforzato, per di più, dalla rigidità della struttura sociale del tempo.
La situazione rimase pressoché immutata fino al Settecento, quando l’Illuminismo si dichiarò apertamente critico nei confronti della maturità e dell’anzianità.
Qui sotto, La Sacra Famiglia, in un dipinto dello spagnolo Bartolomé Esteban Murillo (1650). Il cristianesimo mutò i rapporti all’interno del nucleo familiare rispetto a com’erano sempre stati nel mondo antico e pagano.
4. Arrivano i lumi
Il primo a spezzare una lancia a favore della gioventù fu Jean-Jacques Rousseau (1712-1788), che additò nella giovinezza una fase della vita umana certamente imperfetta ma potenzialmente migliore, perché più vicina alla “Natura” e meno contaminata dalla corruzione della civiltà e delle convenzioni sociali: non era un incitamento alla ribellione giovanile, ma l’assunzione di una prospettiva nuova e per certi versi rivoluzionaria.
E, a proposito di rivoluzione, furono proprio il 1789 e la folgorante ascesa napoleonica a segnare l’ingresso sulla scena delle masse giovanili, in un’ottica notevolmente più benevola nei confronti delle nuove generazioni.
Perfino Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770- 1831), autorevole teorizzatore dello Stato come massima espressione di eticità, riteneva che lo scontro generazionale fosse il passo doloroso, ma necessario, affinché i figli, emancipandosi dai genitori, acquisissero una compiuta maturità e una propria identità come individui autonomi.
Le idee di Hegel attraversarono tutto il XIX secolo finché, nel 1913, Sigmund Freud diede alle stampe un testo dirompente, Totem e tabù. Nella foto sotto, Antonio Gramsci.
In esso il fondatore della psicanalisi rivisitò il mito di Crono in chiave antropologica, ipotizzando un evento reale verificatosi in un passato arcaico: in un’orda primitiva, sottomessa a un padre padrone spietato, un gruppo di fratelli si organizzò per ucciderlo e poi lo divorò in un pasto cannibalico rituale, in modo da appropriarsi, attraverso la sua carne e il suo sangue, della sua stessa forza. In questa rilettura moderna, l’uccisione sacrificale del padre appariva come un gesto tremendo ma necessario per l’emancipazione dei figli.
Nel Novecento, lo scontro generazionale assunse connotazioni ideologiche sempre più marcate, che emersero violentemente all’indomani della Prima guerra mondiale. In Italia, nel 1924, l’intellettuale futurista Alberto Cappa scrisse un opuscolo in cui interpretava il fascismo come l’episodio conclusivo dell’eterno scontro generazionale tra giovani e vecchi.
Appena due anni dopo, nel 1926, Antonio Gramsci sollevò il problema della “questione dei giovani”, destinata a diventare una costante nella storia italiana:
«La generazione “anziana” compie sempre l’educazione dei “giovani”», ma quando non intervengono interferenze di classe «il fenomeno assume un carattere “nazionale” e allora la situazione si complica e diventa caotica. I “giovani” sono in stato di ribellione permanente, perché persistono le cause profonde di essa, senza che ne sia permessa l’analisi, la critica e il superamento... gli “anziani” dominano di fatto, ma non riescono a educare i giovani, a prepararli alla successione...
La vecchia struttura non contiene e non riesce a dare soddisfazione alle esigenze nuove: la disoccupazione permanente o semipermanente dei così detti intellettuali è uno dei fenomeni tipici di questa insufficienza, che assume carattere aspro per i più giovani, in quanto non lascia “orizzonti aperti”. D’altronde questa situazione inacerbisce essa stessa i problemi che non sa risolvere».
Sotto, un manifesto del “maggio francese”, la stagione di moti giovanili che diede il via al più acceso conflitto generazionale del Novecento.
5. La società liquida
Gli eventi del Novecento sembrano confermare questa visione della Storia come un susseguirsi ininterrotto di conflitti, in senso proprio e metaforico, tra padri e figli.
Ma, nel corso del tempo, il contesto è profondamente mutato, al punto che nel 1979 il filosofo tedesco Hans Jonas lanciò un grido di allarme con il testo Il principio responsabilità.
Un’etica per la civiltà tecnologica. In questo saggio, tra l’altro, invocava la necessità di adottare comportamenti responsabili nei confronti del pianeta e impegno verso le generazioni future, alle quali consegnare non soltanto doveri ma anche diritti: «Non si deve mai porre, quale posta in gioco della scommessa dell’agire, l’esistenza delle generazioni future e dunque l’esistenza dell’umanità».
Non è un caso che alla base degli scontri generazionali degli ultimi trent’anni (ultimo, il movimento guidato dalla giovanissima Greta Thunberg) vi sia spesso l’accusa, rivolta ai vecchi, di lasciare ai giovani un pianeta destinato a diventare invivibile, preda del disastro ecologico e delle tensioni sociali.
La situazione attuale è stata fotografata con precisione dal sociologo e filosofo polacco Zygmunt Bauman, che intorno al 2000 coniò la fortunata definizione di “società liquida”, caratterizzata da alcuni tratti distintivi: crisi dello Stato, dei partiti e delle ideologie, individualismo sfrenato, incertezza del diritto, precarizzazione diffusa.
In particolare, Bauman associa lo smantellamento delle antiche sicurezze e una vita “liquida”, perché sempre più frenetica e costretta ad adeguarsi alle attitudini del gruppo dominante.
In questa dimensione così nuova e sconcertante i giovani, divenuti a loro volta vecchi ma sempre smarriti, dovranno comunque affrontare un conflitto analogo, generazione dopo generazione, in una spirale apparentemente senza fine.
Anche senza cedere alla cupa visione evocata da Bauman, è certo che la società contemporanea appare appiattita e quasi amorfa, priva com’è dei riti di passaggio che costituivano le tappe significative della crescita individuale, scandita da delusioni, rinunce, sacrifici e conquiste.
Come spiega con chiarezza il filosofo Umberto Galimberti, la causa di tutto è da ricercare nel fatto che oggi «non siamo più in grado di reggere il dolore. Si tratta di ripensare certe modalità di crescita all’interno di un “bambagismo” generalizzato e diffuso dove tutto è facile e piacevole».
La previsione è che ci avviamo, forse, verso una crisi d’identità generalizzata, mai vissuta prima dalla nostra civiltà. E l’unica speranza rimasta è che, ancora una volta, sia l’antico “amore per la sapienza”, o filosofia, a indicare la strada.