Geroglifici egizi: così ripresero a parlare

Era il 1822 quando l’antica civiltà della terra del Nilo riprese a parlarci con i messaggi in scrittura geroglifica rimasti muti per quasi duemila anni.

Oggi ripercorreremo l’affascinante avventura del deciframento per il quale furono decisivi la geniale intuizione di Champollion e la scoperta di Rosetta.

1. Secolari tentativi di una difficile riscoperta

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Duecento anni fa, dopo secoli di vani tentativi, si riuscì di nuovo a interpretare correttamente il messaggio affidato ai geroglifici dell’antico Egitto.

Oggi sappiamo che essi erano serviti a scrivere la lingua parlata in quel Paese per oltre tremila anni, un periodo ben più lungo di quello coperto dall’alfabeto che usiamo, e che la loro denominazione è in realtà la traduzione approssimativa in greco della loro designazione originaria, propriamente ‘parola di dio’.

Quando gli dei dell’Egitto furono sostituiti dal Dio dèi cristiani, dopo che l’Egitto da tempo era divenuto una (ricca) provincia dell’impero romano, gli egiziani cominciarono a scrivere la loro lingua con l’alfabeto greco e si perse completamente la conoscenza della “scrittura” geroglifica nella sua complessità.

Anche a causa della sua natura figurata, se ne mantennero solo vaghe idee su possibili spiegazioni allegoriche, alimentate dalla filosofia greca, e dimenticando l’impianto fonetico che ne sta realmente alla base.

Durante il Rinascimento la riscoperta nell’Urbe di obelischi iscritti, finiti a terra al tempo delle invasioni barbariche, suggerì ai dotti che dai simboli figurati si potesse trarre una scrittura universale, che i parlanti di qualsiasi idioma potessero comprendere; si inventarono nuovi disegni e si fecero elucubrazioni sempre più fantasiose.

Qua sotto, geroglifici e teoria di divinità verso la luna piena raffigurata come occhio di Horo (il cielo) su un soffitto del tempio di Hathor a Dandara, uno dei complessi templari meglio conservati in Egitto. Benché le strutture che si vedono siano del periodo tolemaico-romano (I sec. a.C.), la fondazione risalirebbe addirittura al regno di Pepi I (2321-2287 a.C., VI din.).

Per capire le circostanze che portarono a ritrovare il vero senso dei geroglifici, bisogna attendere la seconda metà del Settecento, quando l’abate francese Jean-Jacques Barthélemy (1716- 1795) riuscì a decifrare la scrittura fenicia, da cui discendono i nostri alfabeti.

La recuperata comprensione di antiche scritture, delle quali si era persa la conoscenza, rinnovò la curiosità nei confronti di altri documenti ancora avvolti da un fitto mistero.

E tuttavia le fonti bibliche e greche avevano conservato un vivo ricordo dell’antica civiltà egizia, che ancora affascinava soprattutto con la vista delle grandi piramidi, lungo il percorso dei pellegrini che si recavano in Terrasanta.

2. Con la spedizione napoleonica il tanto sospirato ritrovamento

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Fu dunque nel Settecento che si posero le basi per arrivare al vero deciframento dei geroglifici.

Diversi studiosi, spesso all’insaputa l’uno dell’altro, cominciarono a mettere ordine per circoscrivere i geroglifici autenticamente egizi, nell’attesa di una sospirata iscrizione bilingue, che finalmente fu trovata nel 1799 da un soldato della spedizione napoleonica in Egitto.

Nel forte di Rosetta (Rashid, presso Alessandria), dove i militari erano acquartierati, si rinvenne, riusata come materiale da costruzione, la famosa “pietra” o “(frammento di) stele”.

Il testo trilingue e in tre diverse grafie che vi era inciso (geroglifico, demotico e greco antico) accese subito la speranza di risolvere l’enigma. Si poteva infatti presumere che il contenuto fosse lo stesso in tutte le versioni, e una di queste era in greco, lingua ben nota.

I greci infatti avevano dominato l’Egitto dopo la conquista da parte di Alessandro il Macedone nel 332 a.C. e il loro dominio durò fino alla sconfitta di Antonio e Cleopatra nella battaglia di Azio (31 a.C.).

La “pietra”  fu tosto sottratta ai francesi come preda di guerra per esser esposta nel Museo Britannico a Londra, ma le iscrizioni furono subito rese disponibili agli studiosi interessati di tutta l’Europa.

Nella foto sotto, la stele di Rosetta, la celebre pietra rinvenuta nel 1799 reimpiegata nelle murature del Fort Julien a Rashid presso Alessandria.

L’iscrizione mediana della “stele”, quasi completa, era in una scrittura non figurata, che fu identificata con la scrittura dell’Egitto chiamata dai greci “demotico” (ossia ‘ordinaria’).

La parte superiore, più rovinata, conteneva invece i misteriosi geroglifici.

Si trattava precisamente di un editto, promulgato a Menfi nel 196 a.C., che il testo greco diceva espressamente doversi pubblicare in tutti i templi maggiori anche nelle altre due lingue/scritture del Paese.

Qua sotto, particolare di papiro nel Museo Egizio di Torino con scena della pesatura dell’anima (psicostasia). Questo testo, definito da Champollion Rituale funerario, ricevette nel 1842 da Richard Lepsius la designazione di Libro dei morti, mentre la traduzione esatta del titolo originale è Libro per uscire al giorno.

3. L’intuizione risolutiva di Jean François Champollion

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Erroneamente, i primi tentativi che cercavano di capire il testo demotico per confronto con l’alfabeto fenicio, furono destinati al fallimento.

Mentre, contro ogni aspettativa, il testo geroglifico fornì agli sforzi degli studiosi – tra i quali era in prima fila il fisico inglese Thomas Young (1773-1829) –, sulla base del confronto dei nomi regali, i primi sicuri valori fonetici applicabili ad alcuni segni.

Fu però il giovane Champollion (1790- 1832, foto sotto) a compiere il passo decisivo, consistente nell’applicare i valori fonetici acquisiti, giusti o presunti, all’identificazione tra i geroglifici di parole ricorrenti anche nella lingua copta (quella parlata più tardi dagli egizi, e notata con un alfabeto derivato da quello greco).

Ciò gli diede conferma della bontà del metodo seguito e gli consentì di ampliare continuamente la conoscenza del repertorio di segni fonetici della scrittura geroglifica, rintracciandone quindi gli equivalenti nella scrittura demotica.

C’erano voluti più di vent’anni di studi preliminari e tentativi fallaci per giungere alla dimostrazione che il deciframento era avviato – non senza contestazioni – sulla pista giusta.

L’annuncio fu dato il 27 settembre 1822 durante una seduta dell’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres a Parigi, di cui era segretario il filologo Bon-Joseph Dacier.

Qua sotto, geroglifici sulle imponenti colonne del tempio di Karnak. Regni di Sethi I (1290-1279) e Ramesse II (1279-1213).

Tuttavia si dovettero persuadere i maggiori orientalisti del tempo e ancora dopo anni non si teneva ufficialmente conto del progresso compiuto, mentre personalità dello spessore di Balzac e Mérimée si ostinavano a considerare Champollion un ciarlatano.

Incessanti scoperte fino a oggi, e l’acquisizione di documentazione ordinata, ma soprattutto il rigoroso metodo filologico degli studi in Germania durante l’Ottocento, hanno dissipato ogni ombra di dubbio.

Qua sotto, francobollo emesso in Francia nel 1972, in occasione del 150° anniversario del deciframento dei geroglifici egiziani. Accanto al ritratto di Champollion è riportata, in geroglifici e in trascrizione copta, la frase da lui decifrata ‘Il tuo edificio è duraturo come il cielo’ (in francese nell’originale).

4. Passo decisivo per la comprensione dei geroglifici (qualche nota sul decifratore)

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Jean François Champollion nacque a Figeac il 23 dicembre 1790, ultimo di sette figli di una famiglia modesta.

Il fratello maggiore Jacques Joseph si prese cura della sua formazione e lo tenne con sé a Grenoble, dov’era bibliotecario, accompagnandolo nell’appassionante avventura per cercare di comprendere i geroglifici.

Seguendo i progressi di altri studiosi che da tempo si erano accinti a questa impresa, e dotato di vaste conoscenze linguistiche, Jean François tentò senza esito parecchie soluzioni.

Nel settembre 1822, a Parigi dove era stato a trovare il fratello, compì alla fine il passo decisivo: applicando i pochi valori fonetici che si erano estratti da segni geroglifici usati per scrivere i nomi di sovrani dell’Egitto, si avvide che con essi poteva riconoscere anche parole presenti nella stessa lingua copta.

Nella foto sotto, geroglifici sulle colonne e sullo splendido soffitto del tempio di Esna (55 km a sud di Luxor) dedicato al dio Khnum, fatto costruire nel II sec. a.C. dai faraoni Tolomeo VI e Tolomeo VIII, ma decorato durante l’impero romano. Si tratta quindi di una scrittura geroglifica di una fase finale della civiltà egizia, come riconobbe già Champollion.

Iniziò quindi il percorso che gli permise di stabilire valori fonetici dei segni in numero sempre crescente, pur senza pervenire mai a ricostruire la struttura del sistema di scrittura, frutto di studi successivi.

Il suo intuito gli permise tuttavia di percepire con precisione significato e contenuto di numerosi testi, che andava continuamente saggiando.

Nel 1828-1829 Champollion poté infine compiere in Egitto un viaggio di documentazione promosso dal granduca di Toscana e dal re di Francia (la famosa spedizione franco-toscana condotta insieme con Ippolito Rosellini).

Quando vide la coppia di obelischi davanti al tempio di Luxor, memore degli obelischi visti a Roma, Champollion pretese che essa fosse donata alla Francia, ma a causa del peso fu prelevato solo l’obelisco minore e più vicino al Nilo, per esser eretto in Place de la Concorde.

Tuttavia il Decifratore, che nel frattempo era stato insignito della prima cattedra di egittologia al Collège de France a Parigi, e già aveva curato un nuovo reparto di antichità egizie nel Museo del Louvre, non poté vedere l’obelisco a Parigi a causa della morte prematura il 4 marzo 1832.

Gli obelischi di Roma invece erano stati trasferiti dall’Egitto quando questo era ancora una provincia dell’impero, e alcuni di essi incisi espressamente dopo il loro arrivo nell’Urbe.

Sotto, Jean François Champollion nel famoso ritratto (1831) del pittore francese Léon Cogniet. (Parigi, Louvre).





5. Le scritture degli egiziani

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- Geroglifici: l’inventario dell’universo.
La scrittura geroglifica nasce come “inventario dell’universo”, riproducendo la natura, che è ritenuta propriamente “scrittura degli dei”.
Essa si propone, per la prima volta, di far durare “parole” (logogrammi) e suoni (costituititi da sillabe: sillabogrammi).
Le prime testimonianze risalgono agli ultimi secoli del IV millennio a.C.

- Ieratico e demotico: necessità pratiche.
Dal III millennio a.C. si sviluppa collateralmente una forma semplificata dei segni, destituita del potere (magico) dei segni figurati e quindi animati, per uso contabile e privato.
Questa scrittura, detta dai greci “ieratico”, ovvero ‘sacerdotale’, per la sua ampia diffusione nei templi, darà origine ai libri, dapprima costituiti da rotoli di papiro.
Essa sarà la base per notare una nuova lingua egiziana, il “neoegizio”, subentrata a quella più antica verso la fine del II millennio a.C.
Di qui nascerà nel I millennio a.C. il “demotico”, ovvero ‘ordinario’, designazione di scrittura e di lingua, perdurante anche sotto il dominio greco (fine IV-I sec. a.C.) e oltre.

- Fase finale della lingua egiziana.
Il sistema di scrittura, durante i diversi millenni, conobbe vari adattamenti e modificazioni, tra cui imitazioni della scrittura alfabetica (che sono servite per il deciframento) e sviluppi di carattere simbolico o allegorico (che hanno a lungo ostacolato il deciframento).
Durante l’impero romano, in seguito alla conversione degli egiziani al cristianesimo, questi scrissero la loro lingua mediante un alfabeto simile a quello greco (il “copto”, deformazione di aiguptos), anche per tradurre testi sacri, canonici e apocrifi.








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