Giordano Bruno, processo a un visionario

«Giovedì mattina in Campo di Fiore fu abbruggiato vivo quello scelerato frate domenichino di Nola […] eretico ostinatissimo, ed avendo di suo capriccio formati diversi dogmi contro nostra fede, ed in particolare contro la SS. Vergine ed i Santi, volse ostinatamente morire in quelli lo scelerato; e diceva che moriva martire e volentieri, e che se ne sarebbe la sua anima ascesa con quel fumo in paradiso. Ma ora egli se ne avede se diceva la verità».

Così recitava un avviso affisso a Roma il 19 febbraio del 1600 in merito alla tragica esecuzione del frate domenicano Giordano Bruno, avvenuta due giorni prima dopo un lungo processo davanti al tribunale dell’Inquisizione.

Naturalmente, in un periodo in cui la repressione della Controriforma verso ogni tipo di dissenso religioso era al suo apice, Giordano Bruno non fu l’unico bersaglio dell’inflessibile giustizia ecclesiastica, ma neanche una vittima qualunque.

Le opere che aveva pubblicato prima della sua persecuzione rivelano uno dei filosofi più originali e radicali del Rinascimento.

Considerato da molti come un precursore del razionalismo e dell’Illuminismo che avrebbero trionfato nel XVIII secolo, nel corso del processo lasciò anche una testimonianza di dedizione totale ai suoi ideali, portata avanti fino al sacrificio che lo avrebbe reso una figura leggendaria.

1. Il filosofo viandante

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Nato vicino a Nola, nel regno di Napoli, Bruno entrò nell’ordine domenicano all’età di diciassette anni.

Qui trovò un ambiente propizio allo studio della teologia e delle materie filosofiche e scientifiche.

Di carattere inquieto e ribelle, ben presto si fece notare per le parole e i gesti con cui metteva in discussione l’ortodossia e che lo resero sospetto di simpatizzare con il protestantesimo.

Nel 1575 l’Inquisizione di Napoli lo indagò per le sue idee eretiche. Fra Giordano partì allora per Roma, quindi cercò rifugio in altre città italiane come Genova, Venezia, Padova e Milano.

Nella foto sotto, l'interno della chiesa di san Domenico Maggiore a Napoli, dove Bruno seguì il suo noviziato e fu promosso agli ordini sacri

Nel 1578 il filosofo nolano lasciò l’Italia e per quindici anni condusse un’esistenza nomade, spostandosi tra Francia, Germania, Svizzera e Inghilterra. In questo periodo pubblicò le sue opere principali, nelle quali sviluppava le concezioni più radicali, come quella dell’infinità dell’universo.

In contrasto con il modello tradizionale di un cosmo chiuso che ruota intorno alla terra, Bruno sosteneva, come Copernico, che il centro dell’universo era il sole; ma anche che c’erano innumerevoli altri mondi abitati da esseri simili a noi, che adoravano il proprio dio.

Le sue idee eterodosse e gli aspri dibattiti con alcuni dei principali intellettuali del continente gli valsero molti nemici e lo portarono ad accumulare scomuniche da parte della Chiesa cattolica, calvinista e luterana.

Nel 1591 Bruno tornò inaspettatamente in Italia. Prima andò all’Università di Padova, dove insegnò filosofia agli studenti tedeschi per tre mesi e si candidò, senza successo, a una cattedra vacante di matematica – che due anni dopo sarebbe stata assegnata a Galileo Galilei.

Dopo questa battuta d’arresto accettò l’invito del patrizio veneziano Francesco Mocenigo, che gli inviò una lettera chiedendogli d’insegnargli «li secreti della memoria e li altri che egli professa». Per diversi mesi Bruno istruì il suo allievo aristocratico mentre partecipava alla vita culturale e ai dibattiti della città.

Nella foto sotto, Magdalen College, Oxford. Dopo il suo arrivo in Inghilterra nel 1583, Giordano Bruno sostenne dispute teologiche con i professori dell’Università di Oxford.

2. Tradimento a Venezia

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Il desiderio del frate era quello di stabilirsi a Roma, e a questo scopo doveva ottenere il perdono papale nella causa intentata contro di lui anni prima.

Pensò quindi di recarsi a Francoforte per stampare alcune delle sue opere da presentare al pontefice, ma Mocenigo glielo impedì.

La notte del 22 maggio 1592 il veneziano si presentò nella sua stanza con alcuni uomini – secondo Bruno, gondolieri locali – che lo trascinarono fuori dal letto e lo sequestrarono. Il giorno seguente Mocenigo lo denunciò all’Inquisizione veneziana.

L’aristocratico presentò una lunga lista di accuse contro Bruno. Dichiarò che il nolano sosteneva che l’universo e i mondi fossero infiniti, e che l’anima o lo spirito transitassero in altri corpi dopo la morte (metempsicosi); e che gli aveva rivelato di avere vissuto in terre eretiche adattandosi ai costumi locali.

Secondo Mocenigo, Bruno non credeva nella trinità. Si può leggere inoltre nella denuncia: «[Bruno] Ha detto che la Vergine non può aver partorito; che la nostra fede cattolica è tutta piena di bestemmie contro la maestà di Dio; che bisognerebbe togliere la parola e i soldi ai frati perché imbrattano il mondo; che sono tutti asini».

Anche i suoi compagni di prigionia, come il frate cappuccino Celestino da Verona, lo accusarono di sostenere ogni sorta di eresie: «Che Mosè fu mago astutissimo [...] e che la legge da lui data al popolo Ebreo era da esso imaginata e finta», «Che tutti i Profeti sono stati uomini astuti, finti e bugiardi», «Che il raccomandarsi ai Santi è cosa redicolosa e da non farsi».

A Venezia il tribunale sottopose l’accusato a sette interrogatori, nel corso dei quali Bruno chiarì che aveva sempre pensato come filosofo e non come teologo.

Nonostante la gravità delle accuse, in questa fase del processo sarebbe stato sufficiente un pentimento per evitare la condanna da parte del tribunale veneziano, noto per la sua benevolenza.

Nell’ultimo interrogatorio di luglio Bruno, in ginocchio, chiese perdono per gli errori commessi. Ma ormai l’Inquisizione romana gli aveva messo gli occhi addosso e ne chiese l’estradizione.

Nella foto sotto il Palazzo Ducale a Venezia, dove nel 1592 Giordano Bruno fu interrogato dagli inquisitori sulle sue presunte eresie.

3. Roma assume il controllo

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Dopo mesi di trattative e pressioni di ogni tipo, la Serenissima acconsentì all’estradizione.

Il 27 febbraio 1593 Bruno fu imprigionato nelle carceri dell’Inquisizione romana, accanto alla basilica di San Pietro.

Lì, il nolano si difese negando e sminuendo le accuse contro di lui: attenuò i suoi dubbi sulla trinità, si mostrò pronto ad accettare i dogmi, respinse le accuse di ateismo e blasfemia, affermò la sua fede nell’esistenza dell’inferno, ridimensionò l’affermazione che Mosè fosse un mago e la sua concezione dell’infinità dei mondi.

Spiegò inoltre che la metempsicosi era un’opinione filosofica e negò di aver detto che Caino era migliore di Abele. Il processo contro Bruno si trascinò per anni, forse perché i giudici non riuscivano a trovare motivi sufficienti per una condanna.

Ma nel gennaio del 1599 entrò in scena il cardinale Roberto Bellarmino (foto sotto), noto per il suo rigore contro l’eresia. Se fino ad allora Bruno era stato disposto ad ammettere i suoi errori, dal momento della comparsa di Bellarmino tutto cambiò.

Il cardinale chiese a Bruno di abiurare otto proposizioni eretiche estratte dai suoi libri. Il documento non è sopravvissuto, ma probabilmente le proposizioni riguardavano la concezione dell’universo e la sua relazione con la divinità, il moto della terra, l’interpretazione della natura angelica degli astri, la concezione di un’anima universale e della metempsicosi.

4. Morire piuttosto che ritrattare

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Quando il 18 gennaio 1599 gli furono presentate per la prima volta le proposizioni, Bruno parve disposto a riconoscerle come eretiche, ma poi cambiò idea.

Gli vennero sottoposte nuovamente il 15 febbraio e gli furono accordati quaranta giorni per pentirsi, ma anche in questo caso rifiutò.

Il 10 settembre gli inquisitori rinnovarono la richiesta e inviarono due religiosi per cercare inutilmente di convincerlo. Il 21 dicembre Giordano Bruno respinse categoricamente l’idea di abiurare.

Riportano gli atti del processo: «[Dichiara ] Che non deve né vuole pentirsi e non ha di che pentirsi né ha materia di pentimento, e non sa di che cosa debba pentirsi».

Qua sotto, il processo di Giordano Bruno, bassorilievo del basamento della statua in Campo de' Fiori dello scultore Ettore Ferrari.

Dopo gli ultimi tentativi di fargli cambiare atteggiamento, il 20 gennaio 1600 papa Clemente VIII ordinò di chiudere il caso con una condanna.

L’8 febbraio Giordano Bruno venne portato nel palazzo del cardinale Madruzzi in piazza Navona, dove ascoltò la sentenza di fronte ai cardinali inquisitori, ai testimoni e al notaio.

Il verdetto lo dichiarava «eretico impenitente pertinace ed ostinato», e lo condannava per quasi tutte le accuse contro di lui a essere degradato – cioè spogliato dei suoi attributi ecclesiastici – e scomunicato.

La sentenza ordinava anche che le sue opere fossero bruciate in piazza San Pietro e inserite nell’Indice dei libri proibiti. Bruno ascoltò in ginocchio e in un ultimo atto di sfida disse: «Forse avete più paura voi di pronunciare questa sentenza che io di ascoltarla».

Dopo essere stato degradato Bruno fu imprigionato nelle carceri pontificie di Tor di Nona . I tentativi di vari teologi e frati di convincerlo a ritrattare per salvare almeno la propria anima furono inutili.

All’alba di martedì 17 febbraio, scortato da una processione di ufficiali, inquisitori e sacerdoti della confraternita di San Giovanni Decollato, che avevano il compito di accompagnare i condannati a morte, Bruno lasciò la prigione a dorso di un mulo e si diresse lungo la via Papale verso il rogo di Campo de’Fiori.

Arrivato davanti alla pira, fu spogliato e legato a un palo, ma non prima che la sua lingua venisse inchiodata a una mordacchia di ferro che gli arrivava fino alla gola, in modo che non potesse parlare.

Secondo una testimonianza, quando gli fu presentato un crocifisso distolse lo sguardo e rivolse un «viso pieno di disprezzo» ai presenti, dimostrazione finale del fatto che il suo spirito non era stato domato.





5. Il gesuita che condannò Bruno

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Dopo gli studi all’Università di Lovanio, in Belgio, il gesuita Roberto Bellarmino (foto sotto) tornò in Italia nel 1576, praticamente nello stesso periodo in cui Giordano Bruno lasciava il Paese.

Nominato cardinale nel 1599, ebbe un ruolo di primo piano come consigliere del Sant’Uffizio nei tre processi inquisitoriali più famosi del XVII secolo, quelli contro Giordano Bruno, Galileo Galilei e Tommaso Campanella.

In tutti e tre agì con grande severità, guadagnandosi l’appellativo di «martello degli eretici»: Campanella passò 27 anni in prigione; Galileo, anche se riuscì a salvarsi dalla morte, dovette ritrattare le sue idee, e Bruno fu giustiziato per non aver abiurato le proposizioni che Bellarmino aveva bollato come eretiche.

Già all’epoca alcuni personaggi criticarono aspramente l’intervento di Bellarmino nel processo contro il filosofo di Nola.

Nel 1606 il veneziano Giovanni Marsilio pubblicò un libro in cui denunciava le tecniche malevole impiegate dal gesuita: «Fabrica sopra per le parole dell’auttore un’espositione contraria al senso, e all’intenzione di lui, a fine di cavarne conclusioni per riprenderle ora come heretiche, hora come scismatiche, hora come erronee [...] hora come scandalose».

 

CRONOLOGIA
BRUNO, IL FILOSOFO ERRANTE
1548: Filippo Bruno, figlio di un soldato del re di Spagna, nasce a San Giovanni del Cesco, vicino a Nola. Quando all’età di 17 anni entra nell’ordine domenicano, prende il nome di Giordano.
1578: Dopo una serie di scontri con l’Inquisizione, Bruno lascia l’Italia e inizia un viaggio di 15 anni nelle principali città d’Europa, dove si dedica allo studio e al dibattito e pubblica le sue principali opere.
1591: Torna in Italia, invitato dal patrizio veneziano Giovanni Mocenigo, per insegnargli l’arte della memoria. Tempo dopo Mocenigo lo denuncia all’Inquisizione di Venezia.
1593: Dopo un processo di nove mesi dal quale sembra potersi salvare, Giordano Bruno viene estradato a Roma, dove l’Inquisizione papale lo processerà per eresia nei successivi sette anni.
1600: Bruno viene bruciato vivo in Campo de’ Fiori come «eretico impenitente pertinace ed ostinato» per aver rifiutato di abiurare.








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