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Giovanni Battista Piranesi: un genio visionario

Il 12 ottobre 1740 un giovanotto dal forte accento veneto, con grandi sogni ed enormi talenti, mise per la prima volta piede a Roma.

Con quel viaggio il ragazzo, che si chiamava Giovanni Battista Piranesi (1720-1778), realizzava il suo primo desiderio: tuffarsi in quelle antiche vestigia che animavano la sua fantasia e le sue ambizioni.

Figlio di un modesto tagliapietre, garzone di un architetto, il giovane, che per qualche tempo aveva frequentato la bottega del Tiepolo, era riuscito a imbucarsi nel corteo che conduceva nella città del papa il nuovo ambasciatore della Serenissima.

Giovanni Battista Piranesi sognava di fare l’architetto. Invece diventò un incisore: il migliore. Destinato a influenzare generazioni di artisti.

 

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1. In viaggio

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Giovanni Battista (o Giambattista) era abilissimo a disegnare. Un’abilità necessaria, soprattutto all’epoca, tanto per la pittura quanto per l’architettura.

E il ragazzo sognava proprio di diventare architetto. Un sogno che si era alimentato negli anni a forza di letture, a cominciare dai trattati del Palladio, letti e riletti fino a consumarne le pagine.

Il suo modello era l’inquieto Francesco Borromini, che aveva disegnato la Roma barocca rivaleggiando con Bernini, e poco importa se aveva finito i suoi giorni gettandosi sulla sua stessa spada.

Il viaggio da Venezia a Roma, che in quei tempi durava molti giorni, fu come una scuola di architettura a cielo aperto, che Giambattista fissò avido in rapidi schizzi.

A Ferrara, le tante meraviglie rinascimentali lasciate dagli Estensi; a Rimini il tempio di Malatesta, che Leon Battista Alberti lasciò incompiuto perché le casse di Sigismondo, il ruvido committente, erano vuote; fra Spoleto e Foligno ammirò le fonti del Clitunno, con il tempietto a Giove.

Il corteo attraversò quindi l’alto Lazio, una landa desolata e paludosa, dove vivevano contadini miserabili che lottavano contro la malaria, per entrare finalmente a Roma, come Raffaello duecento anni prima, da piazza del Popolo. La città che Piranesi vide, non era molto diversa da quella dell’Urbinate.

Nonostante l’impegno di papa Sisto V, che sul finire del Cinquecento l’aveva rimodernata, facendo tra l’altro erigere l’obelisco di piazza San Pietro; nonostante i fasti del Barocco, e quindi del suo amato Borromini, l’Urbe rimaneva in gran parte una città medievale. Possiamo provare a immaginarla.

Il Colosseo sembrava una gigantesca conchiglia, con tutte quelle concrezioni edilizie, case e botteghe, che nei secoli vi si erano appoggiate; la Tomba di Adriano era adibita a magazzino per le mercanzie scaricate dal porto di Ripetta, ancora in funzione; le Terme di Caracalla erano invase da rovi; sul Gianicolo pascolavano i bufali.

Se non altro, dopo un lunghissimo conclave durato sei mesi, era salito al trono papa Benedetto XIV, un uomo concreto, semplice, e anche alquanto salace. Viene definito il papa Giovanni XXIII del Settecento, e non a torto.

Sotto, il ritratto di Piranesi eseguito da Francesco Polanzani (1700-1783).

 

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2. Carceri da incubo

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A Roma il Piranesi portò l’arte del disegno a livelli ineguagliati.

Un giorno si fece issare con una cesta lungo la Colonna di Traiano, che è alta quaranta metri, per riprodurre su carta ogni singolo dettaglio del racconto (le conquiste in Dacia dell’imperatore) in rilievo, che misura oltre duecento metri lineari e prevede almeno 2.500 diverse figure.

Prima di lui ci aveva provato un francese, che però rinunciò subito, perché temeva di rompersi l’osso del collo. Piranesi invece aveva fegato. Eppure il suo sogno di fare l’architetto non si avverava.

Un po’ la sfortuna, un po’ perché in quel periodo le grandi committenze papali, che avevano permesso a Nicola Salvi di realizzare la Fontana di Trevi, si erano esaurite. Giambattista dovette prendere la strada per casa, ma ormai Roma gli era entrata nel sangue.

Così alla prima occasione vi fece ritorno, e non potendo fare l’architetto, si dedicò al disegno e all’incisione all’acquaforte, tecnica sofisticata che aveva appreso a Venezia.

A soli venticinque anni, nel 1745, dopo un anno di durissimo lavoro, pubblicò una raccolta di quindici incisioni che da sola sarebbe bastata a farne uno dei più grandi artisti di sempre: Carceri d’invenzione.

Perché questo soggetto? A Roma aveva senz’altro visitato quel che restava del tenebroso carcere Mamertino, dove fu rinchiuso san Paolo; e assistito alla fustigazione di criminali che si tenevano in piazza Navona.

Ma negli interni delle carceri, che incise con maestria, non c’era nulla di realistico. Erano luoghi da incubo, sorvegliati da colossali leoni di marmo, costellati di catene, sbarre, ruote di tortura, passerelle sospese nel vuoto e scale che non portavano da nessuna parte.

Ambienti giganteschi e oppressivi, che facevano sembrare insignificanti le figurine umane che aveva collocato al loro interno. Fissavano la sua angoscia, che è anche la nostra: quella di vivere in un mondo dominato dall’assurdo e dalla violenza.

Disegni così potenti che avrebbero influenzato nei secoli a venire molti artisti: come l’“inventore” del romanzo gotico Horace Walpole (1717- 1797), che vi si ispirò per scrivere Il Castello di Otranto; Sergej Michajlovich Ejzenštejn (1898-1948) per le scenografie dei suoi film e Maurits Cornelis Escher (1898-1972) per le sue litografie.

Sotto, prigionieri sulla piattaforma, da Carceri d’invenzione, circa 1749- 50.

 

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3. Grande mondo antico

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Ma da dove prese ispirazione Piranesi per le sue incisioni? Sempre da Roma, ovviamente, e dalla sua storia millenaria.

In quel tempo l’Urbe non smetteva di restituire, a chi le cercava, le vestigia del mondo antico.

Già nel Cinquecento erano tornate alla luce statue di grandi dimensioni e bellezza come il Laocoonte e l’Apollo del Belvedere, che avevano influenzato gli artisti del Rinascimento. In pieno Settecento scoperte così eclatanti erano divenute rare, ma non impossibili.

Nella Villa di Adriano, a Tivoli, venne scoperta per esempio una pregevolissima statua di Endimione, il giovane amato dalla dea Selene, che ora è il pezzo forte del Museo di Stoccolma.

Ma per chi avesse avuto abbastanza coraggio di infilarsi nelle grotte e nelle catacombe, a rischio di venir seppellito da un crollo, non era difficile riemergere con monili, monete, anfore, modanature di marmo pregiato e mascheroni.

Ad acquistarli provvedevano antiquari come Bartolomeo Cavaceppi, che li restaurava e li vendeva con grande lucro, e quando non ne aveva, ne fabbricava di falsi senza farsi scrupoli. Piranesi se lo fece amico, intuendo che questa professione gli calzava come un guanto.

Ma poi fu lui stesso ad andare in cerca di antichità, perché le voleva vedere quando uscivano dalla terra, anche esponendosi al rischio della malaria e dei banditi che controllavano l’agro romano. Prima di vendere quello che trovava, in cambio di zecchini sonanti, Piranesi disegnava, copiava, annotava.

E così poté dare alle stampe molte serie di incisioni che documentano la sua enorme competenza sulle architetture di Roma – palazzi, terme, templi, ville – e su quello che oggi chiameremmo design: vasi, candelabri, orpelli, motivi decorativi, ogni genere di oggetto. Cataloghi di meraviglie che nelle stampe di Piranesi sembrano riprendere vita.

Sotto, l’acquaforte Arco di Costantino.

 

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4. Sulla via dell’Egitto e finalmente architetto

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Un giorno l’artista si imbatté in quel che restava della seicentesca Wunderkammer di Athanasius Kircher, di fatto uno dei primi musei.

Il gesuita tedesco, che aveva fama (immeritata) di aver decifrato i geroglifici, aveva raccolto presso il Collegio Romano ogni genere di stravaganti curiosità, tra cui una sirena, un pezzo di drago, fossili, rari trattati incentrati sull’Oriente e sull’antico Egitto.

Furono questi a colpire Piranesi, ormai uomo fatto, che sfogliando queste pagine ingiallite venne a conoscenza di Iside e di Osiride, del dio Ra e delle misteriose sfingi, che da quel momento si insinuarono nelle sue composizioni.

In un’epoca in cui tutti guardavano alla Grecia come modello di civiltà, e l’Illuminismo vedeva nella Bibbia solo una collezione di leggende, lui si volse invece verso il Vicino Oriente, l’antico Egitto, la Cananea degli Ebrei, e qui trovò, con la sua anima di artista, le radici della civiltà.

Ma che fine aveva fatto il suo sogno di diventare architetto? Era ancora lì, e stava per concretizzarsi. La svolta arrivò con l’ascesa al trono di Clemente XIII, nel 1758.

Il nuovo papa negò l’imprimatur alla Encyclopédie di Diderot e d’Alembert, opera-manifesto dei Lumi, e fece coprire con foglie di fico le statue antiche nei palazzi vaticani. Ma era veneziano, e guardava al conterraneo Piranesi con simpatia. Ai tempi di Roma antica l’Aventino era uno dei luoghi più sacri.

Si diceva che ospitasse addirittura la tomba di Remo, il gemello di Romolo, e templi in onore del Sole, di Giove e di Mitra. In epoca più recente, un convento e una chiesa che tenevano vivo il ricordo delle Crociate in Terra Santa, dei cavalieri Templari e di quelli Gerosolimitani.

Per Clemente XIII (foto sotto), cosa ci poteva essere di meglio che richiamare questa nobile e antica tradizione? E chi meglio del Piranesi poteva rinverdire quelle glorie del passato? Certo, si trattò fondamentalmente di una ristrutturazione.

Ma l’artista per la prima volta ebbe carta bianca. E riciclando reliquie, antiche lapidi, sarcofagi di cavalieri, fece di Santa Maria del Priorato un sacrario e un monumento alla sua visione tenebrosa. Un luogo dove la meraviglia del barocco si incontra con l’arcano e il mistero.

Fra queste mura finalmente Piranesi poté realizzare se stesso, e non è un caso che sia proprio qui la statua che lo celebra, tramandando le sue fattezze per l’eternità.

 

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5. Sapeva farsi rispettare

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In origine le duecentosedici splendide tavole de Le antichità Romane, un vero catalogo di Roma antica e delle sue magnificenze, era dedicato a un nobile irlandese, il visconte di Charlemont, che aveva promesso di fare da mecenate all’opera.

In un secondo tempo però il nobile si tirò indietro, e non versò a Piranesi la somma dovuta.

L’artista non si limitò a cancellare il visconte dal frontespizio, come avrebbe fatto chiunque altro, ma stampò un pamphlet per denunciare il comportamento scorretto dell’irlandese.

Non pago, Piranesi diffuse una lettera che metteva il visconte in discredito davanti all’Accademia di San Luca, di cui facevano parte i più famosi artisti del tempo. Una copia finì nelle mani del celebre pittore Raphael Mengs che, colpito, invitò Piranesi a tenere una pubblica conferenza sul rapporto tra gli artisti e i loro mecenati.

Piranesi sostenne con fierezza che gli artisti dovevano cessare di far prostituire la loro arte ai capricci dei ricchi, e che l’arte doveva essere libera. Per l’epoca, una posizione innovativa e molto coraggiosa.

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Sanguigno e diretto, Piranesi non si tirò indietro dal confronto, a distanza, con un altro grande del suo tempo, il tedesco Johann Joachim Winckelmann (1717-1768), padre della moderna critica d’arte e pioniere dell’archeologia.

Venuto in Italia per visitare gli scavi di Ercolano, al pari di Piranesi anche Winckelmann visitò il museo di Athanasius Kircher. Ma ne riportò una impressione negativa. L’apice della civiltà antica Winckelmann la trovava nei Greci, a cui dobbiamo opere come l’Apollo del Belvedere, talmente bello da scuoterlo nel profondo fino quasi a farlo svenire.

Nel museo di Kircher, Piranesi si era invece imbattuto in un libro di fine Cinquecento, scritto da due gesuiti andalusi, Jéronimo Prado e Juan Battista Villalpando: Ezechielem Explanationes et Apparatus ac Templi Hierosolymitani Commentarii et Imaginibus descriptus.

Il trattato descriveva, con molta fantasia, l’architettura ebraica antica, sostenendo che fosse stato Dio stesso a fornire le proporzioni del Tempio di Salomone.

Benché il libro fosse privo di fondamento, Piranesi ne adottò la tesi, convinto che le origini della grandezza di Roma andassero cercate non nel contatto col mondo greco, come voleva Winckelmann, ma con un mitologico Medio Oriente.

Da queste idee nacque la raccolta Della magnificenza ed Architettura de’ Romani (1761), che Piranesi dedicò a Clemente XIII.

 

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