Verso la metà del XVII secolo due sbarchi quasi simili determineranno storie e vicende assai diverse.
Nel 1620 un gruppo di padri pellegrini, puritani inglesi di fede calvinista, sbarcarono sulla costa occidentale dell’America fondando quella che sarebbe stata la prima colonia dei futuri Stati Uniti; trentadue anni dopo, nel 1652 un manipolo di olandesi creò il primo insediamento stabile all’estremo sud dell’Africa, fondando quella che sarebbe divenuta Città del Capo.
Se, però, a seguito dei padri pellegrini giunsero poi avventurieri, emarginati e vagabondi di ogni genere da mezza Europa, al seguito dei primi esploratori della Compagnia olandese delle Indie orientali arrivarono, invece, a ondate successive, decine di famiglie di agricoltori e allevatori delle province interne dell’Olanda, quelle più rigidamente legate alla religione calvinista.
Gente, onesta, laboriosa, forse un po’ “bigotta”, ma pacifica e legata alle proprie tradizioni.
La nascita di questa enclave religiosa attirò inevitabilmente anche ugonotti francesi (soprattutto dalla Normandia), puritani scozzesi, riformati scandinavi e tedeschi – chi più e chi meno in fuga dalle vessazioni laiche o cattoliche, dei rispettivi Paesi di origine – in cerca di un “terra promessa” su cui edificare una nuova comunità dove vivere in pace e serenità.
Inizia così la vicenda di un popolo nuovo di cui si sa poco, ma che rappresenta un unicum nella Storia contemporanea: gli Africaners.
Questo termine risale al 1707 ma non venne usato ufficialmente, per definire un vero e proprio popolo, se non agli inizi del XX secolo, e sta a indicare gli africani di pelle bianca che parlano l’afrikaans, una lingua nuova derivata principalmente dall’olandese, ma semplificato e con inserimenti anche di termini di origine locale.
Le sue particolarità grammaticali, quali la mancanza quasi totale di coniugazione del tempo imperfetto, la mancanza della negazione doppia (come in inglese) e un solo genere grammaticale (sia maschile che femminile), ne fanno una lingua a sé stante, ancora oggi riconosciuta come una delle tre ufficiali del Sudafrica.
Ma chi sono veramente gli Africaners? Scopriamolo insieme.
1. I rapporti con le popolazioni locali
Prima di essere definiti ufficialmente Afrikaners, le varie comunità bianche di lingua afrikaans erano conosciute con l’appellativo generico di Boeri, dall’olandese boer, “contadino” a loro volta distinti in trek-boers (“agricoltori migranti”) che vivevano nella zona della Penisola del Capo, e voortrekkers, letteralmente “quelli che vanno avanti”, i pionieri.
Per oltre un secolo i Boeri si insediarono nella regione del Capo di Buona Speranza mantenendo in genere buoni rapporti con le popolazioni indigene, salvo i continui scontri con l’etnia xhosa, che generarono una serie di conflitti di frontiera.
Essendo i Boeri soprattutto agricoltori e allevatori, con un forte senso della famiglia, delle gerarchie sociali e un legame religioso spesso fanatico, la loro comunità viveva isolata, autonoma, salvo per gli scambi commerciali necessari.
Divennero anche ottimi cavalieri e cacciatori per difendere e aggregare le mandrie; ma rimasero sostanzialmente pacifici. Le cose cambiarono di colpo nel 1797 quando, durante la Quarta guerra anglo-olandese, gli Inglesi occuparono la colonia del Capo, annettendola formalmente nel 1806.
Tra i nuovi coloni anglosassoni e i residenti bianchi fu subito diffidenza e conflitto. I Boeri non sopportavano lo stile autoritario del colonialismo britannico, che si comportava come una potenza d’occupazione ed adottava una politica di anglicizzazione forzata, l’imposizione di norme e di tasse che andavano a intaccare le usanze e l’autonomia della colonia calvinista.
Tra i due gruppi c’erano due visioni del mondo diverse: gli Afrikaners erano contadini e mandriani, gli Inglesi erano commercianti, mercanti, affaristi, industriali e anche aristocratici in cerca di avventure. I primi volevano mantenere il possesso di una terra in cui vivere in pace; i secondi cercavano terra di cui sfruttare le risorse.
Anche per quanto riguarda il controverso tema del razzismo le differenze erano sostanziali. I Boeri erano dichiaratamente per la “separazione” (quella che verrà poi chiamata “apartheid”) che affondava le sue radici nell’insegnamento biblico e nei suoi precetti, ma che comportava anche il rispetto per le reciproche diversità.
Gli inglesi erano invece cultori di un razzismo biologico, antropologico e basato sulla superiorità della razza bianca e lo sfruttamento della razza nera, considerata più una specie animale che umana. I primi si sentivano il nuovo “popolo eletto” da Dio, i secondi un popolo geneticamente superiore destinato a dominare il mondo.
La differenza non è da poco: i Boeri, per esempio, non avevano schiavi e i lavoranti neri erano remunerati e alloggiati, anche se non gli erano riconosciuti pari diritti; gli Inglesi, invece, praticavano lo schiavismo ma promulgavano norme che garantivano ipocritamente «pari diritti davanti alla legge per tutte le persone libere di colore».
Sotto, la battaglia di Ladysmith, del 1899, tra la Gran Bretagna e le repubbliche boere dell’Orange e del Transvaal.
2. In fuga dagli inglesi, alle prese con gli Zulu
Fu anche per questi motivi che, negli anni tra il 1830 e il 1840, circa 12 mila voortrekkers emigrarono dalla colonia del Capo, ormai controllata dai britannici, verso le zone a nord del fiume Orange, nel corso di quello che venne chiamato “Great Trek”, la grande marcia.
Gli africani bianchi, guidati da Piet Retief e Gerrit Maritz, giunsero in una zona sotto il controllo del re zulu Dingane, fratello del fondatore dell’impero zulu. Retief inviò al re una lettera in cui indicava la volontà di vivere in pace e contrattò la terra in cui vivere in cambio di capi di bestiame.
Dingane accettò, ma poi non mantenne i patti e, nel giorno in cui doveva essere firmato l’accordo, tese un agguato ai bianchi uccidendo Retief e Maritz, assieme ai coloni che li avevano accompagnati.
L’eccidio scosse i voortrekker che si trovarono per la prima volta a doversi organizzare militarmente. Andries Pretorius ne prese la guida e, il 16 dicembre 1838, nonostante l’inferiorità numerica sconfisse i guerrieri zulu e fondò la Repubblica di Natalia.
Nella foto sotto, Dingane, re degli Zulu, ordina a tradimento l’uccisione dei Boeri Retief e Maritz, dopo aver stretto con gli Afrikaners un patto di pace e tolleranza reciproca.
La vittoria degli uomini di Pretorius aprì le porte a ulteriori conquiste territoriali dei voortrekker che formarono diverse piccole repubbliche in aree fuori dal controllo britannico, senza però dotarsi di un unico governo centrale: ciascuna comunità si gestiva autonomamente.
Ma la tranquillità per gli africani bianchi durò poco. Nel 1877 il governatore inglese Theophilus Shepstone decise di annettere tutto il Transvaal all’impero britannico, comprese quindi le repubbliche boere. Dopo una serie di vane proteste si passò alla ribellione e, quindi, nel 1880, all’invio di truppe inglesi per reprimere i Boeri.
I sudditi di Sua Maestà dovettero pensare che la spedizione militare contro i bifolchi africani, comandata da George Pomeroy-Colley, sarebbe stata una passeggiata, invece subirono una dura sconfitta nella battaglia di Majuba Hill e, nel febbraio 1881, il governo britannico fu costretto a riconoscere ai Boeri l’autogoverno nel Transvaal, anche se, ufficialmente, sotto “supervisione” britannica.
In questa che è conosciuta come Prima guerra boera, fu determinante la differenza di strategia militare. Da una parte il rigido esercito inglese con le sue giubbe rosse ben visibili e le formazioni a ranghi compatti, dall’altra pochi, ben armati e validi cacciatori dalla mira infallibile che si mimetizzavano nella vegetazione e conoscevano perfettamente il territorio.
Quella dei Boeri fu però una vittoria effimera. Già nel 1885, infatti, la scoperta di giacimenti d’oro e di diamanti nel Transvaal determinò l’arrivo di una massa di avventurieri, principalmente britannici, detti uitlanders molti dei quali erano ladri e delinquenti oltre che “miscredenti” e questo non poteva non creare attriti con gli Afrikaners, così ligi ai precetti e timorati di Dio.
Come se non bastasse, nel 1890 divenne primo ministro della colonia del Capo Cecil Rhodes, losca figura di affarista senza scrupoli che controllava già allora il 90% del mercato dei diamanti del mondo.
Sua prima iniziativa fu quella di varare il “Glen Grey Act” che consentiva l’allontanamento delle popolazioni (bianche o nere che fossero) dalle loro terre per favorire il cosiddetto “sviluppo industriale”.
La politica imperialista e di sfruttamento di Rhodes fu ovviamente osteggiata dal governo boero del Transvaal, guidato da Paul Kruger, così, nel 1895, Rhodes pensò bene di finanziare un’impresa militare, condotta da un corpo di mercenari comandati dal baronetto britannico Leander Starr Jameson, allo scopo di rovesciare la Repubblica boera del Transvaal.
La cartina, sotto, mostra gli Stati fondati e abitati dagli africani bianchi.
3. Una repressione che anticipava quelle naziste
Il blitz dei mercenari fallì miseramente, ma quel tentativo di golpe portò alla reazione sdegnata degli africani bianchi, che decisero di reagire e attaccarono senza alcun preavviso la colonia del Capo e del Natal.
In una sola settimana, dal 10 al 15 dicembre 1899, inflissero tre pesanti sconfitte alle guarnigioni britanniche a Mafeking (difesa da Robert Baden-Powell) e Kimberley.
Tuttavia, quella che era la forza dei Boeri si ritorse ben presto contro di loro: popolo legato alla terra e al lavoro non aveva un suo esercito, ma ogni singolo uomo prendeva le armi per difendere il raccolto o il bestiame.
Non potevano però permettersi lunghe campagne, le fattorie non potevano essere lasciate sguarnite, il bestiame andava accudito, i prodotti raccolti. Ci fu addirittura chi, come il generale Piet Cronje, l’eroe di Kimberley, si mise in marcia con tutto il suo laager, ovvero con il seguito di donne, bambini e viveri caricati su un centinaio di carri trainati da buoi e accompagnati dal bestiame.
Quando gli inglesi mandarono rinforzi (40 mila uomini con 200 pezzi di artiglieria) per liberare la città di Kimberley, Cronje fu costretto a ritirarsi ma il laager lo rallentò e gli inglesi (in realtà truppe canadesi e scozzesi) chiusero lui, i suoi carri e i suoi 4.000 uomini armati in una sacca; la resistenza afrikaner fu accanita, le perdite inglesi ingenti, ma alla fine gli africani bianchi furono costretti ad arrendersi.
Iniziò da quel momento una nuova fase della Seconda guerra boera: le unità afrikaners si diedero alla guerriglia per altri due anni. Tornati a sfruttare il vantaggio offerto dalla migliore conoscenza del terreno e dalle loro particolari doti di “cacciatori”, gli africani bianchi presero a colpire la linea ferroviaria, gli accampamenti militari e gli agglomerati abitati da uitlanders inglesi.
La risposta britannica fu atroce. Anticipando di 40 anni gli orrendi metodi nazisti, ad ogni azione dei Boeri risposero con feroci rappresaglie, bruciando fattorie e raccolti, uccidendo il bestiame e – quel che è peggio – deportando donne e bambini in quelli che divennero i primi “campi di concentramento” della Storia.
Nella foto sotto, uomini e donne boeri in un campo di prigionia.
Saint-Loup, nel suo libro “Boeri all’attacco” scrive: «Alla fine del 1901 ci furono più di 25 campi di concentramento sul territorio del Transvaal e dello Stato libero di Orange. Erano vaste distese prive di alberi (e, di conseguenza, di ombra) sulle quali si allinearono le tende troncoconiche dell’esercito. Le donne e i bambini vi furono “concentrati” in sovrannumero, in una promiscuità terribile [...] Nei campi morirono 18 mila bambini secondo le cifre fornite dagli inglesi, 26 mila secondo quelle fornite dai Boeri».
Gli ultimi Boeri si arresero solo nel maggio del 1902, e la guerra finì con il trattato di Vereeniging che pose fine all’esistenza del Transvaal e dello Stato Libero dell’Orange come repubbliche boere, rendendole parte dell’impero britannico cui seguì, nel 1910, la creazione dell’Unione del Sud Africa con la dispersione delle comunità afrikaners cui fu imposto l’obbligo dell’uso della lingua inglese, tentando così di sfumare le differenze con i coloni britannici.
Quando, nel dicembre del 1905, diventò primo ministro inglese il liberale Campbell-Bannerman (nella foto in alto a sinistra), egli riconobbe che: «Non si tratta di Boeri contro Inglesi, ma di un popolo contro l’usurpazione del potere del denaro». Peccato che ormai quel popolo era stato decimato, umiliato e disperso.
Nella foto sotto, i membri di una Delegazione Diplomatica delle Repubbliche Boere nel 1900.
4. Schierati con gli Inglesi ma con simpatie naziste
Negli anni a seguire l’attrito politico, culturale e sociale tra quelli che si consideravano a tutti gli effetti africani bianchi e i colonialisti inglesi non cessò.
La prova si ebbe allo scoppio della Prima guerra mondiale, quando il governo sudafricano, schierato ovviamente con gli inglesi, impegnò le sue truppe contro i possedimenti tedeschi dell’Africa del Sud-Ovest (attuale Namibia) difesa da 1.800 tedeschi con 8.000 ascari (truppe indigene).
L’Inghilterra fu costretta a inviare rinforzi dall’India perché l’arruolamento locale si dimostrò insufficiente e i Boeri, apertamente, non vollero prendere le armi contro i tedeschi, comandati dal generale tedesco Paul von Lettow, che si difese validamente con una tattica “corsara”, molto simile a quella dei Boeri stessi (non fu mai sopraffatto dagli inglesi e si arrese solo dopo la capitolazione di Berlino: del suo “esercito” erano rimasti 155 soldati tedeschi e 1.968 ascari).
Dopo questa ben misera figura, l’Unione sudfricana attraversò un periodo di forte crisi interna, con attriti sempre più violenti fra i nazionalisti boeri e la rappresentanza inglese. Nel 1931, con l’approvazione dello statuto di Westminster, il Sudafrica ottenne una parziale autonomia e nel Paese crebbe sempre più il peso del National Party, il partito boero.
Quando iniziò il secondo conflitto mondiale, molti gruppi politici afrikaner si opposero in modo netto all’intervento a fianco degli Alleati, spesso esprimendo in modo esplicito la loro simpatia per il nazionalsocialismo hitleriano.
Alla fine, però, il Governo riuscì a far approvare questo intervento, ma vincolato al solo territorio africano (quindi, in realtà, solo contro le colonie italiane); anche così però l’impegno boero fu alquanto tiepido.
Nella foto sotto, scena della Guerra del Transvall (1902) tratta da un articolo apparso sul quotidiano francese “Revue illustrée”, intitolato “L’épopée des Boers”.
La prima missione dell’esercito sudafricano, in Etiopia, contro i pochi italiani che erano rimasti a difendere la colonia, fu un facile e quasi indolore successo. Poi, i sudafricani furono spediti a piedi in Egitto e aggregati alla 8a Armata.
Nessuno può affermare con sicurezza se le truppe sudafricane (costituite in buona parte da Afrikaners arruolati “per fame”) non abbiano voluto battersi o si siano battute con scarso entusiasmo, fatto sta che il 21 giugno 1941 la piazza di Tobruk – affidata alla 2a Divisione sudafricana – cadde sotto i colpi dell’offensiva italo-tedesca guidata da Rommel e la divisione capitolò al gran completo.
Dopo la fine (per loro ingloriosa) della guerra, nel 1948, il National Party vinse le elezioni (foto sotto), instaurando un antico principio calvinista; quello della separazione razziale, noto come “apartheid”.
L’idea dei nuovi africani bianchi era quella che le diverse etnie del Sudafrica non potessero convivere ma dovessero andare a occupare territori distinti e autonomi: i bantustan. Ne furono costituiti 10, ai quali venne ceduto quasi metà del territorio nazionale.
Nel dopoguerra, però, il vero pericolo per gli africani bianchi non veniva dalle popolazioni di colore, bensì dal nuovo “colonialismo ideologico”, quello del marxismo che, con l’aiuto di Mosca e delle truppe cubane, si era ormai diffuso in molte nazioni confinanti, come l’Angola e il Mozambico.
Gli Afrikaners tornarono così a combattere effettuando un gigantesco raid di mezzi blindati in Angola contro i marxisti cubani, conducendo una guerra segreta contro i terroristi neri di Robert Mugabe in Rhodesia dal 1973 al 1977. Tutte guerre inutili, anche se condotte con strabiliante coraggio e sempre con la convinzione di battersi per difendere il loro Dio e la loro patria africana.
Infine, negli anni Novanta, la crescente pressione internazionale contraria al sistema dell’apartheid costrinse il governo di Frederik de Klerk prima a scarcerare Nelson Mandela, paladino del movimento nero, poi a indire le prime elezioni con suffragio esteso ai neri, il 27 aprile 1994, nelle quali fu eletto presidente lo stesso Mandela.
Da allora è diventato impossibile parlare ancora di “africani bianchi”, ormai emarginati dalla vita politica e sociale (quasi un’apartheid al contrario) di un Paese sempre più povero. Solo tra il 1995 e il 2005, oltre un milione di sudafricani bianchi sono emigrati, perché perseguitati, anche in altre parti dell’Africa (per esempio, nel nord-est del Congo).
Oggi i pochi discendenti dei Boeri rimasti risiedono in minuscole enclave dell’interno, mentre quasi mezzo milione di loro sopravvive miseramente nei cosiddetti “campi abusivi”, riservati a chi non trova più né lavoro né casa.
5. Cecil Rhodes e Winston Churchill
- Cecil Rhodes, il re dei diamanti
Il personaggio più inquietante che si incontra in questa storia è certamente Cecil Rhodes, uomo d’affari e politico senza scrupoli.
Per estendere lo sfruttamento economico dell’Africa, Rhodes fondò, nel 1889, la British South Africa Company (Bsac), una compagnia commerciale dotata anche di una sorta di esercito privato.
Usando in maniera spregiudicata la forza, il denaro e l’inganno, Rhodes riuscì a creare un impero personale basato sullo sfruttamento delle ricchissime miniere d’oro di diamanti.
Grazie a ricatti e corruzione ottenne dal governo britannico una concessione per amministrare i territori a ovest del Mozambico e a nord del Transvaal che divennero poi la Rhodesia (attuale Zimbabwe).
In Zambia, finanziò le guerre contro i Boeri che si conclusero con un massacro degli Afrikaners. In Zimbabwe stipulò un trattato truffaldino con il re Lobengula, sottraendogli il controllo di tutte le risorse minerarie del Paese in cambio di pochi fucili e di un vecchio battello.
Nel 1890 fondò la città di Salisbury (oggi Harare) come base per i suoi mercenari: la “Pioneer Column”. Finanziò anche il tentato colpo di Stato contro Kruger.
Mark Twain, nella sua opera “Following the Equator”, gli dedicò questo caustico commento: «Rhodesia è il nome giusto per quella terra di pirateria e di saccheggio, ed è il nome giusto per gettare del fango su di essa».
- Churchill catturato da un italiano
Tra le curiosità della Seconda guerra boera c’è quella della cattura del giovane Winston Churchill.
Il futuro primo ministro inglese, allora venticinquenne, era aggregato, ufficialmente come giornalista, a un treno blindato che, il 15 novembre 1899, avrebbe dovuto percorrere la tratta Estcourt-Chieveley per operare una ricognizione e sui movimenti dei Boeri.
Il treno fu fatto deragliare da un commando e il giovane Churchill venne catturato. La cosa curiosa, e che pochi sanno, è che al comando dei Boeri c’era un italiano Camillo Ricchiardi, un romantico avventuriero piemontese, amante della libertà, che era partito per il Sudafrica per arruolarsi a fianco dei Boeri aggrediti dagli inglesi.
Oltretutto il futuro statista inglese deve proprio a lui la vita perché, nonostante i documenti lo qualificassero come giornalista, quindi non come soldato, Churchill fu trovato in possesso di una pistola Mauser C96 con pallottole esplosive (dum-dum) espressamente vietate da ogni convenzione internazionale.
Questo solo fatto avrebbe comportato la condanna alla fucilazione, ma l’intervento del comandante Ricchiardi gli salvò la vita.
Tuttavia Churchill, nelle sue ponderose memorie (pagate a suo tempo un dollaro a parola), omette il particolare di essere stato arrestato e salvato da un italiano, forse considerandolo un dettaglio imbarazzante.
C’è da chiedersi come sarebbe andata la Seconda guerra mondiale se Churchill fosse stato fucilato a 25 anni. (Nella foto sotto un venticinquenne Winston Churchill tiene un discorso a Durban dopo la fuga dalla prigionia, nel 1899).