In origine la parola ‘Inca’, che significa ‘re o imperatore’, fu il termine usato a indicare soltanto il capo del popolo straordinario che, grazie al suo coraggio e al suo genio organizzativo, giunse a conquistare la maggior parte del Perú, dell’Ecuador e della Bolivia, nonché di alcune delle regioni settentrionali del Cile e dell’Argentina.
Ma quando nel XVI secolo giunsero i conquistatori spagnoli, questi attribuirono al termine un significato più generale, e se ne servirono per indicare l’intera classe dominante locale, cioè i familiari dell’Inca, i nobili e i sacerdoti che governavano l’impero.
Tutti costoro furono ben presto sterminati, sicché già alla fine del secolo era difficile trovare un solo rappresentante della categoria.
Oggi noi usiamo il termine inca per indicare l’etnia che nel corso di diverse migliaia d’anni edificò sugli altopiani del Perú e della Bolivia una grande civiltà.
È, tutt'oggi, sorprendente come una civiltà che non conosceva l' uso della ruota – al massimo faceva scivolare le pietre sui tronchi d' albero – abbia potuto creare una rete viaria di oltre 10.000 chilometri, i cui tracciati sono in gran parte usati ancora oggi.
Dove la strada doveva superare un’erta, venivano costruite scalinate di pietra; dove la strada doveva costeggiare un piccolo precipizio, venivano scavati nella solida roccia dei tunnel abbastanza larghi da permettere il passaggio di uomini, llama e altre bestie da soma.
Da queste strade passavano i corrieri, organizzati in staffette, che portavano con straordinaria sollecitudine i messaggi dalla capitale dell’Impero alle più remote località.
Ma cerchiamo di conoscere meglio questa straordinaria civiltà, ormai estinta (anche se gli Incas sono ancora tra noi: 7 boliviani su 10, 1 peruviano su 2, il 40% degli ecuadoregni hanno quei volti, parlano quella lingua, camminano lungo quelle strade), soffermandoci in particolare sulla bravura e l'innato talento che possedevano per l'architettura e l'ingegneria civile.
Infine, per chi è interessato all'argomento, consigliamo il libro "La città perduta degli Inca" di Hiram Bingham. Buona lettura.
1. Gli Inca
I costruttori di Machu Picchu erano i discendenti di generazioni d’abili artigiani, ma chi ne diresse l’opera furono gli Inca, che per secoli ebbero come capitale Cuzco.
A rigor di termini, il primo Inca fu un valoroso capo guerriero della tribù indiana Quechua, il quale regnò in Cuzco nel XIII secolo d.C. e fu adorato come semidio e demiurgo figlio del Sole.
Fu forse soltanto un centinaio d’anni prima dell’arrivo di Pizarro e dei conquistatori, che il nono Inca estese l’Impero a nord sino all’Ecuador e a sud sino all’Argentina. È certo che l’Impero incaico aveva raggiunto il proprio apogeo ed era già all’inizio del proprio declino, allorché giunsero gli Spagnoli.
Se questi avessero fatto la loro apparizione al tempo del grande Inca Pachacuti (metà del XV secolo), avrebbero avuto a disposizione appena il tempo di confessarsi prima di morire; per loro fortuna, essi giunsero in un periodo in cui l’impero degli Inca era minato da una lunga guerra civile.
Poiché non esistono testimonianze scritte, e l’interpretazione della storia passata, così come quella dei quipus o corde annodate, si basava essenzialmente sulla memoria – o sull’immaginazione – delle persone che furono interrogate dai primi cronisti spagnoli, non possiamo avere alcuna certezza circa le date e gli eventi.
Sembra probabile che lo sviluppo dell’agricoltura, della metallurgia, della ceramica, della tessitura, della meccanica e di altre arti e scienze, abbia avuto luogo soprattutto durante i secoli che precedettero l’ascesa al trono del primo Inca.
Eppure è divenuto utile l’uso del termine Inca per indicare la civiltà e il popolo che gli spagnoli scoprirono nel Perú, proprio come usiamo il termine “azteco” per indicare la civiltà del Messico e il termine “maya” per indicare la civiltà scoperta nello Yucatán e nel Guatemala.
In realtà, le tribù peruviane furono molte, e rimasero nazioni indipendenti piuttosto a lungo prima d’essere conquistate dagli Inca; questi contribuirono, dal canto loro, notevolmente allo sviluppo artistico della ceramica e della tessitura. Cuzco, l’antica capitale dell’Impero degli Inca, è uno dei luoghi più interessanti del mondo. Al tempo della conquista spagnola del Perú, era la più grande città americana.
Dietro di essa, su un colle, esiste un’antica fortezza, che era stata luogo di rifugio per interi secoli. Il muro settentrionale di tale fortezza è forse la più straordinaria struttura eretta nell’Emisfero Occidentale da mani d’uomo in tempi precolombiani.
Nessun’altra costruzione dell’antichità americana le sta alla pari dal punto di vista tecnico: i blocchi di pietra più piccoli pesano da 10 a 20 tonnellate, mentre quelli più grandi si valutano sulle 200 tonnellate e più.
Esattamente giustapposti, senza bisogno di chiavarde o cemento, del resto ignoto, i giganteschi blocchi poligonali aderiscono l’una all’altro perfettamente, al punto che è impossibile inserire la punta di un coltello nelle loro commessure. Essi furono trasportati da cave lontane più di un miglio, dov’erano stati squadrati e modellati da operai che usavano utensili di pietra.
Venivano spostati facendoli scorrere su un piano inclinato per mezzo di leve; gli Inca non conoscevano il ferro né tanto meno l’acciaio, ma usavano sbarre di bronzo con una estremità ricurva, assai resistenti. Non possedevano né gru né argani né ruote, ma avevano migliaia di pazienti operai.
Il coraggio e la perseveranza dei costruttori stupisce chiunque consideri questo popolo e i suoi capi, l’uno e gli altri degni della massima ammirazione e di una più precisa conoscenza dei loro costumi e della loro storia.
2. L'architettura
Chi studia l’architettura degli Inca, nota subito come le sue caratteristiche fondamentali siano le buone proporzioni, l’andamento simmetrico, e la solidità.
Alcuni templi e palazzi incaici furono costruiti con lastre di granito bianco accuratamente scelte e scalpellate. Le file più basse di un muro sono fatte con blocchi più grandi di quelli usati per le file più alte, ciò che dà subito un’impressione di compattezza. Le file più alte, composte di blocchi di dimensioni gradualmente decrescenti, conferiscono grazia e dignità alla struttura.
Mancavano gli strumenti di precisione, e ogni cosa era quindi frutto d’esperienza, dovuta all’occhio dell’architetto. Il risultato è più aggraziato ed elegante di quello offerto dalle mura, erette dal calcolo matematico, del nostro mondo. Dobbiamo ammettere che gli Inca furono muratori magnifici. Chiunque visiti Machu Picchu, sarà senz’altro d’accordo su quest’affermazione.
Nella città di Cuzco, come in altri ben noti centri incaici, le mura dei templi e dei palazzi non sono perpendicolari ma presentano una leggera inclinazione verso l’interno; più strette alla cima che alla base, sono dette di stile egizio.
Se si visitano i luoghi adiacenti, si incontrano case di un piano e ammezzato terminanti con un frontone, che sembrerebbe essere caratteristico degli edifici costruiti non molto tempo prima della conquista spagnola. Di solito, sulla superficie esterna dei frontoni è dato vedere una fila di inserti di forma rozzamente cilindrica o meglio di pioli di pietra infitti nel muro e aggettati per circa trenta centimetri.
A prima vista, si potrebbe supporre che questo tratto caratteristico dell’architettura incaica avesse funzione puramente ornamentale; questi pioli di pietra sembrerebbero infatti le estremità di travi e putrelle di legno riprodotte in pietra. Ma tale suggestiva teoria delle origini lignee, reminiscenza dell’architettura dorica, non è esatta.
Ai vertici del frontone di alcune capanne di legno degli indiani moderni, pioli di legno similmente disposti sono usati come punti d’appoggio per il tetto di paglia. È probabile che i pioli di pietra inseriti nei frontoni incaici non avessero carattere meramente ornamentale, ma fossero autentici pioli adibiti a uno scopo preciso.
Un giorno, durante l’accurato restauro del vertice del frontone d’una casa di Machu Picchu costruita a perfetta regola d’arte, gli archeologi fecero un’interessante scoperta: si trattava d’una caratteristica architettonica che fino allora era completamente sfuggita sia agli archeologi che agli storici dell’architettura. Nel margine inclinato della muratura del frontone, c’era una sottile lastra di pietra grezza con un foro a occhio ben lisciato, incastrata a circa 5 centimetri dal limite esterno.
Gli “occhielli”, come li battezzammo, erano piantati nel muro del frontone ad angolo retto rispetto ai lati inclinati in modo da trovarsi al livello della superficie; tutt’attorno avevano un piccolo spazio privo di pietre, che permetteva all’Inca, il quale desiderava legare i travicelli del tetto al bordo inclinato del frontone, di raggiungere il foro. Una più attenta osservazione mostrò che di solito, in ogni frontone, di questi “occhielli” ce n’erano da 8 a 10.
Le piccole lastre di pietra forate avevano una lunghezza di circa 60 cm, una larghezza di 15 e uno spessore di 5. Il foro lisciato doveva essere stato scavato mediante pezzi di bambù fatti ruotare rapidamente tra le palme delle mani, con l’aiuto di sabbia e acqua. Naturalmente, un tale metodo richiedeva tempo e pazienza, ma il risultato era non meno soddisfacente di quello raggiunto con mazzuolo e scalpello, e anzi impediva alla pietra di incrinarsi.
3. Le abitazioni Incas
Gli Inca non adoperavano tegole di terracotta o di legno per i loro tetti, ma solo erba o stoppie.
Il tetto così fatto veniva unito ai travetti e, perché potesse resistere al vento, assicurato per mezzo di legamenti ai pioli che sporgevano dal tetto; i travetti venivano a loro volta fissati ai frontoni grazie agli occhielli.
Questo metodo di sostenere i tetti di sterpi su un frontone inclinato, fu inventato e perfezionato dagli Inca, e mai usato in nessun’altra parte del mondo. Probabilmente, l’invenzione derivò dal fatto che l’altipiano in cui fiorì l’architettura incaica è povero d’alberi e spazzato dal vento.
Per inciso, va detto che l’assenza di vegetazione arborea nelle valli temperate degli altipiani peruviani non è dovuta all’altitudine, perché mi è accaduto di incontrare foreste primeve cresciute ad altezze di 4500 metri nelle parti più inaccessibili della Cordillera Vilcabamba; essa è piuttosto dovuta, come in Cina, all’antichità degli stanziamenti umani e alla loro necessità di procurarsi combustibile.
Comunque, se vi fossero state molte foreste e abbondanza di legname, probabilmente gli Inca non avrebbero costruito case di pietra.
Le porte delle case incaiche sono di solito molto alte, in modo che anche il peruviano di maggiore statura vi poteva entrare comodamente. Come nell’antico Egitto, la parte inferiore della porta è più larga della parte superiore.
Nelle case costruite in regioni ricche di foreste, le architravi sono assai sovente di legno, mentre altrove sono composte di due o tre lunghi blocchi di pietra. Sono molte le strutture d’un certo rilievo, nelle quali gli Inca preferivano ricorrere ad architravi monolitiche anche quando il peso di queste raggiungeva e superava le due tonnellate.
Poiché non possedevano né gru né argani, è presumibile che sistemassero le architravi erigendo, di fronte alla porta, una montagnetta di terra e di sassi; quindi, per mezzo di leve di legno duro e di rulli dello stesso materiale, usati secondo il principio del piano inclinato, sollevavano il pesante monolito sino alla cima della porta. Una volta collocata l’architrave nella posizione voluta, la montagnetta di terra e sassi veniva ovviamente rimossa.
Le loro case erano solitamente disposte attorno a un cortile, in modo da formare un complesso architettonico simile a quelli dell’Estremo Oriente; ad esso si accedeva quasi sempre attraverso un solo ingresso. Talora la facciata in cui questo si apriva aveva una rientranza, e il vano della porta si trovava così in fondo a una grande nicchia. Gli ingressi degli edifici venivano chiusi ponendo una sbarra attraverso l’interno della porta.
Durante la costruzione, si inserivano negli stipiti cilindri o pioli di pietra. Talvolta essi erano infilati in un foro scavato in uno dei blocchi più grandi dello stipite. Si ottenevano così sostegni capaci di resistere almeno quanto la spranga che in essi veniva incastrata.
È probabile però che questi cilindri o pioli di pietra non costituissero in realtà nient’altro che un tabù, un bastone destinato a impedire, al superstizioso, l’accesso a un edificio che non gli apparteneva.
Troviamo infatti un riferimento a tale pratica nel documento di un conquistador spagnolo: allorché un indiano s’assentava, afferma questi, le porte venivano lasciate aperte; unico ostacolo, «un bastoncino», posto di traverso la porta, il quale indicava che il padrone era fuori e nessuno poteva entrare in casa. In un memoriale inviato al suo re, Filippo II, lo stesso conquistador aggiungeva: «Quando si accorsero che alle nostre porte mettevamo lucchetti e chiavi, essi compresero che era per paura dei ladri, e una volta resisi conto che tra noi v’erano ladri, presero a disprezzarci».
4. L'arredamento
L’abitudine di porre attraverso la porta solo un bastone, era giustificata in parte dal fatto che fra i Peruviani le proprietà private individuali erano limitate a pochi oggetti personali, come piatti, spilloni, utensili da cucina e qualche indumento.
Sotto un bonario despotismo come quello degli Inca, dove nessuno era costretto a soffrire la fame e il freddo, dove ognuno era libero di fare, per ciò che lo riguardava, quel che voleva e quando voleva, e dove però qualsiasi decisione di un certo rilievo era riservata a chi comandava, non esisteva il desiderio di impossessarsi delle proprietà altrui, né v’era motivo di accumulare oggetti che non fossero d’uso strettamente quotidiano.
L’impiego di spranghe, occhielli e supporti per il tetto da parte degli Inca, è un segno evidente del loro genio inventivo, e la testimonianza che gli altipiani furono da essi occupati a lungo. Sono espedienti che non trovano riscontro né in Asia né in Europa: non derivarono da altri esempi, né furono importati. Erano tipicamente locali.
Per quanto ne sappiamo noi, nelle case degli Inca non esistevano mobili. Essi non usavano né sedie né tavoli, ma si sedevano per terra o su una pila di coperte fatte di lana di alpaca o di llama. I mobili erano sostituiti da una serie di nicchie praticate simmetricamente nei muri (nella foto).
Normalmente, queste nicchie erano alte 90 cm, profonde 25 e larghe 60, più strette in alto che in basso, e situate in modo da essere più vicine al pavimento che al soffitto. Non è improbabile che, almeno originariamente, fossero state ideate per servire a scopi cerimoniali, ma comunque con l’andar del tempo se ne comprese l’utilità pratica.
Di tali nicchie rozzamente costruite, se ne possono vedere ancora oggi nei tuguri degli indiani di montagna, dove servono appunto da scaffali, credenze e ripostigli. Fra nicchia e nicchia, allo stesso livello degli architravi, erano abitualmente infissi dei pioli di pietra che servivano ai più vari scopi.
È molto probabile, ad esempio, che ad essi venissero appese le caratteristiche giare da acqua o da chicha col fondo a punta. Queste giare hanno i manici disposti in modo da essere perfettamente allineati all’asse del centro di gravità; facile quindi sospenderle, così com’era facile versarne il contenuto inclinandole senza bisogno di staccarle dal sostegno.
I pioli servivano, ancora, a fissare una delle estremità dei telai a mano; il tessitore o la tessitrice sedevano per terra, con l’altra estremità annodata alla cintola. Talvolta, a conveniente altezza, veniva fissato al muro un anello di pietra. Si sa che i Peruviani furono ottimi tessitori di stoffe e coperte di lana e cotone.
Gli architetti incaici furono espertissimi nelle opere di drenaggio e si protessero efficacemente dai pericoli e inconvenienti delle inondazioni e acque stagnanti. Sotto i magazzini e sotto le mura dei cortili, ovunque potessero verificarsi infiltrazioni d’acqua, essi praticavano piccoli canali o condotti di scolo.
5. L'ingegneria civile
Gli Inca erano ottimi costruttori di strade, ponti, acquedotti e canali di irrigazione.
Al tempo della conquista spagnola, le loro strade pavimentate correvano per migliaia di miglia attraverso le Ande centrali, da Quito, capitale dell’Ecuador, sino all’Argentina e al Cile, e dalla costa del Pacifico, attraverso le montagne, sino alle calde vallate delle Ande orientali.
Non possedevano veicoli a ruota, e non era quindi necessario che la superficie delle strade fosse levigata. Dove la strada doveva superare un’erta, venivano costruite scalinate di pietra; dove la strada doveva costeggiare un piccolo precipizio, venivano scavati nella solida roccia dei tunnel abbastanza larghi da permettere il passaggio di uomini, llama e altre bestie da soma.
Da queste strade passavano i corrieri, organizzati in staffette, che portavano con straordinaria sollecitudine i messaggi dalla capitale dell’Impero alle più remote località. Si dice che il pesce fresco pescato nell’Oceano Pacifico, venisse trasportato attraverso le montagne da speciali messaggeri dell’imperatore Inca, e che raggiungesse la sua mensa in eccellenti condizioni di freschezza.
A convenienti intervalli, erano stati istituiti luoghi di posta, dove i corrieri trovavano il cambio e avevano la possibilità di riposare e rifocillarsi. Ai corrieri era permesso masticare foglie di coca, per alleviare la fatica. Gli Inca non acquisirono mai l’arte dello scrivere, ma svilupparono un elaborato sistema di corde annodate, chiamate quipus. Erano fatte di lana di alpaca o di llama e tinte in vari colori, il significato dei quali era noto ai magistrati cui erano diretti i messaggi.
Le corde erano annodate a gruppi suddivisi secondo il sistema decimale, e assicurati a brevi intervalli l’uno dall’altro lungo l’elemento principale del quipu. Così, un messaggio importante, relativo, per esempio, all’andamento dei raccolti, all’ammontare delle tasse, o all’avanzata di un nemico, poteva giungere rapidamente a destinazione, grazie ai corrieri lanciati lungo le strade di posta.
Le strade scavalcavano i fiumi grazie a ponti sospesi, fatti di innumerevoli corde di liana intrecciate insieme. Usando cavi lunghissimi e di eccezionale robustezza, gli ingegneri incaici furono capaci di gettare ponti lunghi un centinaio di metri e più che, avallati com’erano al centro, oscillavano paurosamente al vento, e non potevano certo dirsi agevoli.
Inoltre, potevano essere distrutti con estrema facilità, ma chiunque si rendesse colpevole di un simile atto era senz’altro condannato a morte. Se non fosse stato così severamente proibito manometterli, e se quindi gli Inca avessero pensato di distruggerli appena Pizarro e i suoi iniziarono la loro marcia di penetrazione nella regione delle Ande centrali, la conquista del Perù sarebbe stata estremamente difficile, se non del tutto impossibile.
Non meno straordinaria dell’eccellente rete di comunicazioni stradali, era quella d’irrigazione; i canali correvano per decine di miglia, nelle Ande centrali. Le montagne, che si levano spesso fino ai 6000 metri, fan sì che i venti portatori d’umidità, che procedono da Oriente attraverso l’umido bacino del Rio delle Amazzoni, scarichino il loro fardello di piogge sulle pendici orientali della grande catena andina. Le precipitazioni sulle pendici occidentali sono sempre scarse, tant’è che uno dei maggiori deserti del mondo è la fascia costiera di duemila miglia che si estende dal Cile centrale all’Ecuador.
La terra delle vallate che si aprono in questa regione, è ricca di humus e vi crescono lussureggianti piantagioni di canna da zucchero, cotone e granturco, a patto che sia regolarmente irrigata. A questo scopo i fiumi alimentati dalle nevi che si sciolgono nelle alte Ande vennero deviati dagli Inca nei canali di irrigazione che seguono il profilo delle valli per molte miglia.
Gli ingegneri incaci dovevano avere buoni occhi a intuire le pendenze, dal momento che non possedevano nessuno di quegli strumenti di cui si servono i nostri ingegneri per attuare simili progetti. Chi oggi saprebbe tracciare, senza strumenti, un contorno perfetto per venti miglia e più?
E non solo gli Inca provvidero i loro campi dell’acqua necessaria, ma fecero anche in modo che i loro paesi e le loro città ne avessero adeguate provviste, grazie ai bellissimi acquedotti da essi costruiti.