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Gli “Indiana Jones” italiani in Africa

Non tutte le avventurose esplorazioni nel cuore dell’Africa ebbero buona sorte.

Ci furono carovane assalite e depredate, molti uomini coraggiosi caddero prigionieri o uccisi; altri invece si coprirono di gloria e al ritorno in patria furono accolti come eroi.

Il mito dell’esploratore nacque proprio negli anni della corsa all’Africa, nota con l’inglese “Scramble for Africa”.

Di quel mito furono in molti, nella Penisola, a subire il fascino, ma assai pochi poterono assecondare il sogno di intraprendere viaggi pieni di pericoli e difficoltà, che richiedevano mesi di attenta pianificazione e ingenti risorse materiali.

Furono molti gli italiani che si avventurarono nel Continente Nero e per primi ne scoprirono popoli e costumi, paesaggi e risorse.

Alcune spedizioni ebbero carattere scientifico, altre solo commerciale, ma tutte anticiparono l’arrivo della civiltà. Ecco chi furono gli avventurosi esploratori italiani.

 

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1. L’instancabile Orazio Antinori (1811 - 1882)

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Un temperamento irrequieto e un’irrefrenabile bramosia di conoscere, esplorare, scoprire furono i tratti distintivi di Orazio Antinori (1811-1882).

Agli studi classici ai quali era stato avviato dal padre, preferiva cacciare e imbalsamare uccelli, attività che lo appassionarono per tutta la vita.

Alla fine degli anni Trenta dell’Ottocento, Antinori lasciò Perugia, dov’era nato, per fuggire a Roma in seguito a uno scandalo: il giovane marchese aveva messo incinta una cameriera.

Nella capitale del Regno Pontificio coltivò la passione per l’ornitologia e venne assunto da Carlo Luciano Bonaparte per curare la sua collezione di animali. Fervente mazziniano, nel ’48 partecipò alla campagna in Veneto, rimanendo gravemente ferito alla mano destra.

Eletto deputato alla Costituente di Roma, combatté nell’assedio della città; dopo la caduta della Repubblica, lasciò l’Italia per la Grecia e l’Asia Minore. Ma ad attrarre Antinori più di ogni cosa erano i viaggi.

Grazie all’eredità paterna poté recarsi in Egitto, da dove intraprese una serie di escursioni verso il Sudan. Lo accompagnò, fra gli altri, Carlo Piaggia, che come lui avversava la tratta degli schiavi.

Si deve a Orazio Antinori l’esatta ricognizione del bacino del Bahr-el-Ghazal, dopo aver risalito il Nilo Bianco. Studiò quei territori fino ad allora inesplorati sotto ogni prospettiva, dalla fauna alla flora, dalla geografia all’antropologia.

Alternò studi e viaggi per tutta la vita. Nulla poteva fermarlo: né la perdita di alcuni compagni, né le malattie o la scarsità del cibo, tanto meno l’avanzare dell’età. Scampò perfino all’aggressione di un leone.

Fu tra i fondatori della Società geografica italiana e ne rivolse l’attenzione al Continente nero. 

Scelto a rappresentare l’Italia all’inaugurazione del Canale di Suez, assistette poi alla presa di possesso della baia di Assab da parte di Sapeto per conto della compagnia Rubattino.

Dopo aver soggiornato per due anni in Etiopia insieme all’amico Piaggia, viaggiò in Tunisia per sconfessare i progetti francesi di collegare il mare con i bacini interni.

All’età di 65 anni, Antinori, che aveva perso l’uso della mano destra a causa di un incidente di caccia, organizzò l’ennesima grande spedizione in Abissinia, nonostante l’avversione del governatore egiziano.

La carovana fu depredata dell’equipaggiamento durante il percorso, e l’impresa fu funestata da altre disavventure, che lo costrinsero a fermarsi a Lèt-Marefià, nello Scioa.

Trasformò quello che doveva essere il suo luogo di riposo, donatogli da Menelik, in una stazione scientifica e ospitaliera, dove preferì rimanere anche dopo il rientro in patria del resto della comitiva.

Ancora mosso dal desiderio, come diceva, di scoprire «un paese del tutto nuovo non mai visitato dagli europei», seguì Menelik nella spedizione al lago Zuai, dalla quale rientrò a Lèt-Marefià gravemente ammalato.

Morì a 71 anni, rimpianto dagli indigeni, che ne avevano riconosciuto e ammirato, oltre allo spirito avventuroso, anche la profonda bontà d’animo.

 

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2. Pietro Savorgnan di Brazzà (1852-1905), l’uomo di Brazzaville

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Più giovane di quasi due generazioni, ma contemporaneo di Antinori nelle esplorazioni, Pietro Savorgnan di Brazzà (1852-1905) ottenne addirittura l’onore di vedersi dedicata la capitale di uno Stato africano (Brazzaville, in Congo).

Anch’egli di famiglia nobile, nato a Castel Gandolfo (ma di origine friulana), si trasferì quindicenne in Francia e ne ottenne la cittadinanza.

Entrato nella Marina francese come ufficiale, intraprese con finanziamenti della Société Française de Géographie e per conto del governo francese una serie di spedizioni nell’Africa equatoriale.

Incontrò Henry Morton Stanley, che stava compiendo la traversata del continente e operava nella stessa regione per incarico di Leopoldo II del Belgio.

Savorgnan esplorò il fiume Congo e riuscì a fare accettare dal re Makoko dei Bateke la protezione della Francia, in chiave anti-belga. Assicurò così a Parigi il possesso di un vasto territorio nelle attuali Repubblica del Congo e Gabon: l’Africa Equatoriale Francese.

Mentre cercava di raggiungere l’oceano da Franceville, Savorgnan di Brazzà scoprì per caso quello che era l’obiettivo principale delle sue ricerche, ovvero le sorgenti dell’Ogooué.

Tornato in Francia, divulgò le sue scoperte sui giornali e in incontri pubblici e fu nominato commissario generale del Congo francese. Da Stanley, come dagli altri esploratori europei, lo dividevano il rifiuto della violenza e dello sfruttamento coloniale.

Per questo fu oggetto di invidie e critiche. Nonostante i suoi successi esplorativi e diplomatici, divenne scomodo per il governo francese, che lo destituì e insabbiò un suo dossier esplosivo sugli abusi e gli errori della politica coloniale.

Solo in seguito agli scandali sollevati dalla stampa, Parigi richiamò quello che era per tutti un eroe nazionale, e che nel frattempo si era ritirato ad Algeri dove aveva messo su famiglia.

Riabilitato, gli fu affidata un’inchiesta ufficiale che svolse in Africa, da cui però non fece più ritorno: morì a Dakar, a 53 anni, forse a causa di una malattia tropicale. La sua relazione non venne mai resa pubblica: l’Assemblea nazionale francese ne votò infatti la soppressione.

Fra le sue concessioni alla Francia, ottenute grazie all’attività di Pietro di Brazzà, re Makoko aveva permesso un insediamento a Nkuna, sul fiume Congo, che venne poi chiamato Brazzaville.

Nella città furono dedicate all’esploratore la via principale, l’università e un liceo. Pochi anni fa vi sono state traslate, in un mausoleo, le sue spoglie.

 

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3. Vittorio Bòttego (1860-1897, lo scopritore del Corno d’Africa

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Il più famoso tra gli avventurieri italiani di quel periodo fu certamente Vittorio Bòttego (1860-1897).

Rampollo di una ricca famiglia parmigiana di proprietari terrieri, nella sua breve vita fu il primo europeo a esplorare il Corno d’Africa, aprendone i territori alla colonizzazione italiana.

Iscrittosi all’Accademia Militare, ne uscì ufficiale di Artiglieria. Sbarcato in Eritrea, dove aveva chiesto il trasferimento, poco dopo i fatti di Dogali, venne assegnato al capitano Micheli, scampato alla strage.

Addetto per oltre un anno a una batteria indigena, ebbe modo di conoscere e studiare gli africani del luogo: un’esperienza che si sarebbe rivelata molto utile nei suoi viaggi.

Bòttego percorse da Massaua ad Assab le coste della Dancalia, una regione dal clima torrido, inesplorata e ostile, dalla quale diverse spedizioni non avevano fatto ritorno.

Le sue osservazioni sulla geografia, la fauna e il clima vennero pubblicate sul Bollettino della Reale Società Geografica Italiana mentre i suoi rilievi permisero di disegnare la prima carta di quel litorale.

Il passo successivo fu una spedizione nell’interno dell’altopiano etiopico, per tracciare il percorso completo del fiume Giuba, dalle sorgenti abissine fino alla foce nell’Oceano Indiano, e dei suoi affluenti: un obiettivo mancato da numerose spedizioni europee e di grande portata geografica e politica.

Per riuscirvi, Bòttego tentò una nuova via partendo da Berbera, per proseguire sull’Uebi attraverso l’Ogaden. La maggior parte della scorta fu arruolata a Massaua fra detenuti per reati comuni, in cambio del condono della pena. La carovana si spinse fino alle sorgenti del Daua.

Arrivata a Imi, unico abitato fisso di popoli nomadi, dopo una sosta forzata per la quarantena a Berbera, Bòttego dovette fare i conti con febbri, caldo soffocante e la prostrazione fisica, oltre che con la defezione del capitano Matteo Grixoni, che tornò verso la costa con 33 uomini.

L’esploratore proseguì invece per l’interno: giunse fino alle fonti del Banana e raggiunse Lugh, dove liberò due europei prigionieri del sultano locale. Scoprì le cateratte sul Giuba e l’8 settembre 1893, dopo 11 mesi e 22 giorni, raggiunse il porto di Brava.

Durante il viaggio, costato 35 morti, aveva perso fra diserzioni, malattie, agguati di indigeni e animali, il 90 per cento di quanti erano partiti con lui. Dato per disperso in Italia, al ritorno Vittorio Bòttego fu ricevuto a corte.

La fama raggiunta non lo fece desistere dal tentare una nuova, ardita impresa: raggiungere Lugh da Brava e procedere a una ricognizione delle regioni sud-occidentali della zona di influenza italiana.

La spedizione esplorò il Sagan e i suoi affluenti, valicò la catena del Monte Delo (3.600 m) e stipulò trattati con i popoli che vivevano in quei territori.

In particolare, quello con il Sultano di Lugh pose sotto la protezione italiana i suoi domini lungo il Banana, favorì il passaggio delle carovane e permise al Bòttego di fondare una base italiana.  La spedizione giunse poi ai laghi Abbaia e Margherita e seguì il corso dell’Omo fino al Lago Rodolfo.

Un distaccamento al comando di Bòttego si recò al lago Stefania e risalì il Sagan, arrivando fino allo spartiacque dei bacini imbriferi del Nilo e della regione dei laghi; da qui raggiunse il Giuba, il ramo più settentrionale del Sobat, il grande affluente del Nilo.

Pochi giorni dopo, ignara di quanto successo ad Adua, la spedizione, composta da 86 uomini, fu attaccata da un migliaio di combattenti. Bòttego morì sul campo, colpito da due proiettili al petto e alla testa.

La Società Geografica, forte dei notevoli risultati scientifici ottenuti fino a quel momento, pose fine alle grandi esplorazioni, dai costi esorbitanti tanto a livello economico quanto soprattutto in vite umane.

 

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4. Le straordinarie scoperte dell’egittologo Giovanni Battista Belzoni

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Gli esploratori italiani che si avventurarono in Africa agli albori della stagione coloniale del regno ebbero un prestigioso predecessore in Giovanni Battista Belzoni.

Si devono a lui alcune delle più importanti e clamorose scoperte archeologiche di sempre. La sua vita è degna di un romanzo.

Figlio di un modesto barbiere, il padovano Belzoni (1778- 1823) si trasferì appena sedicenne a roma, dove subì il fascino delle rovine e si dedicò a studiare l’archeologia.

Vendette immagini sacre a Parigi, fece il saltimbanco in Inghilterra, viaggiò in Spagna, Portogallo, Sicilia e Malta, dove allestì spettacoli di idraulica applicata, con giochi d’acqua e di fuoco.

Venuto a sapere che il viceré d’Egitto cercava soluzioni ai problemi di irrigazione del suo Paese, vi si trasferì per cinque anni, dal 1815 al 1819.

Incaricato dal console generale britannico, appassionato di archeologia egizia, di trasportare al British Museum di Londra una statua colossale di Ramses II, riuscì nell’impresa grazie alle proprie conoscenze di ingegneria idraulica.

Belzoni fu poi tra i primi a dedicarsi a viaggi e scavi nella terra dei faraoni.

Eccezionali le sue scoperte: dal tempio di Ramses II ad Abu Simbel all’obelisco di File, rivelatosi fondamentale per decifrare la scrittura geroglifica; dalle statue del tempio di Mut a Karnak alla necropoli della Valle dei Re, dove portò alla luce le tombe di Ramses I e di Sethi I.

Non basta: Belzoni entrò nella piramide di Chefren ed esplorò la città di Berenice sul Mar Rosso e l’oasi del Fayyum. Tornato in inghilterra, fu coperto di onori per averne riempito i musei di importanti reperti e opere d’arte.

Ripartito per l’Africa su mandato dell’Associazione africana, che aveva sede a Londra, intraprese l’esplorazione del Sudan, diretto alle sorgenti del Nilo. Morì nel Benin a seguito di una malattia.

 

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5. Altri esploratori tra gloria e drammi

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La storia degli esploratori italiani in Africa è ricca di vicende drammatiche e di importanti scoperte.

  • Fra i tanti, il pavese Luigi Robecchi-Bricchetti (1855- 1926), imbevuto di ideali risorgimentali e smania di azione, compì diversi viaggi scientifici in regioni inesplorate quali l’oasi libica di Siwa, l’Harrar in Etiopia e i sultanati somali di Obbia e Migiurtinia, dove raccolse una grande mole di notizie geografiche ed etnologiche.
    Nell’ultimo viaggio, del 1903, verificò per conto della Società Antischiavista la situazione locale in merito alla schiavitù nel Benadir; al ritorno, portò con sé uno schiavo liberato di 14 anni e la madre.
    Donò cimeli, documenti e fotografie ai Musei Civici di Pavia.
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  • Al veneziano Giuseppe Candeo (1859-1899) si deve invece la conoscenza dell’Ogaden e la compilazione della grande carta di quella regione.
    Insieme al capitano Baudi di Vesme, fu il primo esploratore europeo della Somalia ad arrivare fino all’Uebi Scebeli a Imi.
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  • Il chietino Giovanni Chiarini (1849-1879) viaggiò nello Scioa al seguito di Antinori e proseguì assieme ad Antonio Cecchi fino al regno del Limu.
    La regina di Ghera, credendo che i due fossero agenti del re Sahle Mariam (il futuro imperatore d’Etiopia Menelik II), li imprigionò: Chiarini morì per gli stenti e la malaria, Cecchi fu liberato un anno dopo.
    Sulla loro sorte fece leva la stampa nazionalista per spingere l’Italia a un più deciso coinvolgimento nella conquista delle colonie.
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  • Il toscano Carlo Citerni (1873- 1918), infine, era nipote del capitano di fanteria Pio Citerni che aveva sposato la sorella di Vittorio Bòttego.
    Tra questi e il giovane Carlo nacque una profonda amicizia. Durante un viaggio, Citerni fu catturato dagli abissini e liberato dopo 98 giorni di dura prigionia.
    Nonostante la brutta esperienza, Citerni tornò a più riprese in Africa per conto del governo italiano e tra il 1910 e il 1911 guidò una spedizione in Etiopia per delimitare i confini tra l’impero etiopico e la Somalia.
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