Dopo mesi di accese discussioni, il 27 novembre 2017 l’Europa ha tracciato il destino del glifosato, l’erbicida più usato al mondo.
Il rinnovo all’uso per ulteriori cinque anni è di fatto un compromesso fra i paesi che ne chiedevano il bando e quelli che ne sostenevano l’approvazione per l’usuale durata di 15 anni, periodo dopo il quale le molecole vanno riviste alla luce di nuovi studi tossicologici e ambientali.
Questo implica che se una molecola continua ad avere le carte in regola, in teoria può essere rinnovata in eterno.
Su questa autorizzazione di durata più breve la Commissione Europea ha quindi raggiunto la cosiddetta maggioranza qualificata, vale a dire 16 Stati membri favorevoli per un numero di abitanti superiore al 65 per cento del totale della popolazione europea.
Per il «no» sono rimasti Austria, Belgio, Francia, Grecia, Croazia, Italia, Cipro, Lussemburgo e Malta, più un solo astenuto, il Portogallo.
Determinante e comprensibile il «sì» della Germania, essendo il paese rapporteur per glifosato, ovvero il membro dell’Unione Europea delegato dall’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) a valutarne il rinnovo dal punto di vista scientifico.
Questo lavoro è stato effettuato dall’Istituto federale tedesco per la valutazione dei rischi (BFR), trovando parere tecnico positivo.
Ora vi saranno altri cinque anni in cui molti nodi potranno essere sciolti, effettuando nuovi studi come pure andando a fondo di vicende che poco hanno a che fare con la scienza, sembrando più che altro una sorta di spy story.
Trattasi dei vari paper che hanno coinvolto prima Monsanto, allargandosi poi al panel stesso dell’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC), la costola dell’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS) che ha prodotto la monografia numero 112 sul glifosato.
Quella che ha collocato l’erbicida nel gruppo 2A, «probabili cancerogeni per l’uomo», dando la stura a ogni evento successivo, inclusa la class action contro Monsanto negli Stati Uniti.
L’inserimento dell’erbicida più usato al mondo nella categoria delle sostanze probabili cancerogene ha scatenato reazioni pubbliche e un dibattito tra scienziati alimentato da scandali e rivelazioni. Scopriamo che cosa in particolare!
1. Una lunga storia
La molecola del glifosato ha una lunga storia dal punto di vista chimico, considerato che è stata sintetizzata per la prima volta nel 1950 da Henri Martin di Cilag AG, un’azienda farmaceutica svizzera.
In seguito, al termine di una complessa serie di passaggi societari, arrivò a Monsanto, la quale ne appurò le proprietà erbicide e ne iniziò la sintesi nel 1970.
L’erbicida venne in seguito formulato sotto forma di differenti sali e commercializzato con lo storico marchio Roundup, ancora oggi usato impropriamente come sinonimo di glifosato.
Oggi la molecola è autorizzata in quasi 130 paesi tramite centinaia di registrazioni, ma la protezione brevettuale è terminata nel 2001, dando vita a un consistente numero di «generici».
Dal punto di vista molecolare, glifosato ha una struttura analoga alla glicina, un amminoacido. Una volta giunto a bersaglio blocca la produzione di alcuni altri amminoacidi, per esempio il triptofano o la fenilalanina, inibendo un enzima (la 5-enolpiruvilshikimato-3-fosfato sintetasi) presente solo nel regno vegetale e nei batteri.
Da questa proprietà deriva sia l’efficacia del glifosato su ogni tipo di pianta, tranne gli OGM opportunamente modificati per resistergli, sia il suo profilo tossicologico favorevole per i mammiferi.
Il punto di forza che rende il glifosato unico rispetto ad altri erbicidi totali risiede nell’effetto sistemico sulle piante, che gli permette di devitalizzarne anche le radici: può diffondere facilmente lungo i vasi linfatici delle infestanti fino a raggiungerne e bloccarne gli apici di accrescimento.
Economico e risolutivo in molti campi di applicazione, il glifosato permette per esempio di mantenere puliti i filari di frutteti e vigneti, eliminando la competizione delle piante infestanti verso le colture.
Questo erbicida sembra inoltre fondamentale quando è applicato in pre-semina nelle pratiche di agricoltura conservativa, per esempio la semina su sodo: questa tecnica permette di porre a dimora i semi eliminando ogni tipo di lavorazione meccanica tradizionale, come arature ed erpicature.
Le prime rivoltano lo strato superficiale di terreno, mentre le seconde lo affinano per renderlo seminabile. Eliminarle va quindi a vantaggio dell’equilibrio dei suoli e dei contenuti di sostanza organica, ovvero quella componente del terreno che aumenta fertilità, biodiversità, stabilità strutturale e capacità di trattenere acqua.
Grazie alla pratica di semina su sodo, la sostanza organica può aumentare fino al 63 per cento, contribuendo così alla difesa del terreno dall’erosione dovuta a vento e piogge, vero flagello soprattutto in aree collinari.
Non ultimo, si ottiene anche il drastico abbattimento dei consumi complessivi di gasolio. Un aspetto di grande importanza, questo, visto che il carbonio contenuto in un chilogrammo di gasolio è sufficiente a produrne tre di anidride carbonica, gas responsabile del riscaldamento globale.
Infine, oltre agli usi agricoli il glifosato trova impiego nella pulizia delle reti ferroviarie e dei bordi stradali. Nel 2016 è stato invece escluso dalla gestione delle aree urbane, sempre a causa dell’inserimento nel gruppo 2A dello IARC.
Sopra, coltivazioni negli Stati Uniti di differenti varietà di soia, tra le quali una è stata geneticamente modificata in modo da resistere all’erbicida Roundup di Monsanto, il cui principio attivo è il glifosato.
2. Meno di limoni e caffè
Per esprimere la tossicità acuta di una sostanza si ricorre alla dose letale per il 50 per cento delle cavie (indicata con la sigla DL50) in appositi test, espressa in milligrammi per chilogrammo di peso corporeo.
Più alto è questo parametro, meno è tossica la molecola. Sui ratti il glifosato mostra una DL50 di 5600 milligrammi per chilogrammo.
A titolo esemplificativo, significa che un essere umano di 70 chilogrammi avrebbe il 50 per cento di probabilità di morire se ingerisse 392 grammi di glifosato in una volta sola. Questo pone il glifosato fra le molecole meno tossiche con cui si possa entrare in contatto.
Vi sono sostanze naturali più tossiche, per esempio l’acido citrico degli agrumi, con una DL50 di 3000 milligrammi per chilogrammo, e i limoni lo contengono in concentrazioni tra 50 e 70 grammi per chilogrammo.
Peggio ancora per la caffeina, contenuta in una razione media di caffè in ragione di 100 milligrammi e letale a soli 367 milligrammi per chilogrammo.
Ma nessuno teme qualche goccia di limone come condimento, né si preoccupa per una tazzina di caffè, dato che per raggiungere la dose letale per un essere umano di 70 chilogrammi servirebbero dai 3 ai 4 chilogrammi di limoni e 250 tazzine circa di espresso. Esperimenti che si sconsiglia di provare a casa.
Più tossici del glifosato sono poi alcuni medicinali di largo impiego, come ibuprofene e acido acetilsalicilico, la comune aspirina, i quali nella letteratura scientifica mostrano valori di DL50 rispettivamente di 495 e 200 milligrammi per chilogrammo. Ovvero 11 e 28 volte più tossici del glifosato.
Questo però non deve dissuadere dal loro uso, perché l’assunzione è limitata nel tempo e le posologie massime dei due medicinali si posizionano rispettivamente 29 e 12 volte al di sotto delle dosi letali appena riportate.
Anche alcune sostanze usate in agricoltura biologica, come il rame, hanno tossicità acute superiori. Il solfato di rame pentaidrato, per esempio, mostra una DL50 di 300 milligrammi per chilogrammo, ovvero è 19 volte più tossico del glifosato.
Sopra, concentrazione (microgrammi per litro) di glifosato nelle acque superficiali In Italia (per esempio fiumi e canali): valori relativi al novantancinquesimo percentile, ovvero il dato al di sotto del quale si trova il 95 per cento delle concentrazioni misurate. L’andamento appare in calo, con un leggero rialzo nel 2014 dovuto in parte alle forti piogge cadute in primavera ed estate.
3. Una questione di esposizione
Nel marzo 2015 la classificazione del glifosato come probabile cancerogeno da parte della IARC ha scatenato reazioni mediatiche e politiche senza precedenti.
Di parere opposto alla IARC sono state le principali agenzie mondiali, a partire da EFSA, con uno studio di Jose V. Tarazona, BFR e Agenzia europea per le sostanze chimiche, proseguendo con la statunitense Environmental Protection Agency (EPA), i gruppi congiunti di lavoro di OMS e FAO, Australian Pesticides and Veterinary Medicines Authority, Environmental Protection Authority neozelandese, Pest Management Regulatory Agency canadese e Ufficio federale dell’agricoltura elvetico.
Ognuna di queste agenzie ha valutato il glifosato in funzione dei reali livelli di esposizione per l’essere umano, trovando quei valori sicuri per la salute. L’IARC, infatti, non contempla questi aspetti, classificando le molecole solo in base alle potenzialità intrinseche di causare il cancro. Per esempio, nel gruppo 2A rientrano anche acqua al di sopra dei 65 gradi e carne rossa.
In sostanza, la IARC si focalizza sulle molecole, indipendentemente dalle dosi e dai livelli di esposizione reali, mentre le altre agenzie si concentrano proprio sui rischi per l’essere umano, concludendo che il glifosato non può essere considerato un probabile cancerogeno.
In breve: Un recente rapporto dell’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) dell’Organizzazione mondiale della Sanità ha inserito il glifosato, l’erbicida più usato al mondo, nella categoria dei «probabili cancerogeni per l’uomo».
Questa conclusione ha scatenato reazioni pubbliche senza precedenti, tra cui una class action contro Monsanto, produttrice di un erbicida basato su glifosato.
Ma le principali agenzie pubbliche che si occupano di tossicologia sono arrivate a una conclusione opposta. Inoltre, scandali e rivelazioni che hanno riguardato la stesura del rapporto suggerirebbero un nuovo processo di valutazione da parte dell’IARC.
Sopra, confronto fra densità di coltivazione di soia OGM (acri per chilometro quadrato: un acro equivale a 0,4 ettari) trattata più volte con glifosato, e incidenza di linfomi non-Hodgkin (LnH), ovvero numero di casi su 100.000 individui nei sette Stati degli Stati Uniti in cui questi tumori risultano più frequenti. Non emerge alcuna correlazione fra LnH e binomio OGM-glifosato.
4. Quanto siamo esposti
L’esposizione umana al glifosato si verifica fondamentalmente attraverso le acque e i residui in alcuni cibi e bevande, come pasta o birra, essendo ricavata anch’essa dai cereali.
Oltreoceano, i cereali sono trattati in pre-raccolta con l’erbicida per uniformarne il disseccamento ed essendo importati per colmare i deficit produttivi italiani vanno poi a comporre una quota importante di quanto glifosato viene ingerito nel nostro paese.
Circa le acque profonde, dai rapporti dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA), il valore massimo riscontrato fra il 2009 e il 2014 è stato pari a 1,08 microgrammi (ovvero milionesimi di grammo) per litro, mentre nella quasi totalità degli altri campioni considerati o il glifosato era assente, o era presente nell’ordine dei nanogrammi (miliardesimi di grammo).
Per rendere l’idea, 1 microgrammo per litro è circa pari a due gocce fatte cadere in una piscina olimpionica. Questo valore è comunque dieci volte superiore al limite di legge italiano per le acque potabili. Un limite, è bene dirlo, fissato per via normativa, avulso cioè da valutazioni sulla pericolosità.
Infatti è uguale per tutte le molecole indipendentemente dal loro profilo tossicologico. Negli Stati Uniti questo limite è invece individuato molecola per molecola partendo dagli specifici ADI, acronimo di admissible daily intake, o dosi ammissibili giornaliere.
Queste sono a loro volta ricavate dividendo per 100 la dose che in laboratorio è risultata già di per sé innocua sulle cavie, ovvero la No Effect Level (NoEL, in italiano «la dose di nessun effetto»).
Seguendo questo percorso, negli Stati Uniti il limite considerato sicuro per il glifosato nelle acque potabili è stato fissato a 700 microgrammi per litro: 7000 volte quello italiano. L’ADI del glifosato è infatti 0,5 milligrammi al giorno per chilogrammo di peso corporeo.
Un essere umano di 70 chilogrammi può cioè ingerire, restando nei margini di sicurezza, fino a 35 milligrammi al giorno di glifosato, pari a quasi 13 grammi all’anno.
Tramite l’acqua, pur adottando il picco massimo di 1,08 microgrammi per litro già citato, l’esposizione al glifosato può essere stimata nel peggiore dei casi in 790 microgrammi all’anno, assumendo l’ingestione di due litri di acqua al giorno per tutti i 365 giorni del calendario.
Questo valore complessivo è dunque di poco superiore a quello che negli Stati Uniti è considerato sicuro in un solo litro di acqua. Da analisi su pasta e birra sono stati rilevati rispettivamente valori massimi di 0,33 milligrammi per chilogrammo, 30 volte inferiori ai limiti di legge per il glifosato sul grano, e 29,7 microgrammi per litro.
Considerando i consumi medi annui di pasta e di birra, pari a 26 chilogrammi e a 31 litri, anche scegliendo solo i marchi a maggiori concentrazioni di glifosato un italiano assorbirebbe in totale 8,5 milligrammi con la pasta e meno di un milligrammo con la birra.
Addirittura in questi casi limite l’ingestione complessiva annua resterebbe dell’ordine di pochi milligrammi, cioè migliaia di volte al di sotto della soglia di sicurezza tossicologica. Milioni, in tutti gli altri casi.
Un dato confermato da Paul J. Mills, dell’Università della California a San Diego, in uno studio pubblicato nel 2017 sul «Journal of the American Medical Association».
La ricerca ha riguardato le urine ed è stata condotta negli Stati Uniti su 1000 individui adulti, dai quali in 23 anni di monitoraggi si è rilevato un valore massimo di 0,547 microgrammi di glifosato per litro di urina.
Sapendo che l’escrezione di glifosato avviene per circa un terzo via urina e la rimanente quota è espulsa intatta con le feci, significa che perfino l’individuo con escrezioni maggiori ha ingerito glifosato in ragione di un solo milligrammo all’anno.
Infatti il glifosato è espulso tal quale dal corpo in ragione di oltre il 99 per cento della dose ingerita, mentre una minima parte viene trasformata in un suo metabolita, escreto sempre con le urine.
Questo valore annuo può anche essere tradotto in dose giornaliera per chilogrammo di peso corporeo (stabilito in 70 chilogrammi), ovvero 40 nanogrammi per chilogrammo al giorno. Un dato 25 milioni di volte inferiore alla dose che nelle cavie ha fatto rilevare un aumento dell’incidenza tumorale.
Solo alla dose di 1000 milligrammi per chilogrammo al giorno, somministrati per due anni, cioè circa la metà della vita dei roditori, si sarebbe registrata un’incidenza di emangiosarcomi, una neoplasia maligna che ha origine dal tessuto che riveste la superficie interna dei vasi e del cuore, dell’8 per cento nei maschi e del 2 per cento nelle femmine.
5. Scandali e sospetti
A rendere aspro lo scontro sul glifosato sono giunti infine quattro differenti paper, indagini che vanno dall’imbarazzante all’inquietante sia su Monsanto sia su persone coinvolte dalla IARC nella valutazione della molecola.
Quando la Corte federale di San Francisco ha desecretato gli atti relativi alle cause contro Monsanto sarebbero emersi contatti fra l’azienda e Jess Rowland, ex vicedirettore dell’ufficio per gli agrofarmaci dell’EPA, oggi in pensione. Rowland è sospettato di aver influito sulla revisione di studi.
A metterlo nei guai, e con lui Monsanto, è stata una frase: «If I can kill this, I should get a medal» («se ammazzo questo – studio, N.d.A. – merito una medaglia», estratta da una sua e-mail inviata a Dan Jenkins, regulatory affairs manager di Monsanto, e riferita a uno studio contrario al glifosato.
Monsanto sarebbe inoltre stata accusata di essere la vera autrice di studi innocentisti, come quello pubblicato dal patologo del New York Medical College Gary Williams nel 2000 su «Regulatory Toxicology and Pharmacology».
Non si erano però ancora placate le polemiche sui «Monsanto paper» che già si affacciavano sulla scena i «Blair paper». Aaron Blair è un epidemiologo dello US National Cancer Institute, ed è stato chairman del gruppo IARC che ha valutato glifosato.
A monografia pubblicata, Blair ha ammesso in tribunale l’esistenza di uno studio sul glifosato rimasto nei suoi cassetti, e pubblicato solo a fine 2017.
Si tratta di uno studio su oltre 50.000 individui, da cui non emergerebbe alcuna correlazione fra glifosato e diversi tipi di tumore, linfoma non-Hodgkin incluso, quello che per la IARC avrebbe invece collocato il glifosato fra i «probabili cancerogeni».
A seguire, sono giunti i «Portier paper». Christopher Portier è stato presidente della commissione IARC che nel 2014 ha reso prioritaria l’indagine sul glifosato.
Si è scoperto che Portier era attivista dell’Environmental Defense Fund, associazione ecologista anti–pesticidi statunitense, e aveva firmato un contratto di consulenza da 160.000 dollari con Weitz & Luxenberg, lo studio legale che elaborava la class action contro Monsanto. Il tutto nella medesima settimana in cui è stata pubblicata la monografia IARC.
Anche gli Stati Uniti si sono interessati al glifosato, aprendo la via ai cosiddetti «IARC paper» tramite il Committee on Science, Space and Technology del Senato, che ha spedito una lettera a Christopher Wild, direttore della IARC, per chiedere spiegazioni su opacità ravvisate nell’operato dell’agenzia.
In un passaggio si evince che «il gruppo di lavoro [del Committee, N.d.A.] non è stato in grado di valutare questo studio a causa dei limitati dati sperimentali forniti nell’articolo di revisione e dalle informazioni aggiuntive.
Anche gli studi che chiaramente conclusero “il glifosato non è cancerogeno” sono stati citati come “sufficiente” prova di glifosato come cancerogeno negli animali. Nel capitolo di dieci pagine sugli studi sugli animali, ci sono dieci cambiamenti significativi quando si confronta la monografia finale IARC e la versione di progetto.
Questo capitolo di studi sugli animali è l’unica parte della valutazione del glifosato che è stata studiata. Il resto delle 92 pagine del report è coperto da un ordine di riservatezza. Il Comitato si chiede quanti cambiamenti significativi ed eliminazioni appaiano nelle altre pagine».
Una domanda che diventa ogni giorno più imbarazzante, soprattutto a fronte del silenzio della IARC, che si è rifiutata di rispondere. Forse sarebbe bene se la monografia fosse riaperta, aggiornata e rivalutata da persone diverse da quelle coinvolte nel processo precedente.
Un atto chiarificatore di estremo coraggio che si teme però nessuno si assumerà la responsabilità di compiere.