Ya no hay vuelta atrás (“Non si può più tornare indietro”).
Sono le parole che Hernán Cortés rivolge ai suoi fedelissimi, osservando quel che rimane delle sue navi, che ha fatto arenare nei pressi della foce del fiume Huitzilapan poco più a nord dell’attuale Veracruz, in Messico.
Siamo tra il luglio e l’agosto del 1519 e con quella decisione si è tagliato tutti i ponti alle spalle. Perché l’ha fatto? Per scoprirlo, occorre ripartire dall’inizio.
Ripercorriamo l’avventura dei conquistadores verso la mitica capitale azteca, alla scoperta del genio di un condottiero che, tra ribellioni e congiure, mise in ginocchio in poco più di due anni un impero saldo e potente che aveva due secoli.
1. Sulle coste dello Yucatan
Nato nel 1485 a Medellín, nell’Estremadura, da una famiglia nobile ma non ricca, Hernán Cortés approda a Hispaniola (prima colonia spagnola nel Nuovo Mondo) nel 1504, spinto da sogni di gloria e di conquista.
Qui si fa notare per ingegno e doti militari da Diego Velázquez de Cuéllar che, dopo la sua nomina a governatore di Cuba, lo porta con sé. I due non possono essere più diversi.
Maneggione e limitato il primo, ben più ambizioso il secondo. Nel 1519, dopo aver incaricato Cortés di esplorare le coste dello Yucatan, venuto a contrasto con lui, il governatore blocca tutto.
Cortés però si ribella e, prima che quello se ne accorga, prende il mare con 11 navi. A bordo, circa 600 uomini (tra marinai e soldati) e una trentina di cavalli. Salpato il 18 febbraio, intorno al 27 giunge a Cozumel, un’isola di fronte alle coste dello Yucatan.
Accolto con timore dagli abitanti, dopo averli rassicurati sulle sue intenzioni (vuole “solo” condurli alla vera fede e metterli sotto la protezione del re di Spagna, Carlo V d’Asburgo), riparte e porta con sé Géronimo de Aguilar, uno spagnolo fatto prigioniero qualche anno prima, che conosce la lingua maya.
Il 4 marzo sbarca alla foce del Tabasco. Nuovo incontro con gli indigeni, nuova richiesta di fedeltà. Ma questa volta è battaglia.
Nonostante la disparità delle forze in campo, Cortés (che ha con sé cavalli e armi da fuoco, entrambi sconosciuti alle popolazioni di lì), ha la meglio e ottiene doni e sottomissione.
Fra i “doni” c’è Malintzin (sotto), una ragazza bellissima, conosciuta anche come La Malinche e poi battezzata doña Marina, che sarà sua compagna devota e preziosissima, anche perché parla sia il maya sia il nahuatl degli aztechi.
2. Scambiato per Quetzalcóatl
Ripreso il mare, il 21 aprile sbarca su un’altra isoletta (San Juan de Ulúa) e il giorno successivo sul continente.
Dove fonda la città di Villa Rica de la Vera Cruz (la futura Veracruz) e, ancor prima che venga edificata, si fa eleggere alla carica di comandante generale dalla nuova municipalità.
A quel punto non dipende più da Velázquez, ma dal governo centrale spagnolo in patria. Di lì a qualche giorno riceve la visita di un alto funzionario del potentissimo imperatore azteco Montezuma II, che vuole accertarsi sulle sue intenzioni.
Cortés gli consegna una richiesta: vorrebbe incontrare l’imperatore (sotto) nella sua capitale, Tenochtitlán, sul lago Texcoco, che a quanto gli dicono è bellissima.
La risposta di Montezuma è netta: l’imperatore gli invia preziosissimi doni, ma lo invita a tenersi alla larga. Perché? Montezuma teme il compiersi di una profezia legata al dio Quetzalcóatl.
Chiamato anche “il serpente piumato”, il dio in un tempo remoto aveva abbandonato le terre degli aztechi. Tutti però sapevano che sarebbe tornato, accompagnato da uomini bianchi e barbuti. E quando fosse successo, l’impero azteco sarebbe caduto.
Naturalmente, venuto a conoscenza della profezia, Cortés non fa nulla per convincere l’imperatore che lui con quel dio non ha niente a che fare. Ma la sua fortuna non si esaurisce qui. La zona dov’è sbarcato è la terra dei totonachi, un popolo sottomesso da Montezuma.
Quando il loro capo, Xicomecóatl, passato alla storia come il cacique gordo (il “capo grasso”), riceve come al solito l’offerta di Cortés di passare sotto la protezione della Spagna, capisce subito che quella è l’occasione della vita per liberarsi dal giogo azteco.
Così accetta e, forte della nuova alleanza, fa imprigionare alcuni esattori dell’imperatore, che erano arrivati in quegli stessi giorni per riscuotere pesanti tributi.
A quel punto Cortés, con un altro colpo di genio, li fa liberare di nascosto e li rimanda da Montezuma, per dimostrargli che è animato dalle migliori intenzioni.
Qua sotto, lo sbarco di Cortés a Veracruz in un affresco di Diego Rivera. L’artista ha raffigurato il conquistador con il volto e il corpo deformati. Un atto di accusa per aver portato corruzione e distruzione in quelle terre.
3. “Non si torna indietro”
Ottenuta l’alleanza dei totonachi, Hernán Cortés torna a Veracruz. È giunto il momento di far sapere a Carlo V che cosa sta succedendo.
Tramite due ambasciatori, gli invia una missiva in cui fornisce un resoconto dettagliato degli avvenimenti. Il tutto, accompagnato dai doni e dalle ricchezze che nel frattempo è riuscito a raccogliere.
La ribellione però serpeggia tra i suoi uomini, fra i quali molti sono ancora fedeli a Velázquez. Ed è a quel punto che Cortés, dopo aver scoperto un complotto ai suoi danni, e punito i ribelli, prende la clamorosa decisione con cui abbiamo iniziato il nostro racconto.
Da lì in avanti per lui e i suoi non ci sarà altra possibilità che andare avanti. Anche in quell’occasione, però, si comporta con accortezza. Ordina infatti di recuperare da quei navigli vele e manovre, che, chissà, potrebbero sempre servirgli.
Qua sotto, il primo incontro. In questa incisione di Kurz & Allison del 1892 assistiamo al primo incontro di Montezuma con Cortés. E fu una stretta di mano mortale.
Il 16 agosto finalmente parte da Veracruz con il suo contingente, di cui ormai fanno parte anche circa 50 mila totonachi, alla volta di Tenochtitlán. La marcia verso la capitale azteca non è una passeggiata.
Cortés, infatti, deve affrontare l’ostilità dei tlascaltechi che, pur ribellandosi a Montezuma, rifiutano di sottomettersi agli spagnoli. Dopo una serie di scontri, comunque, riesce a sconfiggerli e a farne suoi alleati.
Sempre più preoccupato dalla profezia di Quetzalcóatl e di ulteriori diserzioni fra le popolazioni che mal sopportano il suo giogo, Montezuma invia al condottiero i suoi emissari più importanti con altri doni e un’incredibile offerta: che Cortés stabilisca il tributo che vuole e lui lo pagherà.
Ma deve stare lontano dai suoi possedimenti. Dopodiché lo invita a recarsi nella città di Cholula, i cui abitanti gli sono fedeli. Lì gli comunicherà la sua decisione circa la visita di cortesia a Tenochtitlán. Giunto a Cholula, in effetti, Cortés viene accolto in pace.
Dopo qualche giorno però, è fatto oggetto di un’imboscata, dalla quale si salva all’ultimo momento grazie all’intuito della Malinche. A quel punto ordina un massacro.
Saputo dell’accaduto, Montezuma gli invia altri emissari con dichiarazioni di innocenza, ma Cortés non si fida più e anzi minaccia che d’ora in poi si comporterà come il più acerrimo dei suoi nemici.
Ragioni di cautela diplomatica, mitigheranno questi propositi. Tant’è che l’8 novembre, quando finalmente Cortés entra finalmente a Tenochtitlán, l’incontro con l’imperatore avviene in un clima di rispetto reciproco.
Dopo avergli come sempre offerto doni preziosi, Montezuma conduce Cortés nel suo meraviglioso palazzo.
«Voi – gli dice – potete comandare su tutto questo territorio, all’infuori dei Paesi che dipendono dal mio reame. Sarete obbedito e potrete disporre dei miei beni come dei vostri [...]. Qui sarete provvisto di tutto ciò di cui avrete bisogno. Non temete: questo Paese è vostro, come questo palazzo».
Cortés lo prenderà in parola. La sorte dell’impero azteco, infatti, è segnata. Ma Montezuma, che il conquistador tratta come un suo prigioniero, pur con tutti i riguardi, non ne vedrà la fine.
Qua sotto, le tappe del percorso di Hernán Cortés, da Cozumel fino alla capitale azteca Tenochtitlán. Partito nel 1519 da Cuba, in due anni Cortés avrà ragione del potentissimo impero azteco.
4. La morte di Montezuma
Succede tutto quando Pedro de Alvarado, che Cortés ha lasciato in città come suo luogotenente – il comandante era dovuto ripartire per Veracruz per fronteggiare un contingente di uomini inviato dal suo acerrimo nemico Velázquez – convinto che si stia preparando un’ennesima congiura, ordina ai suoi lo sterminio di mezzo migliaio fra sacerdoti, nobili e fedeli radunati al Teocalli (un luogo sacro deputato ai sacrifici umani).
L’eccidio innesca una vera e propria rivolta. Montezuma cerca di placarla, affacciandosi dal balcone del suo palazzo, dove però i suoi sudditi, che ormai non si fidano più di lui, lo uccidono.
Quando Cortés, che nel frattempo ha convinto gli uomini di Velázquez a unirsi a lui, torna, la situazione è insostenibile.
Non resta altro che ritirarsi. Il 30 giugno 1520, durante la notte, gli spagnoli tentano la fuga. Scoperti e attaccati, perdono oltre 500 soldati, mentre altre centinaia vengono feriti. È la cosiddetta noche triste.
Dopo una settimana, Cortés riesce a raggiungere la valle di Otumba, ma quando crede di essere al sicuro è circondato da altre migliaia di aztechi.
Anche quella volta, sia pure con gravi perdite, riesce a fuggire, finché, giunto nelle terre dei tlascaltechi suoi alleati, può dirsi in salvo.
Qua sotto, il massacro al Teocalli (il tempio mesoamericano, in un’opera di Emanuel Leutze del 1848).
5. La fine dell’impero
Determinato a riprendersi Tenochtitlán, Cortés pian piano riorganizza le sue truppe. In questo, senza volerlo, lo aiuta Diego Velázquez, che periodicamente invia a Veracruz centinaia di soldati per combatterlo.
Ma ogni volta Cortés riesce a convincerli a passare dalla sua parte. A meno di un anno dalla noche triste, il comandante può nuovamente marciare contro la capitale azteca.
E qui c’è l’ennesimo esempio del suo genio. La città va presa dall’acqua. Per questo fa realizzare 30 brigantini che, trasportati pezzo per pezzo da Tlaxcala fino al Texcoco, vengono armati con le vele e le manovre recuperate dalle navi fatte arenare nel 1519.
Quindi comincia l’assedio. Per tre mesi oltre 300 mila aztechi resistono asserragliati in città. Finché, piegati anche dalla mancanza di acqua e di viveri, capitolano.
È il 13 agosto 1521 quando il nipote di Montezuma, Guatimozin, il nuovo giovane imperatore, si presenta davanti a Cortés, chiedendo di essere ucciso. Il conquistador lo rassicura: non ha alcuna intenzione di fargli del male.
Non andrà così. Qualche giorno dopo, infatti, secondo la leggenda, lo farà torturare per strappargli il segreto dei suoi favolosi tesori (per altri, invece, lo farà impiccare durante una sua missione in Honduras, dopo averlo accusato di un complotto per massacrare gli spagnoli).
Resta il fatto che la presa di Tenochtitlán segna la fine dell’impero azteco. Nel giro di un anno, infatti, tutti i suoi ex territori cadono nelle mani di Cortés che nel 1522 viene nominato da Carlo V governatore e capitano supremo della Nuova Spagna (come si chiama la nuova colonia).
I sogni di gloria e di conquista che avevano portato a Hispañola quel 19enne ambizioso, si sono alfine realizzati.
La capitale azteca sorgeva su diverse isolette nel lago di Texcoco. La mappa sotto, risalente al 1524, fu realizzata su disegno degli uomini di Cortés.