Le abbiamo sempre considerate immobili e silenziose.
Così ferme e zitte che spesso finiscono per perdersi nel paesaggio.
Ma letti i risultati delle più recenti scoperte in ambito botanico, è probabile che la prossima volta prima di mordere una carota o di potare gli alberi in giardino avremo qualche esitazione.
Le piante possono sentire, annusare, vedere, ascoltare… persino toccare e ricordare.
Daniel Chamovitz, direttore del Manna Center For Plant Biosciences dell’Università di Tel Aviv e autore del libro “What a plant knows (Oneworld pubblications)”, spiega infatti che «le piante, pur essendo prive di naso, occhi, orecchie, bocca e pelle, hanno un mondo sensoriale che non è poi così diverso dal nostro».
Esse vedono, ascoltano, annusano, mangiano e sentono come noi. Scopriamo insieme i 5 sensi delle piante!
1. Vedono il rosso e il blu
Come noi, anche le piante vedono la luce.
E chiunque ne possieda una sa come questa “si giri” verso la finestra, come le sue foglie e i suoi rami si allunghino a catturare anche il più piccolo raggio di sole che penetra nella stanza.
Ma come fanno senza occhi? Già Charles Darwin aveva osservato l’incredibile capacità delle piante di “curvarsi” verso le fonti luminose.
Oggi sappiamo che questi organismi sono dotati come noi di fotorecettori, strutture sensibili alla luce. Nelle cellule delle foglie e dei rami sono stati individuati “fototropine”, molecole capaci di reagire alla luce blu e agli ultravioletti.
Altre strutture, i fitocromi, permetterebbero alle piante di “vedere” il rosso e i raggi infrarossi, che noi invece non possiamo percepire.
A cosa serve questa speciale sensibilità a certi tipi di luce? Semplice: a regolare il proprio bioritmo in funzione delle variazioni di luce nell’arco della giornata o delle stagioni.
A scegliere il momento migliore per richiudere i fiori o perdere le foglie. O quando è meglio accelerare la crescita dei fusti per togliersi all'ombra di alberi più alti.
Daniel Chamovitz, direttore del Manna Center For Plant Biosciences dell’Università di Tel Aviv e autore del libro "What a plant knows (Oneworld pubblications)", non ha dubbi: il “segugio del mondo vegetale” è la vite parassita Cuscuta pentagona, una pianta che non potendo svolgere la fotosintesi (in quanto priva di clorofilla), per sopravvivere deve assorbire gli zuccheri prodotti da altri vegetali.
I ricercatori dell’Università di Pennsylvania, negli Stati Uniti, hanno studiato a lungo la Cuscuta e alla fine hanno scoperto che le piantine di questa specie sanno “fiutare” le prede riuscendo persino a distinguere le molecole presenti nell’aria.
Tra l’odore del pomodoro e quello del grano non vi era dubbio di quanto il primo fosse più gradito alla vite parassita.
2. Così gridano aiuto
Le piante sono dotate di una sensibilità diffusa e mentre per annusare noi ci serviamo solo del naso, loro possono farlo con tutto il "corpo".
Dalle radici alle foglie, ogni pianta é composta da miliardi di cellule, sulla cui superficie si trovano spesso recettori di sostanze volatoli in grado di far partire la catena di segnali che comunica l'informazione a tutto l'organismo.
Le piante utilizzano l’olfatto anche per difendersi. Incapaci di fuggire, se attaccate dai parassiti possono produrre messaggi odorosi in grado di segnalare il pericolo agli individui vicini.
Forse sono altruiste. Oppure sperano così di far ascoltare il proprio “grido d’aiuto”. Certe specie, infatti, se invase dai bruchi rilasciano odori che richiamano gli uccelli predatori del bruco. Come dire, non posso difendermi, ma conosco qualcuno che lo può fare al posto mio.
Le piante hanno una percezione sensoriale similare ad un olfatto prestorico non paragonabile ai primati o ai rettili del Pleocene o del Giurassico, ma distinguono tra un incendio a migliaia di Km e un innocuo fiammifero che si sta spegnendo a pochi metri.
Distinguono una mano gentile (il famoso pollice verde) da una insensibile e grezza molto probabilmente tramite degli impulsi percettivi posti sulle foglie, che si integrano agli elettroni distribuiti nell’Etere come radiazione cosmica di fondo.
3. Sensibili al tatto e alla musica
«Tutte le piante sono sensibili alla forza meccanica», ricorda Daniel Chamovitz.
«Le piante carnivore lo sono per ovvie ragioni». La loro sensibilità tattile è sorprendente.
Basta che una mosca si posi sulle loro foglie perché queste si chiudano in una frazione di secondo, intrappolando la preda in una morsa mortale.
Ma come fa la pianta carnivora ad avvertire il peso di un minuscolo insetto? Si sa che i recettori tattili della nostra pelle sono in grado di inviare segnali al cervello se sono stimolati.
In modo analogo, alcuni peli presenti sulla foglia delle carnivore funzionano da meccanorecettori e attivano il meccanismo di chiusura della trappola se toccate dalla mosca.
Nonostante la pianta sia priva di un cervello, la sua capacità tattile le permette di reagire prontamente alle mutazioni ambientali, almeno quanto basta per nutrirsi.
I viticoltori lo sanno: se diffondi musica sulle vigne, crescono grappoli più grossi e succosi, soprattutto sulle piante più vicine agli altoparlanti. Anche nelle serre c’è chi coltiva con la musica per ottenere raccolti più ricchi.
A oggi non si è scoperto come le piante riescano a percepire il suono e se questo abbia per loro un senso. Però Daniel Chamovitz ritiene che in natura ci siano alcuni suoni che se uditi sarebbero vantaggiosi per il mondo vegetale.
Tra questi il ronzio di un’ape o il battito d’ali di un afide oppure i suoni lievissimi emessi da altri piccoli organismi che scavano nel terreno.
I risultati ottenuti presso l’Università di Firenze dimostrerebbero la capacità delle piante di percepire le onde sonore. Stefano Mancuso, ricercatore del Laboratorio interazionale di Neurobiologia vegetale, ha verificato come certe frequenze influenzino la crescita delle radici di mais.
Mancuso e collaboratori avrebbero persino accertato che le radici di mais sarebbero esse stesse in grado di produrre vibrazioni acustiche. La percezione di una vibrazione è la forma più arcaica e sofisticata della ricezione uditiva.
4. Fu un agente della Cia a scoprire per primo che le piante “provano” emozioni
Gli esperimenti più eclatanti svolti sulla biocomunicazione delle piante appartengono a Cleve Backster (foto), specialista d’interrogatori della Cia che negli anni 60 condusse una serie di prove ispirato dai risultati sulla elettrostimolazione delle piante, effettuati mezzo secolo prima dal fisico e botanico sir Jadadish Bose.
Backster dopo aver collegato alla foglia di una pianta un poligrafo, una sorta di macchina della verità, aveva registrato una variazione di resistenza elettrica quando la pianta era stata danneggiata e minacciata da un test.
Sorprendentemente le registrazioni del poligrafo si attivavano quando la pianta si trovava dinnanzi al suo carnefice, anche dopo un certo tempo.
Per Backster le piante erano quindi in grado di percepire le emozioni umane e sebbene i suoi studi abbiano suscitato una forte critica nella comunità scientifica dell’epoca essi servirono ad aprire la strada a nuove ricerche.
Risultati altrettanto singolari furono ottenuti nel 1983 da Valerio Sanfo, un appassionato di elettronica che collegò una pianta a un biospeaker, un sintetizzatore in grado di trasformare le variazioni dei campi elettrici del vegetale in suoni.
Il contributo di Sanfo è stato importante perché ha dimostrato ulteriormente l’esistenza di una relazione tra stimoli esterni e attività fisiologica della pianta. Nuova frontiera delle moderne ricerche in ambito botanico.
Testate con apparecchiature ultrasensibili a pulsori elettrici (spettro galvanometro frequenziale), le piante manifestano preferenze e paure rispetto a persone e animali in funzione di una banca dati precedentemente ordinata e codificata analogicamente che emette segnali di pericolo o gradimento.
5. Alberi: abbracciarli è un’antica usanza
In diverse discipline naturali si sta divulgando la pratica di abbracciare gli alberi nella convinzione che l’energia vitale della pianta possa facilitare il recupero del benessere psicosico delle persone.
Ma storicamente l’usanza di abbracciarli si diffuse a seguito della nascita del Chipko movement, un movimento ambientalista di donne - in massima parte contadine, nato in India nei primi anni 70.
Allora gli alberi erano abbracciati come atto di protesta non violenta contro la deforestazione.
Proprio come nel 1731 fece Amrita Devi, una donna di fede Bishnois, religione che considera le piante e gli animali sacri, e che morì assieme ad altri 363 fedeli nel tentativo di salvare gli alberi del villaggio di Khejarli dalle scuri dei soldati del sultano.
Per le donne contadine, preservare l'ambiente è cruciale per la sopravvivenza economica. In quanto raccoglitrici dei principali alimenti, del legname per il fuoco, e dell'acqua, le donne hanno forti interessi nell'invertire i processi di deforestazione, desertificazione, e inquinamento dell'acqua.
"Chipko" in Hindi significa "aggrapparsi", ad indicare la principale tecnica delle protestatarie: abbracciare gli alberi destinati ad essere tagliati, e rifiutare di muoversi.
Più di recente l’attivista Julia “Butterfly” Hill visse 738 giorni su una sequoia gigante a 55 metri di altezza nella foresta di Headwaters, in Colorado.
La sua protesta contro la deforestazione perpetuata dalla Pacif lumber company iniziò nel dicembre del 1997 e si concluse due anni dopo quando le fu garantita la sopravvivenza del suo albero Luna e di una quota di foresta abitata da altri alberi secolari.
Inoltre Julia ottenne la somma di 50mila dollari che fu donata all’Università di Humboldt per avviare una ricerca sulla silvicoltura sostenibile.