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I 6 Nobel per la Medicina di casa nostra

Il Premio Nobel per la Medicina è il riconoscimento più importante per il lavoro di uno scienziato.

Certifica che le intuizioni, avute a volte decenni prima, e il duro lavoro di ricerca per confermarle e renderle patrimonio condiviso dalla comunità medica mondiale, rappresentano davvero un passo avanti per l’umanità che soffre.

Sono corrette, portano nuove conoscenze e il mondo lo riconosce, iscrivendo il nome dello scienziato nell’elenco degli studiosi che hanno detto (o dato) qualcosa di importante al mondo.

I Nobel per la Letteratura o per la Pace quasi sempre sono dati a singoli (nel caso della letteratura) o anche ad associazioni (nel caso del Nobel per la Pace), ma sempre con un nome solo.

Nel caso dei Nobel scientifici, invece, fin quasi da subito è stato premiato un lavoro d’equipe. Molti premi Nobel nel campo della Fisica, della Chimica e della Medicina sono stati assegnati a più di un nominativo.

Questo ha un senso preciso. Si vuole sottolineare che il lavoro di ricerca spesso è un lavoro di collaborazione. E che per arrivare al massimo riconoscimento è necessario il massimo della condivisione.

Il Premio Nobel per la Medicina è assegnato dal 1901, da allora ad oggi ogni anno – tranne due parentesi dal 1915 al 1918 e dal 1940 al 1942 – uno o più ricercatori/clinici sono stati insigniti di questo riconoscimento.

Tra loro sei Italiani. Ecco le loro storie.

 

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1. Camillo Golgi (1906)

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Camillo Golgi (1843-1926) ha un doppio primato.

È stato il primo italiano ad aver vinto il premio Nobel per la Medicina ed è stato anche il primo italiano ad aver vinto un Nobel in assoluto, avendo preceduto di qualche mese Giosuè Carducci, che lo vinse sempre nel 1906 per la letteratura.

Golgi, come si accennava sopra, non vinse il premio da solo, ma in coppia con lo spagnolo Santiago Ramon y Cajal.

La motivazione del Karolinska Institutet di Stoccolma per l’attribuzione del Premio Nobel fu la seguente: “In riconoscimento del loro lavoro sulla struttura del sistema nervoso”.

Per Golgi il prestigioso premio arrivava dopo una carriera accademica e scientifica lunga e ricca di scoperte.

Ad esempio nel campo della malariologia, dove enunciò la “legge di Golgi” che serve a valutare le fasi di sviluppo e riproduzione del Plasmodium malariae, in modo da somministrare al momento giusto il chinino e arrivare alla guarigione dei pazienti.

In seguito, si occupò del sistema nervoso e arrivò a descrivere con precisione l’anatomia e la funzione dei corpuscoli del Golgi, che sono le terminazione nervose dei tendini.

E, siccome era un ricercatore a tutto tondo, fece anche studi sui reni, sulla Corea di Huntington e sui bulbi olfattivi. Il Nobel diede a Golgi il massimo della fama internazionale.

Durante la Prima guerra mondiale, diresse l’ospedale militare del Collegio Borromeo di Pavia e lavorò accanitamente sui problemi post traumatici dei feriti di guerra, studiando il trattamento riabilitativo e creando un centro per la riabilitazione delle lesioni al sistema nervoso periferico.

Gli è stato anche dedicato un asteroide, il 6875 Golgi.

 

Camillo Golgi

2. Daniel Bovet (1957)

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Daniel Bovet (1907-1992) nasce cittadino svizzero e diventa cittadino italiano solo nel 1947, ma la sua giovinezza presenta un dettaglio sorprendente: è di madrelingua esperanto.

I genitori infatti, entrambi professori universitari, volendo crescere il figlio fuori dagli schemi del nazionalismo esasperato di quel periodo, lo allevano insegnandogli la lingua universale, per dargli una mentalità sovranazionale.

A oggi, Bouvet rimane l’unico vincitore di un Nobel della Medicina di madrelingua esperanto.

Nel 1929, Bovet si laurea in Scienze all’università di Zurigo. Nel 1947, su invito di Domenico Marotta, si trasfersce a Roma, fondando il Laboratorio di chimica terapeutica dell’Istituto Superiore di Sanità.

Qui Bovet porta avanti le sue ricerche sugli antistaminici, che nel 1957 gli portano il Nobel con la seguente motivazione: “Per le sue scoperte in relazione a composti sintetici che inibiscono l’azione di alcune sostanze dell’organismo e soprattutto alla loro azione sul sistema vascolare e i muscoli scheletrici”.

I suoi studi e le sue ricerche nel campo della chemioterapia e della farmacologia hanno permesso di migliorare la qualità l’efficacia di molti trattamenti medici, in particolare degli antistaminici, dei simpaticolitici e dei miorilassanti.

Ma fu soprattutto il lavoro di Bovet sui sulfamidici che segnò una presa di coscienza generale sull’importanza della ricerca scientifica e segnò anche un nuovo stato d’animo del mondo medico, più ottimista e concentrato, nei confronti delle difficoltà della ricerca.

È interessante notare che Bovet è stato l’unico italiano (anche se naturalizzato) a vincere il premio Nobel per la Medicina da solo, e non dividendolo con altri.

 

Daniel Bovet

3. Salvatore Luria e Renato Dulbecco

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- Salvatore Luria (1969)
Salvatore Luria (1912-1991) fu uno dei tanti ricercatori e scienziati italiani di origini ebraiche, costretti a lasciare l’Italia a causa delle leggi razziali imposte dal regime fascista nel 1938.
Quando già Luria era avviato a una brillante carriera come medico e biologo, fu di fatto obbligato a rifugiarsi negli Stati Uniti.
Appena arrivato, Luria andò a trovare Enrico Fermi alla Columbia University e questi lo aiutò a entrare al College of Physicians and Surgeons.
Pochi anni dopo incontrò Max Delbrück e passò con lui un’estate di lavoro sulla replicazione dei batteriofagi nei batteri. Da allora, non smise la sua collaborazione con Max Delbrück e con Alfred D. Hershey su temi della biologia molecolare.
La sua carrierà culminò, nel 1959, con una cattedra al MIT di Boston. Nel 1969, Luria, che può essere definito uno dei creatori della biologia molecolare, ricevette il premio Nobel assieme ai suoi amici di sempre, il tedesco Max Delbrück e lo statunitense Alfred D. Hershey, con la seguente motivazione: “Per le loro scoperte sul meccanismo di replicazione e la struttura genetica dei virus”.
Luria è una delle figure centrali nella scienza medica e biologica del XX secolo e i suoi lavori hanno gettato le basi per la nascita della genetica batterica e della virologia come discipline indipendenti.
Cinque anni dopo aver vinto il Nobel, Luria scrisse un testo di biologia molecolare Life: the Unfinished Experiment, che rimane uno dei testi base della disciplina.

Salvatore Luria

 

 

- Renato Dulbecco (1975)
Renato Dulbecco (1914-2012) è stato a lungo una figura di primissimo piano nella medicina e nella genetica.
Nel 1975, L’Accademia del Nobel gli assegnò il premio per la medicina assieme ad altri due ricercatori, gli statunitensi David Baltimore e Howard Martin Temin, motivando l’assegnazione con queste parole: “Per le loro scoperte concernenti le interazioni fra virus tumorali e il materiale genetico della cellula”.
In pratica, l’Accademia riconobbe che le ricerche compiute da Dulbecco tra gli anni ’50 e ’70 presso alcuni istituti di ricerca americani, lo avevano portato alla scoperta del meccanismo d’azione dei virus tumorali nelle cellule animali.
Dopo il Nobel Dulbecco non rimase con le mani in mano e si immerse in un altro progetto colossale: il Progetto Genoma, che si poneva l’obiettivo di mappare l’intera sequenza del genoma umano, per poter comprendere e combattere in modo efficace lo sviluppo del cancro.
Curiosità: Dulbecco ha sempre combattuto l’abitudine di fumare, e nel corso della cerimonia del Nobel non perse l’occasione per pronunciare qualche frase contro quello che riteneva un vizio molto pericoloso.

 

Renato Dulbecco

4. Rita Levi Montalcini (1986)

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Rita Levi Montalcini (1909-2012) rimane nell’immaginario collettivo italiano come “La Signora Scienziata”.

Fin da giovane decise di dedicarsi interamente alla scienza, rinunciando a una famiglia.

Anche lei, come Luria, subì le persecuzioni da parte del regime fascista e, per gran parte della vita, lavorò negli Usa.

Nel 1986, fu insignita del Premio Nobel per la Medicina assieme allo statunitense Stanley Cohen, sulla base della seguente motivazione: “Per le loro scoperte e l’individuazione dei fattori di crescita cellulare”.

Questo riconoscimento premiava un lavoro partito negli anni ’50, quando la Montalcini si era dedicata alla scoperta e all’individuazione del fattore di accrescimento della fibra nervosa, o NGF.

Questa scoperta è stata di fondamentale importanza per la comprensione della crescita delle cellule e degli organi, e ha svolto un ruolo significativo nella comprensione del cancro e di malattie come l’Alzheimer e il Parkinson.

Sempre nella motivazione dell’Accademia, leggiamo: “La scoperta dell’NGF all’inizio degli anni ‘50 è un esempio affascinante di come un osservatore acuto possa estrarre ipotesi valide da un apparente caos”.

Rita Levi-Montalcini fu una donna libera, che si sentiva nata in «un mondo vittoriano, nel quale dominava la figura maschile e la donna aveva poche possibilità».

Il suo grande peso culturale venne riconosciuto in Italia con molti onori e con un seggio da senatrice a vita.

 

Rita Levi Montalcini



5. Mario Capecchi (2007)

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Mario Capecchi (1937) è ad oggi l’ultimo italiano ad aver vinto il Premio Nobel per la Medicina.

Ha svolto tutto il suo percorso accademico negli Usa, fin da quando, nel 1969, divenne professore associato presso il dipartimento di biochimica alla Harvard School of Medicine.

Nel 2007 ha vinto il Nobel assieme a due inglesi, Martin Evans e Oliver Smithies con la motivazione: “Per le loro scoperte del principio per introdurre specifici geni nei topi tramite cellule staminali embrionali”.

In pratica, Capecchi è stato premiato per aver messo a punto tecniche che permettono di generare animali caratterizzati dall’assenza di uno specifico gene.

Queste tecniche, dette di gene targeting, hanno portato i tre biologi alla messa a punto del primo topo knockout, nel quale alcuni specifici geni sono stati resi inoperativi. Questa tecnica potrebbe permettere lo sviluppo di terapie antitumorali su base genetica.

E infatti la comunità scientifica già da tempo utilizzava la tecnica di Capecchi per indurre mutazioni genetiche in modo da dotarli, ad esempio, di qualità anti tumorali. Tale approccio si è rivelato di fondamentale importanza per lo studio in vivo della funzione dei geni.

Oggi, il gene targeting sta contribuendo in modo significativo allo studio di molte malattie e allo studio dei processi immunologici e neurobiologici.

 

Mario Capecchi






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