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I gloriosi Cesari

I primi imperatori di Roma vengono spesso dipinti come tiranni e mostri.

Eppure furono proprio personaggi come Augusto,Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone a dare pace e stabilità al mondo romano.

Scopriamo come.

1. Augusto, il “Favorito dal Cielo

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A quasi duemila anni dalla morte di Caio Giulio Cesare Augusto Germanico, meglio noto come Caligola, rimane nella mente collettiva l’archetipo del mostro al potere, nonché di uno dei pochi personaggi storici dell’antichità ben noto sia ai classicisti sia ai pornografi.

I sordidi dettagli dei suoi anni sul trono, infatti, hanno sempre suscitato un fascino pruriginoso: “Ma basta con l’imperatore, ora parliamo del mostro”, scriveva già Gaio Svetonio Tranquillo, archivista del palazzo imperiale e a tempo perso biografo dei Cesari.

La sua opera, scritta poco meno di un secolo dopo la morte di Caligola, è la testimonianza più antica che possediamo sulla vita dell’imperatore, e ci presenta una lista alquanto spettacolare di crimini e depravazioni: tra le altre cose Caligola andava a letto con le proprie sorelle, si travestiva da dea Venere e nominò magistrato il suo cavallo.

Certe sue azioni erano talmente incredibili da far sospettare che dietro si celasse una vena di follia, e lo stesso Svetonio aveva pochi dubbi in merito: “Egli era malato, sia nel corpo sia nella mente”. E lo era di fatto anche la sua città.

Solo una generazione prima, l’idea che un solo uomo detenesse il potere di vita e di morte su tutti i cittadini romani avrebbe fatto inorridire chiunque. Era stato il suo pro-pro-pro-prozio Gaio Giulio Cesare, fondatore della sua dinastia quasi un secolo prima, a stabilire su Roma un governo autocratico.

I successi di Cesare furono tra i più spettacolari che la storia romana avesse mai visto: l’annessione permanente della Gallia (nome che i Romani davano all’odierna Francia), l’invasione della Britannia e quella della Germania.

Ma all’epoca si era trattato delle imprese di un cittadino della Repubblica, membro di un popolo che dava per scontato che la sola alternativa concepibile alla libertà fosse la morte.

Dalla sua presunzione di rivendicare un primato sopra gli altri cittadini scaturirono prima una guerra civile e poi, dopo che Cesare ebbe sopraffatto i suoi nemici interni come aveva schiacciato i Galli, il suo assassinio.

Solo dopo altri due sanguinosi conflitti intestini i Romani si adattarono a vivere da sudditi: accettare il dominio di una sola persona era diventato l'unico modo per salvare la città e l’impero dall’autodistruzione. Ma si trattava di una cura che era essa stessa una malattia.

Il nuovo signore dell’impero, bisnipote di Cesare, chiamò se stesso Augusto, il “Favorito dal Cielo”, e dopo aver annegato nel sangue tutti i suoi rivali nella corsa al potere si presentò senza batter ciglio come principe della pace. Astuto, paziente ed estremamente deciso, Augusto rimase sul trono per decenni e morì nel proprio letto.

Il segreto del suo successo fu l’arguzia di esercitare il potere attraverso le tradizioni romane anziché contro di esse: fingendo di non essere un autocrate, diede ai suoi concittadini la possibilità di fingere a loro volta di essere ancora liberi. 

I brutali contorni della sua tirannia vennero ben nascosti da un velo limpido e gradevole a vedersi. Con il tempo però questo velo cominciò a sfilacciarsi.

Alla morte di Augusto, nel 14 d.C., il potere che aveva accumulato nella sua lunga e bugiarda carriera si rivelò per quello che era realmente: non un espediente temporaneo, ma una conquista da consegnare in blocco all’erede che si era scelto, un aristocratico cresciuto fin da bambino in seno alla famiglia imperiale, di nome Tiberio.

Il nuovo Cesare aveva molte qualità, tra le quali una nascita di nobiltà impeccabile e una grandiosa carriera come generale degli eserciti di Roma, ma tutte queste cose contarono meno del fatto di essere il figlio adottivo di Augusto, e se ne accorsero tutti.

2. Un'epoca malata

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Tiberio (nella foto accanto), allevato con una dieta a base di virtù della scomparsa Repubblica, fu un monarca infelice, ma Caligola, che gli successe dopo 23 anni di governo, non mostrò una sola briciola di imbarazzo davanti alla consapevolezza di regnare su Roma non per merito della propria esperienza o della propria età ma per il solo fatto di essere il bisnipote di Augusto.

“A mio parere la Natura lo generò al puro scopo di dimostrare quanto danno possa fare un vizio senza confini se associato a un potere senza confini”: così recita l’epitaffio che gli dedicò Seneca, filosofo che aveva avuto modo di conoscerlo bene.

Un giudizio che in realtà Seneca dirigeva non solo contro Caligola ma anche contro tutti quelli che avevano “scodinzolato” ai suoi piedi quando era ancora in vita, e in senso ancor più ampio contro il popolo romano in generale. Per il filosofo la sua era un’epoca malata, marcia e preda del degrado.

Ma, sebbene non fosse il solo a pensarla così, non tutti erano d’accordo. Il regime instaurato da Augusto non avrebbe potuto reggersi nel tempo se non avesse dato ai Romani proprio quel che erano arrivati a desiderare disperatamente dopo decenni di guerra civile: pace e ordine.

Anche le numerose province dell’impero, che andavano dal Mare del Nord al Sahara e dalle sponde dell’Atlantico alla Mezzaluna fertile, ne sentirono il beneficio, tanto che tre secoli dopo, quando la nascita dell’uomo più famoso venuto al mondo sotto Augusto - Gesù - era ormai immensamente più nota di quanto non lo fosse stata all’epoca, un vescovo di nome Eusebio ravvisò nei successi dell’imperatore la mano di Dio stesso:
“Non fu per conseguenza di azioni umane che gran parte del mondo venne posta sotto il comando di Roma proprio nel momento della nascita di Gesù.
La coincidenza che permise al nostro Salvatore di iniziare la Sua missione in un simile ambiente fu innegabilmente opera della Grazia Divina: se il mondo fosse stato ancora in guerra anziché unificato sotto un solo governo, quante più difficoltà avrebbero incontrato i discepoli nei loro viaggi?”
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3. Il prezzo della pace

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Grazie alla prospettiva del tempo, Eusebio era in grado di percepire e apprezzare la straordinaria portata dell’opera di globalizzazione messa in atto da Augusto e dai suoi successori.

I metodi impiegati erano stati senza dubbio brutali, ma la pura immensità del territorio pacificato da Roma non aveva precedenti.

“Accettare un dono è vendere la tua libertà” recita un antico detto, e l’impero senz’altro tassava le sue conquiste, ma la pace che dava in cambio non era necessariamente una contropartita davanti alla quale storcere il naso.

Della Pax Romana beneficiarono milioni e milioni di cittadini, dalle periferie della capitale - che sotto i Cesari divenne la città più grande che il mondo avesse mai conosciuto - alle tante sponde del Mediterraneo, fino agli angoli più remoti di un impero per la prima volta unificato sotto un singolo potere.

Anche gli abitanti delle province potevano essere grati della situazione: “Augusto ha liberato il mare dai pirati e lo ha riempito di navi mercantili”, scriveva felice un ebreo dalla metropoli di Alessandria in Egitto.

“Ha dato libertà a tutte le città, portato ordine dove c’era caos e civilizzato popoli prima selvaggi”. Apprezzamenti che anche Tiberio e Caligola meriterebbero, e che infatti ricevettero. Le depravazioni che li resero famosi ben di rado ebbero conseguenze sul mondo esterno.

Per le genti delle province contava poco chi sedesse sul trono: l’importante era solo che il potere centrale fosse solido. Eppure persino nei recessi più lontani dell’impero il Cesare era una presenza costante.

E come poteva essere altrimenti? “Non c’è una sola cosa in tutto il mondo che sfugga alla sua vista”: un’affermazione ovviamente esagerata, ma che ben riflette il timore e la meraviglia che un imperatore non può fare a meno di suscitare nei suoi sudditi.

La violenza che Roma era in grado di scatenare era sotto il suo solo controllo: sue erano le legioni, suo il minaccioso apparato dell’amministrazione provinciale che provvedeva a riscuotere le tasse, massacrare i ribelli e gettare alle belve o inchiodare alle croci i malfattori.

A un imperatore non serviva mostrare in continuazione il suo potere perché il peso della sua mano si sentisse sul mondo intero. Non c'è dunque da meravigliarsi che per milioni di sudditi il volto del Cesare fosse il volto di Roma stessa, e che fossero ben pochi i centri abitati che non ospitassero una sua statua, un busto o un fregio.

Perfino nelle regioni più periferiche chiunque maneggiasse denaro conosceva il profilo dell’imperatore. Prima di Augusto nessun cittadino ancora in vita era mai apparso su una moneta romana, ma non appena egli giunse al potere il suo volto venne impresso ovunque nell’oro, nell’argento e nel bronzo.

“Di chi è questa immagine e l’iscrizione?”. Anche un predicatore itinerante nelle strade remote della Giudea poteva mostrare una moneta chiedendo di chi fosse il ritratto, ed essere certo di sentirsi rispondere: “Di Cesare”.

E' quindi del tutto normale che il carattere di un imperatore, i suoi successi, le sue relazioni e le sue debolezze fossero per la gente oggetto di fascino e interesse ossessivo.

Uno storico romano attribuisce a Mecenate, amico intimo di Augusto, una frase assai significativa: “Il tuo è il destino di chi deve vivere su un palco il cui pubblico è il mondo intero”.

Che Mecenate l’abbia pronunciata davvero o meno, la frase era appropriata alla teatralità del suo signore: Svetonio racconta che sul letto di morte Augusto chiese ai suoi amici se secondo loro avesse recitato bene la sua parte nello spettacolo della vita. E, sentitosi rispondere di sì, chiese i meritati applausi visto che stava per uscire di scena.

Insomma, un bravo imperatore era costretto a essere anche un bravo attore. E lo stesso valeva per tutti gli altri membri dello “spettacolo”, giacché Augusto non era mai da solo sul palco: i suoi potenziali successori erano figure pubbliche anche solo per il rapporto che li legava a lui, e anche sua moglie e le sue nipoti e bisnipoti potevano avere tutte un loro ruolo.

Una donna legata all’imperatore poteva pagare a carissimo prezzo un errore, ma se si comportava in maniera impeccabile poteva arrivare a vedere il proprio viso sulle monete accanto a quello del Cesare. Nessuna famiglia della storia si era mai trovata tanto sotto gli occhi di tutti quanto quella di Augusto.

Le scelte di vestiario e le acconciature dei suoi membri più importanti, riprodotte in squisito dettaglio dagli scultori di tutto l’impero, dettavano la moda dalla Siria alla Spagna; i loro successi venivano celebrati con spettacolari monumenti pubblici, e i loro scandali ripetuti con gusto da un porto di mare all’altro.

La propaganda e il pettegolezzo, che si alimentavano a vicenda, diedero alla dinastia di Augusto una fama che per la prima volta raggiunse proporzioni continentali e che nemmeno il tempo è riuscito a offuscare: due millenni dopo, il primo caso di tirannia nella storia dell’Occidente rimane insieme un esempio istruttivo e una fonte di sgomento.

4. Un esaurirsi della crudeltà

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“Non c’è nulla di più fioco di quelle torce che, anziché penetrare le tenebre, le mettono in evidenza”: così scrisse Seneca (nella foto accanto), poco prima della sua morte nel 65 dopo Cristo.

A suscitargli quella riflessione era stata una scorciatoia che aveva preso lungo una galleria buia e polverosa, mentre poco tempo prima attraversava il Golfo di Napoli.

“Era una prigione come nessun’altra, lunga come nessun’altra. Non c’è niente che vi si potrebbe paragonare”.

Avendo passato anni a osservare da vicino la corte imperiale, Seneca conosceva bene le tenebre e si faceva poche illusioni attorno al regime instaurato da Augusto: a suo dire, anche la pace che l’imperatore aveva portato al mondo in ultima analisi non si fondava su nulla di più nobile di “un esaurirsi della crudeltà”.

La tirannia era stata un elemento imprescindibile del nuovo ordine fin dai suoi primi istanti. E, tuttavia, Seneca adorava le cose che nel contempo detestava, e il suo disprezzo per il potere non gli impedì di bearsene: il bagliore dell’oro, insomma, riusciva a rischiarare anche la tenebra di Roma.

E oggi, guardando ad Augusto e ai suoi eredi attraverso duemila anni, anche noi siamo in grado di riconoscere nella loro vicenda intessuta di tirannia e grandi imprese, di fascino e sadismo, una certa qualità aurea che nessun’altra dinastia venuta in seguito è mai riuscita del tutto a eguagliare.

“Cesare è lo Stato”, e come queste parole siano divenute una realtà è per noi una storia non meno grandiosa, affascinante o istruttiva di quanto non lo sia stata negli ultimi due millenni.



5. I primi cinque imperatori di Roma

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  • AUGUSTO (63 a.C. - 14 d.C., imperatore dal 27 a.C
    Il primo imperatore
    Nato con il nome di Gaio Ottavio, fu adottato dal suo prozio Giulio Cesare, dal quale ereditò un nome importante e una fortuna.
    Attorno ai 35 anni raggiunse un potere mai detenuto prima da un singolo uomo nel mondo romano.
    Nel 27 a.C. assunse o il titolo di Augusto, ossia “Favorito dal Cielo”. Quando morì era a capo di una struttura autocratica abbastanza solida da durare quanto l'impero stesso.
  • TIBERIO (42 a.C. - 37 d.C., imperatore dal 14 d.C.)
    Il grande generale
    Il matrimonio di sua madre con l’imperatore Augusto gli conquistò un posto nel cuore della neonata dinastia imperiale.
    Si dimostrò un abile generale, ma il popolo non lo amava e il suo profondo rispetto per le tradizioni repubblicane non gli permise mai di sentirsi tranquillo nel ruolo di imperatore.
    Nel 27 d.C. si ritirò a Capri e il suo isolamento diede adito a molte battute, ma la sua capacità di mantenere la pace gli fruttò il rispetto delle province.
  • CALIGOLA (12 - 41 d.C., imperatore dal 37 d.C.)
    Il sadico spiritoso
    Il suo vero nome era Gaio ma da ragazzo venne soprannominato Caligola ("Stivaletti") dai soldati che servivano sotto il comando di suo padre.
    Parlando di lui Tiberio una volta disse: “Sto allevando una vipera”, e le sue parole si rivelarono veritiere.
    Divenuto imperatore, il gusto di Caligola per le azioni teatrali e per il far del male alle persone alimentarono i suoi attacchi contro il Senato.
    Ciononostante, quando fu assassinato dalle sue stesse guardie nel 41 d.C., lo piansero in moltissimi.
  • CLAUDIO (10-54 d.C., imperatore dal 41 d.C.)
    Il buon governante
    Il nipote di Tiberio soffriva di tic e balbuzie, caratteristiche che non favorirono la sua carriera politica.
    Divenne Cesare quando suo nipote Caligola fu assassinato.
    Anche se disprezzato da molti e considerato succube delle donne e dei liberti che lo circondavano, si dimostrò un valido imperatore: le sue imprese annoverano l’invasione della Britannia e la commissione di un nuovo porto per Roma.
    Si dice che della sua morte fosse stata responsabile sua moglie (e nipote) Agrippina.
  • NERONE (37-68 d.C., imperatore dal 54 d.C.)
    L’uomo di spettacolo
    Noto inizialmente con il nome di Domizio, il figlio di Agrippina fu adottato da Claudio e in seguito fece uccidere sua madre e sua moglie.
    Affinò la politica - già praticata da Caligola - di conquistarsi il favore delle masse anziché quello del Senato, e più sanguinoso diventava il suo governo più i suoi atteggiamenti si facevano spettacolari.
    Quando, infine, nel 68 si trovò ad affrontare una ribellione si suicidò, e con la sua morte terminò la dinastia giulio-claudia.








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