Blaise Pascal nasce il 19 giugno 1623 a Clermont-Ferrand, nell’Auvergne, da Étienne Pascal, magistrato e matematico, e da Antoinette Begon.
A tre anni perde la madre, morta in seguito al parto della sorella Jacqueline.
Nel 1631 la famiglia si trasferisce a Parigi. A occuparsi dell’istruzione del giovane Blaise è personalmente il padre.
Il ragazzo rivela poi una tale precocità nello studio e nella comprensione della matematica e della fisica da essere ammesso giovanissimo alle riunioni scientifiche del circolo di studiosi che si riuniva intorno a Marin Mersenne, il quale era in contatto con i più grandi ricercatori del tempo, tra cui Galilei, Fermat, Descartes e Torricelli.
Blaise passa questi anni a Rouen, dove suo padre aveva avuto un incarico da parte del cardinale Richelieu. Qui, nel 1640, scrive la sua prima opera scientifica, il Saggio sulle coniche, andato in gran parte perduto, ma di cui resta l’essenziale e originale risultato noto appunto come “teorema di Pascal”.
Nel 1642, per aiutare il padre nella sua contabilità, progetta e costruisce una calcolatrice meccanica in grado di eseguire addizioni e sottrazioni, la cosiddetta “Pascalina”.
Nel 1646 il padre si rompe una gamba e viene curato per tre mesi da due medici giansenisti. Le conversazioni con questi e la lettura delle opere di Cornelius Jansen (Giansenio) e dei suoi seguaci sono all’origine di quella che verrà chiamata la sua “prima conversione”, in seguito alla quale Pascal comincia a scrivere su argomenti religiosi.
Nel 1647 è colpito da un attacco di paralisi che lo costringe a camminare con le stampelle. La sua salute è così compromessa che, anche per ricevere migliori cure mediche, si trasferisce a Parigi assieme alla sorella Jacqueline. Qui le sue condizioni migliorano e, momentaneamente allontanatosi dall’impegno religioso, Pascal riprende a coltivare i suoi interessi scientifici.
Sono gli anni in cui, sulla scorta dei lavori di Evangelista Torricelli, fa i suoi esperimenti sul vuoto, uno dei quali gli permette di confermare la realtà del vuoto e della pressione atmosferica e di avanzare la teoria generale dell’equilibrio dei liquidi.
Nel 1651 muore il padre e in quello stesso anno la sorella Jacqueline, nonostante la decisa opposizione di Blaise, entra come suora nel monastero di Port-Royal, centro del movimento giansenista.
In questi anni Pascal, ricco per l’eredità paterna, conduce una vita mondana, frequentando libertini, belle donne (a un certo punto medita persino di sposarsi) e giocatori.
Proprio le discussioni su problemi legati alle scommesse, lo porteranno a scrivere nel 1654, dopo una corrispondenza con il matematico Fermat, un piccolo saggio sul calcolo delle probabilità. Nel novembre del 1654, sul ponte di Neuilly, la carrozza su cui viaggia Pascal per poco non finisce nel vuoto in seguito a un incidente.
Il filosofo perde conoscenza e ritorna in sé solo quindici giorni dopo, la notte del 23 novembre 1654, quando ha un’intensa visione religiosa che descrive in una breve nota, che verrà denominata Il Memoriale e che Pascal porterà sempre con sé senza mostrarla a nessuno (il documento verrà casualmente scoperto solo dopo la sua morte).
È questo l’episodio cui Pascal fa risalire la sua decisiva “seconda conversione” e da questo momento egli prende a frequentare regolarmente Port-Royal, aderendo al movimento giansenista e sposandone le battaglie teologiche.
Proprio in quel periodo, infatti, si era accesa un’aspra controversia tra i giansenisti e i teologi dell’Università della Sorbona di Parigi. Pascal interviene nella disputa scrivendo sotto pseudonimo tra il 1656 e 1657 le Lettere provinciali, in cui difende le posizioni gianseniste e attacca con sottigliezza e vigore polemico le concezioni religiose dei gesuiti.
La reazione non si fa attendere: il papa Alessandro VII condanna le Lettere e nel 1660 il re Luigi XIV ordina che il libro venga bruciato.
Anche se in questo periodo Pascal non ha del tutto abbandonato i suoi interessi matematici (nel 1654 scrive il Trattato del triangolo aritmetico, nel 1657 gli Elementi di geometria, mentre del 1658 è una Storia della roulette), negli ultimi anni prevale però nettamente l’interesse religioso e Pascal si concentra sull’opera che avrebbe dovuto chiamarsi Apologia della religione cristiana.
Anche a causa della salute sempre più malferma il filosofo non riuscirà a portare a termine il suo progetto, che resterà allo stadio di una raccolta di pensieri sparsi.
E tuttavia questi testi frammentari, pubblicati per la prima volta nel 1670 con il titolo Pensieri, erano destinati a diventare un classico del pensiero moderno e a venire sempre più considerati una delle grandi creazioni dello spirito umano.
Nel 1662 la malattia di Pascal (che l’anno precedente aveva perso anche l’amata sorella Jacqueline) si aggrava ulteriormente e il filosofo muore, probabilmente di un tumore allo stomaco, il 19 agosto di quell’anno, a soli 39 anni. Le sue ultime parole saranno: «Che Dio non mi abbandoni mai!».
1. Psicologia umana
- Quanto più si è spiritualmente ricchi, tanto più si scopre che ci sono parecchi tipi originali. La gente comune non rileva differenze tra gli uomini.
- La Scrittura è provvista di passi che sono atti a consolare tutte le condizioni, e a intimorire tutte le condizioni. La natura sembra aver fatto la stessa cosa per mezzo dei suoi due infiniti, naturali e morali: perché avremo sempre chi sta in basso e chi sta in alto, più intelligenti e meno intelligenti, più nobili e più miserabili, per umiliare il nostro orgoglio e sollevare la nostra abiezione.
- Ai grandi e agli umili capitano le stesse cose, gli stessi fastidi, le stesse passioni; ma gli uni stanno al sommo della ruota, e gli altri vicino al perno, e così vengono meno sballottati dagli stessi movimenti.
- Mio, tuo. «Questo cane è mio», dicevano quei poveri bambini, oppure: «Questo è il mio posto al sole». Ecco l’inizio e l’immagine dell’usurpazione di tutta la terra.
- La dignità dell’uomo consisteva, nel suo stato di innocenza, nell’usare e dominare le creature, oggi invece nel separarsene e nel porsi al di sotto di esse.
- Ingiustizia. Non hanno trovato altra maniera di soddisfare la concupiscenza senza far torto agli altri.
- L’uomo è pieno di bisogni: egli ama solo chi può soddisfarglieli tutti. […]
- La corruzione della ragione traspare da molti differenti e stravaganti costumi. C’è stato bisogno che venisse la verità perché l’uomo smettesse di vivere in se stesso.
- Descrizione dell’uomo: dipendenza, desiderio d’indipendenza, bisogno.
- Condizione dell’uomo: incostanza, noia, inquietudine.
- Il sentimento della falsità dei piaceri presenti, e l’ignoranza della vanità dei piaceri assenti causano l’incostanza.
- Si ama la sicurezza. Fa piacere che il papa sia infallibile in materia di fede e i dottori autorevoli lo siano in materia di costumi, per avere certezze.
- La gente comune ha la capacità di poter fare a meno di pensare a quello cui non vuol pensare. […] Ma ci sono persone incapaci di impedirsi così di pensare, che anzi pensano tanto più quanto più lo si proibisce loro. […]
- Ci conosciamo così poco che molti credono di essere in punto di morte quando sono in piena salute; e molti credono di star bene quando sono vicini a morire, non sentendo la febbre imminente e l’ascesso che sta già per formarsi.
- Un tale mi diceva un giorno che provava grande gioia e fiducia uscendo dalla confessione. Un altro mi diceva che restava pieno di timore. Ho pensato, in proposito, che dei due si sarebbe fatta una persona sola buona e che ciascuno era carente per non provare il sentimento dell’altro. La stessa cosa succede spesso anche in altri campi.
- Gli spiriti tiepidi sono persone che conoscono la verità, ma che la difendono solo finché coincide con il loro interesse; ma, al di fuori di questa convergenza, l’abbandonano.
- Dicono che le eclissi presagiscono sventure, perché le sventure sono comuni, e i mali accadono così spesso che spesso l’indovinano; se dicessero invece che presagiscono eventi felici, altrettanto spesso sbaglierebbero. Collegano l’evento felice a fenomeni astrali che si verificano raramente; così raramente sbagliano nel fare previsioni.
2. Misero, grande uomo
- L’uomo è chiaramente fatto per pensare; è tutta la sua dignità e tutto il suo merito; e tutto il suo dovere consiste nel pensare come si deve. Ora, l’ordine del pensiero è quello di cominciare da sé, e dal suo autore e dal suo fine.
Ma a che cosa pensa la gente? Mai a questo; ma a ballare, a suonare il liuto, a cantare, a comporre versi, a infilzar l’anello nelle giostre, e cose simili, a battersi, a farsi incoronare re, senza pensare che cosa vuol dire essere re e che cosa vuol dire essere uomo. - La sensibilità dell’uomo per le piccole cose e l’insensibilità per le grandi cose è segno di uno strano stravolgimento.
- Un niente ci consola perché un niente ci affligge.
- Potenza delle mosche: vincono battaglie, impediscono alla nostra anima di agire, mangiano i nostri corpi.
- Temere la morte fuori dal pericolo, e non nel pericolo; perché bisogna essere uomini.
- Ci si figurino degli uomini in catene, e tutti condannati a morte, mentre alcuni sono ogni giorno sgozzati davanti agli occhi degli altri, quelli che restano vedono la propria sorte in quella dei loro simili, e si guardano in faccia con dolore e senza speranza, aspettando il loro turno. Questa è l’immagine della condizione dell’uomo.
- Nonostante queste miserie, vuole essere felice, non vuole che essere felice, non può non voler esserlo; ma che cosa può fare? Bisognerebbe, per raggiungere questo fine, che si rendesse immortale; ma, non potendolo, si è risolto a impedirsi di pensarci.
- Distrazione. Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, si sono risolti, per procurarsi di essere felici, a non pensarci.
- La nostra natura è nel movimento; l’assoluto riposo è la morte.
- Agitazione. Quando un soldato si lamenta del peso che sopporta, così un contadino, e così via, che li si metta a non far nulla.
- Noia. Niente per l’uomo è insopportabile come l’essere in pieno riposo, senza passioni, senza affari da sbrigare, senza svaghi, senza un’occupazione. Egli avverte allora la sua nullità, il suo abbandono, la sua insufficienza, la sua dipendenza, la sua impotenza, il suo vuoto. Subito si leveranno dal fondo della sua anima la noia, la malinconia, la tristezza, l’afflizione, il dispetto, la disperazione.
- Miseria. La sola cosa che ci consola delle nostre miserie è la distrazione, e tuttavia è la più grande delle nostre miserie. Perché è ciò che principalmente ci impedisce di pensare a noi stessi, e che ci porta a perderci senza accorgercene. Senza di essa, saremmo nella noia, e questa noia ci spingerebbe a cercare un mezzo più consistente per uscirne. Ma la distrazione ci svaga, e ci fa giungere senza accorgercene alla morte.
- Corriamo spensieratamente verso il precipizio, dopo che abbiamo piazzato qualcosa davanti a noi per impedirci di vederlo.
- Tra noi e l’inferno, o il cielo, non c’è che la vita in mezzo, che è la cosa più fragile del mondo.
3. Paradosso e dialettica
- […]
Beffarsi della filosofia è filosofare davvero. - Scetticismo. Scriverò qui i miei pensieri senz’ordine, anche se non forse in una confusione senza disegno: è il vero ordine, che contrassegnerà sempre il mio oggetto mediante lo stesso disordine. Farei troppo onore al mio soggetto, se lo trattassi con ordine, perché voglio mostrare che esso non ne è capace.
- […]
Vi sono verità in gran numero, e di fede e di morale, che sembrano incompatibili e che sussistono tutte in un ordine stupefacente. La fonte di tutte le eresie è l’esclusione di qualcuna di queste verità; e la fonte di tutte le obiezioni che ci muovono gli eretici è l’ignoranza di qualcuna delle nostre verità.
Così solitamente accade che, non riuscendo a concepire il rapporto tra due verità opposte e credendo che l’affermazione di una comporti l’esclusione dell’altra, essi si attacchino all’una, escludano l’altra, e pensino che noi facciamo l’opposto. […] - Tutti sbagliano in forma tanto più pericolosa in quanto seguono ciascuno una verità: il loro errore non consiste nel seguire una falsità, ma nel rifiutare una verità diversa.
- La verità è in questi tempi così oscurata, e la menzogna così stabile che, se non si ama la verità, non si potrebbe conoscerla.
- Se c’è un tempo in cui bisogna far professione dei due contrari è quando si è accusati di ometterne uno. Dunque i Gesuiti e i Giansenisti hanno torto celandoli; ma di più i Giansenisti, perché i Gesuiti hanno fatto professione dei due in modo migliore.
- Le due ragioni contrarie. Bisogna incominciare da qui: senza di ciò non si capisce nulla, e tutto è eresia; e anche, alla conclusione di ciascuna verità, bisogna aggiungere che ci si ricorda della verità opposta.
- C’è una differenza universale ed essenziale tra le azioni della volontà e tutte le altre. La volontà è uno dei principali organi della credenza; non perché generi la credenza, ma perché le cose sono vere o false, secondo il lato da cui le si considera.
La volontà, cui piace un aspetto piuttosto che un altro, distoglie la mente dal prendere in considerazione gli aspetti che non ama vedere; così la mente, procedendo di pari passo con la volontà, si ferma a considerare l’aspetto che le piace e formula pertanto un giudizio solo su ciò che ci vede. - La volontà propria non si contenterà mai, nemmeno se avesse il potere di tutto ciò che vuole; si è invece soddisfatti nello stesso istante in cui vi si rinuncia. Senza di lei, non si può essere scontenti; per opera sua, non si può essere contenti.
- Non c’è niente tanto conforme alla ragione come questa sconfessione della ragione.
- Che cosa sono i nostri princìpi naturali se non princìpi dati dall’abitudine? E, nei bambini, quelli che hanno ricevuto dalle abitudini dei loro padri, come l’istinto predatorio negli animali? Consuetudini differenti ci daranno altri princìpi naturali, e ciò si vede per esperienza; se poi ce ne sono che non possono essere cancellati dalla consuetudine, ce ne sono anche di consuetudinari che sono contro la natura, che né la natura né una ulteriore consuetudine riescono a cancellare. Dipende dalla disposizione.
- La memoria, la gioia sono sentimenti; anche le proposizioni geometriche diventano sentimenti, perché la ragione rende i sentimenti naturali e i sentimenti naturali sono cancellati dalla ragione.
- Gli uomini sono così necessariamente pazzi, che sarebbe essere pazzi per un altro genere di pazzia il non essere pazzi.
- Tutti i loro princìpi sono veri, degli scettici, degli stoici, degli atei, e così via. Ma le loro conclusioni sono false, perché i princìpi opposti sono altrettanto veri.
- […]
Non si dimostra la propria grandezza per essere collocati a un estremo, bensì toccando entrambi gli estremi a un tempo, e colmando tutta la distanza che c’è in mezzo. Ma forse è solo un rapido movimento dell’anima dall’uno all’altro dei due estremi, ed essa non è mai in realtà che in un punto, come il tizzone ardente. E sia, ma ciò dimostra almeno l’agilità dell’anima, se non ne dimostra l’estensione.
4. Dio
- Bisogna incominciare con il compiangere gli increduli: sono già abbastanza infelici per la loro condizione. Non si dovrebbero ingiuriare a meno che ciò tornasse loro utile: ma ciò nuoce loro.
- Non posso perdonare a Descartes; avrebbe pur voluto, in tutta la sua filosofia, poter fare a meno di Dio; ma non ha potuto evitare di fargli dare una spintarella, per mettere in movimento il mondo; dopo di che, non sa che farsene di Dio.
- L’uomo in ogni condizione e persino i martiri devono temere, secondo la Scrittura. La pena maggiore del purgatorio è l’incertezza del giudizio, il Dio nascosto.
- È dunque vero che tutto istruisce l’uomo sulla sua condizione, ma bisogna intendersi bene: non è infatti vero che tutto rivela Dio, e non è vero che tutto nasconde Dio. Ma è contemporaneamente vero che egli si nasconde a quelli che lo tentano e si rivela a quelli che lo cercano, perché gli uomini tutti quanti sono indegni di Dio e capaci di Dio: indegni per la loro corruzione, capaci per la loro natura primigenia.
- Su Dio che si è voluto nascondere. Se ci fosse una sola religione, Dio vi sarebbe chiaramente manifesto. Se ci fossero dei martiri solo nella nostra religione, sarebbe la stessa cosa.
Ma essendo Dio così nascosto, ogni religione che affermi che Dio non è nascosto non è vera; e ogni religione che non ne dà una spiegazione non è istruttiva. La nostra fa tutto ciò: Veramente tu sei il Dio nascosto. - Invece di lamentarvi che Dio si è nascosto, rendetegli grazia per quel tanto che si è svelato; e gli renderete grazia anche per non essersi svelato ai sapienti superbi, indegni di conoscere un Dio così santo.
Due specie di persone conoscono: quelli che sono umili di cuore, e amano la mortificazione, qualunque sia il loro grado, alto o basso, di intelligenza; quelli che hanno abbastanza intelligenza per vedere la verità, qualunque riluttanza provino nei suoi riguardi. - Se la misericordia di Dio è così grande da istruirci salvificamente anche quando si nasconde, quale luce dobbiamo aspettarcene, quando si rivela?
- Come Gesù Cristo è rimasto sconosciuto fra gli uomini, così la verità si mischia alle opinioni comuni, senza che dall’esterno se ne veda la differenza. Così l’Eucarestia in mezzo al comune pane.
- Se c’è un solo principio di tutto, un solo fine di tutto, tutto da lui, tutto per lui. Bisogna dunque che la vera religione ci insegni a non adorare che lui e a non amare che lui.
Ma, siccome ci troviamo nell’incapacità di adorare ciò che non conosciamo, e di amare altri che noi stessi, la religione che insegna questi doveri deve anche istruirci su questa nostra impotenza e indicarcene altresì i rimedi.
Essa ci insegna che, a causa di un uomo, tutto è stato perduto e si è rotta l’alleanza tra noi e Dio, ma che, per opera di un uomo, il patto è stato rinsaldato. Noi nasciamo così contrari a questo amore di Dio, ed esso è così necessario, che bisogna ammettere che nasciamo colpevoli, altrimenti Dio sarebbe ingiusto. - […]
… coloro che hanno viva la fede nel cuore vedono subito che tutto ciò che esiste non è altro che l’opera del Dio che adorano.
Ma per coloro in cui quella luce è spenta, e nei quali si intende farla rivivere, per quelle persone prive di fede e di grazia che, pur ricercando con l’impiego di ogni lucida facoltà in quanto vedono nella natura ciò che può condurli a una tale conoscenza, ci trovano soltanto oscurità e tenebre; dire a costoro che hanno solamente da guardarsi intorno per vedere Dio manifesto in ogni più piccola cosa, e addurre, per tutta prova di così grande e importante argomento, il corso della luna e dei pianeti, e pretendere di avere con un tale discorso fornito una prova esauriente, questo è dar loro ragione di credere che le prove della nostra religione siano molto deboli. […]
Non è così che parla la Sacra Scrittura, che pure conosce molto meglio le cose di Dio. Essa dice, invece, che Dio è un Dio nascosto; e che, dopo la corruzione della natura, ha lasciato gli uomini in un accecamento da cui non possono uscire che per opera di Gesù Cristo, fuori del quale è impossibile ogni comunicazione con Dio: Nessuno ha conosciuto il Padre se non il Figlio, e colui al quale il Figlio ha voluto rivelarlo.
È quello che la Scrittura ci insegna quando dice, in vari passi, che quelli che cercano Dio lo trovano. Non si parla di una luce che sia come quella meridiana del giorno. Non si dice che quelli che cercano la luce meridiana, o l’acqua nel mare, la troveranno; e così se ne ricava che l’evidenza di Dio nella natura non debba essere tale. Così la Scrittura ci dice altrove: Veramente tu sei il Dio nascosto.
5. Appunti per un’etica della comunicazione
- Avevo trascorso molto tempo nello studio delle scienze astratte, ma la scarsa comunicazione che possono consentire me ne aveva disgustato.
Quando ho incominciato lo studio dell’uomo, ho constatato che quelle scienze astratte non si addicono all’uomo e che mi allontanavo più io dalla mia condizione approfondendole che gli altri ignorandole.
Ho perdonato agli altri di saperne poco. Ma credevo almeno di trovare molti compagni nello studio dell’uomo, e che fosse questo il vero studio che gli è proprio. Mi sono ingannato: ce ne sono ancor meno di quelli che studiano la geometria.
Solo perché non si è in grado di affrontare quello studio si cerca tutto il resto; o, forse, non è nemmeno questa la scienza che l’uomo deve perseguire ed è meglio che ignori se stesso per essere felice? - Non passa tra la gente per intenditore di versi chi non sfoggia il titolo di poeta, e lo stesso vale per il matematico, e così via. Ma le persone di cultura universale non sanno che farsene dei titoli e non fanno nessuna differenza tra il mestiere del poeta e quello del ricamatore. Gli ingegni universali non sono chiamati né poeti, né scienziati; sono però tutto questo, e di tutto[…]
- Certi scrittori, parlando delle loro opere, dicono: «Il mio libro, il mio commento, la mia storia…» Fanno pensare a quei borghesi proprietari di casa che hanno sempre in bocca: «A casa mia». Farebbero meglio a dire: «Il nostro libro, la nostra storia, il nostro commento», perché assai spesso in quei libri c’è più farina d’altro sacco che del loro.
- Orgoglio. La curiosità non è altro che vanità. Nella maggior parte dei casi non si vuole sapere qualcosa che per poterne parlare. Non ci si metterebbe in mare, altrimenti, per non dirne mai nulla, e per il solo piacere di vedere, senza la speranza di farne oggetto di comunicazione.
- Anche quando uno non sia affatto interessato a quello che dice, non bisogna dedurne in senso assoluto che sia sincero, perché ci sono persone che mentono semplicemente per mentire.
- Eloquenza. Ci vogliono il dilettevole e il reale; ma occorre che il dilettevole sia anch’esso preso dal vero.
- Quando in un discorso si presentano delle ripetizioni e, cercando di correggerle, si scoprono così opportune che, eliminandole, il discorso si guasterebbe, bisogna lasciarle, perché è segno che vanno bene così, anche se ciò può destare critiche mosse dall’invidia, che è cieca, e non capisce che in determinati casi una ripetizione non è un errore, perché non c’è una regola generale.
- Linguaggio. Coloro che creano antitesi forzando le parole son come quelli che fanno false finestre per la simmetria: la loro regola non è di parlare giusto, ma di comporre figure giuste.
- L’ordine. Contro la critica che la Scrittura non ha ordine. Il cuore ha il suo ordine; l’intelletto ha il suo, che si basa su princìpi e dimostrazioni, il cuore ne ha un altro. Non si dimostra che si deve essere amati esponendo con ordine le cause dell’amore: sarebbe ridicolo. Gesù Cristo, San Paolo seguono l’ordine della carità, non quello dell’intelletto; essi volevano accendere i cuori, non istruire. Lo stesso vale per Sant’Agostino. Tale ordine consiste principalmente nella digressione
- Mascherare la natura e travestirla. Non più re, papa, vescovo, ma “augusto monarca”, eccetera; non più Parigi, ma “capitale del regno”. Ci sono casi in cui Parigi va chiamata Parigi, altri in cui bisogna chiamarla “capitale del regno”.
- Mi hanno sempre messo in imbarazzo questi complimenti: «Vi ho procurato molto fastidio», «Ho paura di annoiarvi», «Temo che sia troppo lungo». O ci convincono, o ci irritano.
- Allo stesso modo con cui ci si guasta l’ingegno, ci si guasta anche il sentimento. L’ingegno e il sentimento si formano per mezzo delle conversazioni. Così, le buone o le cattive lo formano o lo guastano. Dunque è molto importante saper scegliere bene, per formarlo e non guastarlo; ma non si può fare questa scelta se l’ingegno non è già formato e integro. Donde un circolo vizioso, da cui sono fortunati quelli che riescono a uscire.
- Sono convinto che se tutti gli uomini risapessero ciò che dicono gli uni degli altri, non ci sarebbero al mondo quattro amici. Ne abbiamo una prova dalle liti che nascono sulle chiacchiere indiscrete che a volte si fanno. […]
- Bisogna che, in qualsiasi dialogo o discorso, si possa dire a coloro che se ne offendono: «Di che cosa vi lamentate?»
- Quando un discorso non artificioso dipinge una passione o un affetto, troviamo in noi stessi la verità di quello che vuol dire, una verità che non sapevamo fosse già presente in noi. Così siamo portati ad amare chi ce la fa sentire, perché costui non ha fatto mostra di un bene suo, ma del nostro, per cui tale beneficio lo rende amabile, oltre all’essere di necessità indotti ad amarlo dall’affinità intellettuale che abbiamo con lui.