Dolore. Passiamo tutta la vita a cercare di evitarlo e di placarlo.
Ma se è storto, lo devi sopportare, è una battaglia che non scegli tu di combattere ma che devi vincere.
Nell’epico film Lawrence d’Arabia c’è una scena in cui Lawrence spegne un fiammifero con le dita. Un compagno cerca di imitarlo ma si brucia le dita e si lamenta del dolore.
“Lo so che brucia”, risponde Lawrence. “Qual è il trucco allora?”, chiede il compagno. “Il trucco è non far caso al dolore.” È un trucco che possiamo imparare tutti e il nostro miglior insegnante è proprio il dolore.
Ma come funziona il dolore? Il sistema nervoso è progettato per fornire reazioni immediate a dolore. Ed è un bene: se fossero più lente invece che, ad esempio, bruciarti un dito sul fornello rischieresti di provocarti ustioni di terzo grado in tutto il corpo.
Le cellule nervose mantengono un delicato equilibrio tra sodio, potassio e calcio. Per capire meglio come funziona il dolore, facciamo l’esempio di una scottatura.
Se per sbaglio tocchi una padella bollente con la mano quell’equilibrio si perde. Il sodio inizia a penetrare nelle membrane delle cellule e quando ne è entrata una certa quantità i nervi rilasciano una minuscola carica elettrica, circa un millesimo dell’energia che serve ad azionare il campanello di una porta.
- Ci sono diversi tipi di dolore: meccanico, chimico e termico, trasportati al cervello da diverse fibre nervose. Il segnale elettrico proveniente dalla mano ustionata sceglie la fibra nervosa più adatta, “sale a bordo” e arriva fino al midollo spinale.
- Tutti i segnali di dolore alla fine raggiungono il midollo spinale. Quello che parte dalla mano bruciata entra nel midollo dalla parte bassa del collo, all’incirca tra la quinta e la settima vertebra. L’esatto punto di ingresso dipende da dove ti sei scottato: se ti sei fatto male al pollice, per esempio, il segnale di dolore entra nel midollo dalla quinta vertebra.
- Dopo aver viaggiato lungo la spina dorsale il segnale arriva al centro di ricezione del cervello, il talamo.
- Nel caso di un’ustione, l’intero processo richiede 0,01 secondi. E sono tanti: le fibre nervose chimiche e meccaniche lavorano a una velocità 10 volte maggiore. Il talamo modula il dolore a seconda del livello di rischio per l’organismo e poi lo invia alla corteccia cerebrale, che lo interpreterà.
Ma vediamo 5 cose molto interessanti da sapere sul dolore, questo nemico che non vorresti aver mai incontrato.
1. Il dolore: un nemico che non vorresti aver mai incontrato
Eppure per i ricercatori che studiano la complessa biologia umana, il dolore ha un ruolo fondamentale nelle nostre vite ed è prima di tutto un potente segnale di avvertimento che ci obbliga a fermarci per poter guarire.
Nella gran parte dei casi è a questo che serve il dolore: a permetterci di guarire.
Come la vista, il tatto, l’udito,l’olfatto e il gusto il dolore è strettamente legato al sistema sensoriale e anche lui ci fornisce dati dettagliati, in questo caso relativi alla natura, all’intensità e alla localizzazione del male oscuro che ci minaccia.
Proprio come l’occhio traduce la luce in impulsi nervosi, le cellule sensoriali specifiche chiamate nocicettori e diffuse in tutto il corpo sono pronte a reagire a qualsiasi assalto della vita.
La prontezza e l’intensità dipendono da quello che succede ai segnali elettrici generati dagli stessi nocicettori. In alcuni casi, per esempio quando ti tagli un dito, segnali rapidissimi che si muovono alla velocità di 20 metri al secondo scatenano una reazione immediata nella spina dorsale, dando ai muscoli l’ordine di ritirare la mano.
Questo succede prima ancora di provare dolore, una reazione che richiede un po’ più di tempo e che il cervello sta ancora analizzando quando la mano si sposta. Per raggiungere il cervello i segnali dei nocicettori devono risalire lungo una catena di neuroni nella spina dorsale.
Tra un neurone e l’altro c’è un piccolo spazio, o sinapsi, dove vengono rilasciate varie sostanze chimiche cerebrali chiamate neurotrasmettitori che permettono al messaggio di procedere verso il cervello.
A seconda del tipo di neurotrasmettitore, si può modulare l’intensità dei segnali, un po’ come quando si alza o si abbassa il volume della musica.
Quando i segnali raggiungono il cervello vengono processati da diverse aree per determinare l’origine del dolore, la sua natura e intensità e anche la qualità della sofferenza che provoca. Infine, entrano in gioco anche pensieri ed emozioni, placando o aumentando il dolore fisico.
2. Quando il dolore diventa cronico
Purtroppo, però, il dolore non segue sempre la strada corretta e spesso le cose vanno storte.
Quando succede, quello che era un meccanismo di difesa pensato per farci guarire e star meglio si trasforma in un’inutile sofferenza.
Il mal di schiena o mal di collo cronici, il dolore cronico della prostatite, i mal di testa costanti non sono più strumenti di autoprotezione che servono a guarire. E ancora: che senso ha un arto mutilato che fa ancora male?
Sfortunatamente circa il 10% delle persone che si fanno molto male continuano a provare dolore anche una volta guarite. A quel punto il dolore cronico diventa una nuova malattia.
Questo succede perché alla spina dorsale arrivano costantemente quei segnali di dolore. Se questo fenomeno continua senza interruzione per troppo tempo può portare a una LTP (Long Term Potentation) dello stesso sistema nervoso centrale.
La LTP rende il midollo spinale ipersensibile al dolore, facendoglielo percepire come molto più doloroso del normale. È proprio per prevenire la LTP che i medici oggi prendono molto seriamente il dolore post-operatorio: mantenendolo a un livello accettabile all’inizio possono riuscire a prevenire l’instaurarsi di un dolore cronico.
I traumi ai tessuti non sono l’unica causa a scatenare il dolore cronico. Il dolore infatti non viene trasmesso solo dai nocicettori ma può svilupparsi anche negli stessi nervi danneggiati, scatenando una serie di problemi che vanno sotto il nome di dolore neuropatico.
La dislocazione di un disco, per esempio, provoca pressione sui nervi delle gambe e il bruciore della sciatica. E un nervo intrappolato durante un’operazione chirurgica può fare più male della causa che ha portato all’operazione stessa.
C’è poi un’altra categoria del dolore che esula dai nocicettori e dai nervi. Si tratta di un dolore generalizzato, come la fibromialgia, in cui non pare esserci nessun danno a livello di tessuto o di nervi. In questo caso probabilmente il cervello ha sbagliato qualcosa nel processare il dolore.
Vista l’assenza di una malattia diagnosticabile o di un danno visibile sarebbe facile mettere in dubbio l’autenticità del dolore provato dai pazienti. Ma gli esperti sanno bene che il dolore è un’esperienza soggettiva, indipendentemente dalla sua origine.
Non ci sono persone che esagerano il male che provano perché sono dei pappamolle: il dolore diventa tale, sopportabile o insopportabile, solo quando raggiunge il cervello, non conta da dove e come ci arriva.
3. Il profitto e le perdite del dolore
Il numero di persone che devono sopportare le loro torture personali è altissimo.
Nel 2011 l’Institute of Medicine americano (IOM) ha calcolato che circa 100 milioni di americani adulti soffrono di una qualche forma di dolore cronico.
E in molti di loro il dolore fisico provoca anche dolore psicologico. In un’indagine del 2006 condotta per conto della American Pain Foundation, per esempio, il 77% di pazienti con dolori cronici che prendevano oppiacei ha dichiarato di sentirsi depresso e l’86% ha detto che il dolore interferiva con il sonno.
La stessa indagine della IOM ha calcolato che il dolore cronico, a livello di costi per le cure e di perdita di produttività, è salito da 426 a 483 miliardi di euro all’anno. Il dolore però non provoca solo perdite: anzi, spesso genera grandi profitti.
Chi non spenderebbe tutto quello che ha per smettere di soffrire? Secondo la CDC americana (Centers for Disease Control and Prevention), la vendita di oppiacei per lenire il dolore negli Stati Uniti è quadruplicata dal 1999 al 2010.
Tra questi farmaci ci sono anche la morfina e i suoi analoghi sintetizzati farmaceuticamente, dal Vicodin all’Oxycontin. La CDC stima che nel 2012 ogni 100 americani siano state fatte 82,5 prescrizioni per farmaci a base di oppioidi. E contemporaneamente sta aumentando l’utilizzo di narcotici ancora più potenti, sempre con ricetta medica.
Nel 2010 ben 1 americano su 20 dai 12 anni in su si è fatto prescrivere un antidolorifico per motivi non medici. I decessi per overdose di farmaci antidolorifici sono talmente aumentati (da 4.000 nel 1999 a più di 16.000 nel 2010) che gli antidolorifici con prescrizione adesso causano più morti dell’eroina e della cocaina messe insieme.
Nel frattempo i decessi tra gli uomini sono aumentati del 265% e, sempre secondo la CDC, i maschi hanno una probabilità una volta e mezza maggiore delle donne di morire per l’uso eccessivo o sconsiderato di antidolorifici prescritti dal medico.
In parte la colpa è anche dei medici che prescrivono antidolorifici senza tanti ripensamenti, per non parlare delle pubblicità delle aziende farmaceutiche che mettono i profitti davanti alla salute dei pazienti.
Ma chi può biasimare i malati che soffrono di un dolore forte e cronico se chiedono al medico di avere il Vicodin? E chi può biasimare i medici compassionevoli che li accontentano? Da entrambe le parti, c’è un comportamento eticamente dubbio ma è in buona fede.
VIA IL DOLORE SENZA FARMACI
- Curcumina: i ricercatori tailandesi hanno scoperto che 1.500 mg di curcumina al giorno per quattro settimane possono ridurre il dolore al ginocchio causato dall’osteoporosi con la stessa efficacia di 1.200 mg di ibuprofene.
- Agopuntura: l'agopuntura trova uno specialista certificato e poi digli che per il massimo sollievo dal dolore deve occuparsi dei punti “Ting” e “Gathering”. Lo dice uno studio della University of California di San Diego.
- Arnica: I gel topici prodotti con questa pianta riducono il dolore post workout fino a 3 giorni dopo l’allenamento (è una scoperta dei ricercatori australiani).
- Acqua: anche una leggera disidratazione può abbassare la soglia del dolore, così dicono gli studiosi giapponesi. Quindi più bevi più sopporti.
4. L'origine degli antidolorifici e la "lumaca di mare"
La morfina, inizialmente sintetizzata dal papavero da oppio in Germania all’inizio del XIX secolo, è stata prodotta massicciamente negli Stati Uniti a partire dagli anni Trenta dell’Ottocento.
Nel 1855 invece è stata inventata la siringa ipodermica, che ha permesso a tanti pazienti disperati di ottenere un immediato sollievo e che ha anche portato ad alcune dipendenze.
La morfina lega e attiva recettori specializzati che si trovano in abbondanza nei neuroni localizzati nel cervello e nella spina dorsale. Questi recettori sono la porta di accesso biochimica agli antidolorifici prodotti naturalmente dal corpo, ovvero le endorfine, una parola che nasce dall’unione e dalla contrazione di “endogeno” e di “morfina”.
Molto prima che i nostri antenati scoprissero i papaveri e i loro effetti, le endorfine fornivano agli uomini e agli animali l’energia necessaria per sopravvivere nei periodi di sfinimento.
Con la manipolazione chimica della morfina e di composti simili nascono antidolorifici sempre nuovi e sempre più efficaci, incluso il celebre (o famigerato) Oxycontin.
La FDA americana (Food and Drug Administration) di recente è stata criticata per aver ignorato le raccomandazioni dei suoi stessi esperti e per aver approvato lo Zohydro, una forma a rilascio graduale di idrocodone che equivale a due o tre dosi di Vicodin, che invece ha uno spettro di azione più limitato nel tempo.
Il vecchio idrocodone è sempre stato potente quanto basta, e anche troppo. È vero che riusciva a placare il dolore ma spesso provocava nausea, stordimento e costipazione.
Tra i suoi effetti collaterali c’è anche un’euforia da stupefacente. Il fatto è che ognuno reagisce in maniera diversa agli oppiacei: ad alcuni viene la nausea e un certo torpore, mentre altri diventano iperallerti e super attivi.
È importante che i medici siano consapevoli di queste differenze e le spieghino ai pazienti. E poi c’è il fatto che molti pazienti a forza di prendere antidolorifici sviluppano un’assuefazione quasi da droga.
Negli ultimi cinque anni i ricercatori hanno scoperto che la fisiologia del dolore è molto complessa. Ogni scoperta migliora l’efficacia degli antidolorifici, riducendo gli effetti collaterali e il rischio di dipendenza.
Migliorando la conoscenza dei meccanismi del dolore la ricerca può proporre analgesici migliori e nuovi modi per prevenire l’insorgere del dolore cronico. Un esempio è lo ziconotide, un farmaco il cui ingrediente attivo deriva dal veleno di una lumaca di mare (il gasteropode marino Conus magus).
La lumaca in questione inietta questa sostanza nei pesci, dove blocca selettivamente i canali del calcio a livello dei neurotrasmettitori, paralizzandoli.
Negli esseri umani però i nervi legati al dolore e quelli che comandano il movimento sono separati, quindi quando lo ziconotide viene iniettato nel midollo spinale impedisce ai segnali di dolore di salire lungo la schiena dorsale fino al cervello senza però bloccare i movimenti.
È mille volte più potente della morfina ma non provoca assuefazione. Ma allora perché non usiamo lo ziconotide? Il problema è la somministrazione. Se ingerisci una pastiglia di ziconotide l’ingrediente attivo deve essere processato dal sistema digestivo prima di entrare in circolo.
Le iniezioni ipodermiche non funzionano perché la molecola è troppo grossa per attraversare la barriera che protegge il midollo spinale. Per il momento l’unico modo per ottenere gli effetti desiderati è con un’infusione spinale.
Dobbiamo aspettare che i ricercatori trovino un metodo più veloce ed efficace per la sua somministrazione.
5. Il dolore è nella testa, non nella realtà
Come avrebbero reagito le altre persone al tuo dolore? L’avrebbero sopportato più stoicamente o si sarebbero lamentate ancora di più?
Secondo gli scienziati il dolore è qualcosa di molto personale e non ci sono due persone che soffrono allo stesso modo.
Il dolore è come l’amore o la paura: ognuno lo percepisce in maniera diversa ed è il cervello a determinare queste reazioni differenti. Partendo da questa teoria gli studiosi hanno identificato un’area del cervello, nella corteccia orbitofrontale laterale destra, che è coinvolta nella paura del dolore.
Ansia e depressione possono amplificare l’esperienza del dolore: questo succede in parte perché l’aspettativa di nuovo dolore attiva un’altra area del cervello, l’amigdala (nella foto), che a sua volta spinge l’organismo a combattere o scappare.
Il battito del cuore accelera e i muscoli si tendono, l’organismo rilascia nuove sostanze chimiche che ci rendono ancora più sensibili al dolore. È un circolo vizioso. Ma se è il cervello umano a farci sentire il dolore, allora il cervello può anche aiutarci a sfuggirne, trasformando il circolo vizioso in circolo virtuoso.
Eduardo Fontes, professore all’Università Cattolica di Brasilia, ha collaborato con Noakes allo sviluppo di un ergometro, una bicicletta stazionaria collegata a un generatore di carico e a una macchina fMRI per la risonanza magnetica funzionale.
Quando lo sforzo fisico aumenta si assiste a una diminuzione dell’attività nel lobo frontale del cervello. Nello stesso tempo aumenta l’attività nella legione limbica centrale, il quartier generale delle emozioni. Quindi quando siamo fisicamente stressati siamo meno razionali e più emotivi.
Se un atleta lascia che le sue emozioni abbiano il sopravvento durante una corsa molto lunga fallisce. Se invece riesce a restare calmo e freddo e andare avanti nonostante l’esaurimento fisico arriverà in fondo. Questa Central Governor Theory ha funzionato.
Nel 2008 Ryan Sandes di Cape Town, in Sud Africa, ha deciso di partecipare alla corsa nel Deserto del Gobi, una gara di 7 giorni e 250 km attraverso una delle regione più calde della terra.
Sandes non si era sottoposto a nessun allenamento specifico. Anzi, nella sua vita aveva partecipato a una sola maratona, per la quale si era allenato pochissimo. Ma conosceva il lavoro di Noakes e credeva molto in se stesso.
Sandes ha vinto la sua gara di debutto nel deserto del Gobi e si è classificato in ottima posizione anche in altre 4 gare della Desert Race Series, che si svolge in luoghi fisicamente impegnativi come il Sahara, l’Antartide e il deserto di Atacama in Cile. Adesso che è diventato un professionista Sandes inventa sfide sempre nuove per mettersi alla prova.
“So che certe volte starò così male che mi sembrerà di morire e avrò la tentazione di fermarmi ma posso superare questi momenti”, dice. “Se riesci a resistere a livello mentale, fisicamente non ci sono problemi. Ti rendi conto che ce la puoi fare. Il tuo corpo può farcela. Basta continuare a correre.”
Per Noakes questo ragionamento ha perfettamente senso. “Lo sconforto è nella testa, non nella realtà.”