Tra i primi 50 farmaci da banco più venduti in Italia nel primo semestre del 2022, 24 sono antidolorifici. Siamo colpiti da un’epidemia di dolori o siamo intolleranti verso qualsiasi forma di sofferenza fisica? Probabilmente la seconda.
Da tempo sociologi e antropologi sottolineano come la società occidentale abbia perso la capacità di tollerare il dolore fisico, ma in fondo anche quello psicologico. Nelle civiltà contadine del passato, la capacità di sopportare la sofferenza fisica era più elevata di oggi. Quelle società sorriderebbero dei dolori di cui ci lamentiamo noi oggi.
In altre parole, siamo sempre più fragili. «Oggi imperversa l’algofobia, una paura generalizzata del dolore», scrive il filosofo coreano Byung-Chul Han in La società senza dolore (Einaudi). «L’algofobia ha come conseguenza un’anestesia permanente. Si evita qualsiasi circostanza dolorosa».
Laddove il dolore nel mondo cristiano ha sempre avuto un significato alto, quello di lasciapassare per la vita eterna, oggi è solo un impiccio che ci impedisce di vivere come vorremmo: «L’esclusiva medicalizzazione e farmacologizzazione del dolore», aggiunge Han, «lo rende un male insensato da affrontare armati di analgesici».
Senza dolore, non ci preoccuperemmo per la nostra salute e non ci accorgeremmo di ferite e traumi. Eppure, i farmaci più venduti in Italia sono gli antidolorifici. A dimostrazione del fatto che almeno in Occidente la società moderna ha una paura eccessiva della sofferenza, percepita come un ostacolo che impedisce di vivere come si vorrebbe.
1. Non percepirlo è una malattia. Il corpo e la psiche
Eppure, il dolore ha un significato importante. Se è vero che nessuno sarebbe disposto a considerare un “dono” l’emicrania che ci assale nei momenti più sbagliati, il dolore resta un potente meccanismo ideato dall’evoluzione per segnalarci che qualcosa nel nostro corpo non sta funzionando.
Senza dolore, non ci preoccuperemmo per la nostra salute e non ci accorgeremmo di ferite e traumi. Esiste una patologia di origine genetica indicata come insensibilità congenita al dolore.
I bambini che ne soffrono si procurano ferite e automutilazioni perché non provano dolore. Così difficilmente raggiungono l’età adulta.
Il dolore è quindi un salvavita: lo spiegava Paul Brand, chirurgo britannico che dedicò la sua vita allo studio e alla terapia della lebbra, in India, e che fu autore, con il giornalista americano Philip Yancey, del saggio The gift of pain (Il dono del dolore), in cui illustrava la sua teoria del valore protettivo delle percezioni dolorose partendo proprio dai lebbrosi: i batteri che causano questa patologia possono condurre a un danneggiamento dei nervi, causa di insensibilità cutanea che giunge fino alla completa anestesia al dolore.
Quando ci facciamo male, la sensazione dolorosa registrata dai nocicettori – le apposite terminazioni dei neuroni sensoriali distribuite in tutto l’organismo – passa attraverso il midollo spinale e raggiunge la corteccia cerebrale. Qui viene elaborata: il dolore è infatti una percezione contemporaneamente fisica e psichica.
Non a caso l’International Association for the Study of Pain lo definisce un’esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole associata a danno tissutale. Il dolore comprende sempre una componente sensoriale e una emotiva.
Ce ne accorgiamo quando, di fronte a una sensazione dolorosa intensa, la psiche entra in allerta: scatta la paura e l’attenzione viene totalmente catturata dal dolore tanto da dimenticarci (o quasi) di ciò che avviene attorno a noi. Tuttavia alcune condizioni dolorose possono mostrare una spiccata componente emotiva, come accade nella fibromialgia.
In questa patologia, oggi in crescita, il dolore articolare associato a debolezza e stanchezza non sembra corrispondere a un reale danno alle articolazioni, che appaiono sane: si suppone che questo tipo di dolore abbia una componente psichica preponderante, pur essendo del tutto reale e non immaginario. Si calcola che tra il 30 e il 40 per cento dei fibromialgici abbia alle spalle abbandoni o abusi.
In un certo senso la fibromialgia può essere vista come una somatizzazione di un evento psichico traumatico.
2. Da dove viene e quanto ti fa male?
La psiche può contribuire a modulare la percezione dell’intensità di qualsiasi tipo di dolore: è dimostrato infatti che l’interpretazione che diamo della gravità della causa del dolore che proviamo ha un peso determinante.
Così, ad esempio, un paziente affetto da tumore percepisce un mal di schiena causato da una metastasi come più penoso di un mal di schiena della stessa intensità percepito da chi ha una semplice contrattura muscolare.
D’altro canto, vale anche l’opposto: il dolore è un’esperienza negativa che induce emozioni negative, quindi ha un impatto importante sullo stato psichico. Se si soffre per un lungo periodo, l’insorgenza di uno stato depressivo è praticamente scontata.
Secondo una metanalisi pubblicata nel 2003 dagli Archives of Internal Medicine, un qualche dolore fisico è riportato come sintomo nel 65 per cento dei soggetti affetti da depressione e non a caso l’aumento della sensibilità al dolore rappresenta un’avvisaglia precoce di questa condizione psichiatrica.
Del resto, studi recenti mostrano che nella depressione sono rilevabili le stesse alterazioni biologiche ravvisabili nei soggetti affetti da dolore cronico: specifici assetti ormonali e un incremento delle citochine proinfiammatorie circolanti, proteine responsabili tanto della flessione del tono dell’umore quanto del dolore collegato ai meccanismi infiammatori.
Quanto ti fa male? Quantificare l’intensità del dolore è complesso perché è un’esperienza soggettiva. Nonostante l’avanzare della medicina e delle neuroscienze, il solo modo che abbiamo per capire il dolore di un’altra persona è chiederle di valutarlo, ad esempio su una scala da 0 a 10.
Accanto alle scale numeriche, sono stati proposti altri sistemi per misurare il dolore in proporzione all’efficacia dei trattamenti antidolorifici. Ad esempio nei bambini, che mostrano una maggiore affidabilità nel descrivere il dolore che provano, si usano scale grafiche che fanno uso di “faccine” sorridenti e tristi per invitarli a dare un peso alla loro sofferenza.
3. Le parole per dirlo e questione di tolleranza
È anche complicato descrivere il tipo di dolore che proviamo. Proprio questa difficoltà ci spinge a impiegare una varietà di espressioni. Diciamo che un dolore è “sordo”, “trafittivo”, “pulsante”.
Così inafferrabile, lo definiamo quindi per mezzo di metafore e similitudini. Si tratta di analogie che richiamano esperienze comuni come quelle dellavista, dell’udito e del tatto.
Anche a scopo clinico si utilizzano questionari che usano criteri semantici di questo tipo: ad esempio il Questionario Italiano del Dolore (QUID) è costituito da una scala di intensità e da una semantica che impiega termini per descrivere la tipologia di dolore distribuiti in quattro classi principali: sensoriale, affettiva, valutativa e mista.
Si dice che alcune persone abbiano una soglia del dolore più alta o più bassa della media: in pratica, alcuni sopporterebbero il dolore meglio di altri. L’espressione è usata impropriamente: in realtà indica la minima intensità di dolore percepibile, uguale per tutti. Altro è la tolleranza al dolore, cioè quanto riusciamo a sopportarlo.
La tolleranza è individuale, e dipende da fattori di natura genetica, psicologica ma anche sociale. Ad esempio le reazioni emotive dei Paesi del Sud Europa sono maggiori rispetto al Nord Europa. In generale si può dire che i Paesi mediterranei sono più sensibili al dolore.
Perciò comprendere il dolore di un soggetto implica anche la conoscenza del contesto in cui vive. Come infatti spiega il sociologo e antropologo francese David Le Breton in Esperienze del dolore.
Fra distruzione e rinascita (Cortina), gli interventi per trattare il dolore non possono essere solo medici ma devono attingere a tutte le discipline e fare riferimento alle risorse dell’individuo nella sua globalità.
4. Tredici milioni di italiani soffrono di dolore cronico
Il dolore cronico è un’emergenza sanitaria nel nostro Paese, legata all’aumento della popolazione anziana e alla sempre maggiore diffusione di patologie di lungo corso.
Dati ISTAT riportano un 21,7 per cento di italiani affetti da dolore cronico, cioè circa 13 milioni di persone.
È definito così quando persiste per un periodo superiore a tre mesi, o per più di un mese dopo la risoluzione del danno fisico che lo causa o ancora quando si associa a una lesione che non guarisce.
Il dolore cronico ruba la vita delle persone e cambia la loro esistenza e quella di chi sta loro attorno. Nel 5 per cento dei casi a causarlo sono tumori, nel 95 per cento è prodotto da condizioni non maligne come emicrania, mal di schiena, patologie reumatologiche, fibromialgia e diverse neuropatie.
Mediamente passano 7 anni prima che il paziente si rivolga a un centro di terapia del dolore, periodo in cui si fa visitare da diversi specialisti senza arrivare a una soluzione.
Il dolore cronico richiede un intervento tempestivo per evitare conseguenze psichiche importanti: tra il 40 e il 50 per cento di chi ne soffre sviluppa depressione. Questa forma di dolore spinge infatti alla catastrofizzazione, cioè a pensare che la propria sofferenza è la peggiore mai sperimentata e che non migliorerà mai.
5. Come si cura il dolore? L’ipnosi aiuta davvero a sopportare il dolore
La terapia del dolore fa uso di varie strategie Occorre sempre un approccio multidisciplinare cucito su misura sul singolo paziente in funzione della tipologia di dolore di cui soffre.
Esistono infatti farmaci da assumere per bocca o in vena, infiltrazioni locali, la fisioterapia per le forme di dolore muscoloscheletriche e la psicoterapia.
Alcune condizioni causa di dolore cronico, come la fibro-mialgia, sono resistenti a qualsiasi terapia farmacologica. In questi casi la psicoterapia non consente di ridurre il dolore, ma insegna al paziente a conviverci.
Tra tutte le terapie, quella cognitivo-comportamentale è la migliore: permette ai pazienti di imparare strategie di deviazione dell’attenzione. Durante le sedute, cioè, si insegna loro a ignorare il dolore evocando immagini piacevoli oppure minimizzandolo e rendendolo così irreale.
L’ipnosi aiuta davvero a sopportare il dolore! Tecnica che accompagna l’umanità da 250 anni, l’ipnosi acquisisce nuovo interesse grazie alle scoperte neuroscientifiche che ne mostrano l’efficacia. Durante l’ipnosi il cervello diventa più duttile e ciò consente al terapeuta di aiutare il paziente a cambiare prospettiva nei confronti del suo dolore, del quale smette di essere vittima.
La terapia ipnotica del dolore necessita di sedute settimanali e di sessioni di autoipnosi che il paziente impara a eseguire. Che la tecnica funzioni è dimostrato anche da indagini effettuate con la risonanza magnetica: nel corso di una ricerca condotta all’Università dello Iowa (USA) è stata osservata una riduzione di attività delle aree del cervello connesse alla percezione del dolore.