Il grano: il cereale che decide le sorti del mondo

Quest’anno rischiamo di morire di freddo, ma non di fame. L’Apocalisse alimentare non ci sarà perché si annunciano raccolti record in Russia e in America.

È questa la tesi del libro appena uscito per Basic Books Oceans Grain: How American Wheat Remade the World, un saggio dello storico americano Scott Reynolds Nelson della University of Georgia estremamente utile per comprendere il nostro presente e anche il futuro, alla luce dei conflitti in atto tra Russia e Ucraina.

La questione del grano è infatti una sfida da inserire nel più ampio quadro della tensione tra Russia e Stati Uniti d’America, attori, come spiega l’autore del volume, di una diatriba storica che affonda le radici in un passato remoto.

Si tratta di una rivalità antica, che impatta in maniera significativa sul teatro geopolitico attuale e sullo scacchiere internazionale.

Il grano è il cereale sul quale si basa l’alimentazione di una quota rilevante della popolazione mondiale. Dall’Ottocento in avanti, Russia e Stati Uniti d’America hanno puntato ad aumentare le rispettive produzioni e si contendono i mercati, ma le conseguenze dei loro conflitti si riflettono sui prezzi, innescando speculazioni finanziarie a livello globale.

1. Il cereale più importante e più antico della scrittura

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Il dominio globale del grano è un tema universale e senza tempo. Il grano è il cereale per antonomasia, e fa da barometro alle tensioni internazionali.

Le ragioni sono molte. In primis, il grano costituisce la base dell’alimentazione di molti Paesi, soprattutto nella parte Nord del pianeta, è il cibo cardine degli aiuti internazionali e, al tempo stesso, è indicatore delle diseguaglianze mondiali.

Inoltre è un elemento che, da migliaia di anni, sta alla base delle relazioni tra governi centrali e territori periferici. Così fu nell’Antica Roma, che aveva i suoi granai nel Nord Africa e in Spagna o ancora prima, analogamente, per Atene e Asia Minore.

Facciamo un passo indietro per comprendere appieno il ruolo del grano nella civiltà umana. Nel 2018 un pool di ricercatori dell’Università di Copenaghen, dell’Università di Cambridge e dell’University College di Londra ha scoperto il pane più antico del mondo, una specie di piadina che risale a 14.400 anni fa.

Il ritrovamento è avvenuto nel Nord-Est della Giordania, nel sito di Shubayqa 1 (foto sotto), dove sono stati rinvenuti alcuni resti carbonizzati all’interno di un focolare.

Nello specifico, sono stati trovati piccoli legumi, frammenti di cereali selvatici – grano (Triticum boeoticum), orzo e avena – e oltre 600 resti macroscopici di cibo carbonizzato. Tra questi figurano 24 pezzettini di pochi millimetri l’uno con una struttura “a bolla”, tipica di un impasto a base di farina e acqua.

Si tratterebbe, con ogni probabilità, di briciole di pane. Le analisi suggeriscono che queste pagnotte preistoriche, piatte come focacce e dalle caratteristiche analoghe ad altre scoperte in altri siti di età neolitica, fossero di farina di cereali selvatici, ossia un grano antenato del monococco (quello che attualmente conosciamo come grano antico a basso tenore di glutine), segale, miglio, avena e setaria (una graminacea).

È anche probabile che l’impasto venisse cotto nelle ceneri del camino o su pietre roventi.

Questi antichissimi frammenti hanno permesso agli studiosi di ricostruire la complessa catena produttiva nata dalla farinazione delle graminacee che ebbe inizio nella Mezzaluna Fertile, regione storica mediorientale, quattromila anni prima di quanto precedentemente ritenuto.

Si pensa inoltre che l’aspirazione ad avere a disposizione questo tipo di cibo sia stata una delle molle verso la spinta alla domesticazione e coltivazione dei cereali.

È dunque assai probabile che l’agricoltura sia nata proprio con l’obiettivo preciso di mangiare il pane con la maggiore frequenza possibile.

2. La scelta di Caterina di Russia

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Nel suo libro lo storico Scott Reynolds Nelson racconta come il grano abbia sostenuto intere civiltà, dalla Cina all’Antica Roma fino agli imperi pre-colombiani.

Fu una risorsa gestita secondo regole autarchiche e logica militare, sostanzialmente sempre quelle di farne scorta per le armate imperiali, senza mai venderlo ad altri.

Il panorama cambiò in maniera sostanziale alla fine del Settecento quando la zarina Caterina II di Russia (foto in alto), fatta propria la neonata scienza dell’economica politica (fisiocrazia), “creò” Odessa, ossia trasformò quello che all’epoca si chiamava Khadjibey (foto sotto) ed era poco più di un fortino turco affacciato sul mar Nero, in una nuova grandiosa città dotata di sette porti. 

Nel 1794 Odessa diventò così un punto strategico per commercializzare i prodotti della regione: grano, cereali, mais, soia.

“Da quel momento” spiega Nelson nel suo saggio, “fu la base delle esportazioni di grano russo verso l’Europa e questo cereale entrò al servizio della geopolitica. Non serviva più, dunque, ‘soltanto’ a saziare il popolo e gli eserciti, ma era di strategica importanza per accumulare valuta estera e creare legami di dipendenza tra nazioni”

3. Oltreoceano

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A quei tempi l’America era già una potenza nel settore dell’agro business, anche se il suo potere economico si basava soprattutto sull’esportazione del cotone.

La diatriba sul grano con la Russia fu invece successiva. Erano gli anni della Guerra di Crimea in Europa (1853-1856) e della quasi contemporanea Guerra di Secessione (1861-1865) negli Stati Uniti.

Come sottolinea lo storico americano Daniel Immerwahr in un articolo pubblicato su The New York Review of Books, uscito nel luglio 2022, “lo zar Nicola fece l’errore di negare il grano ai suoi clienti”, con una mossa che ricorda l’attuale ricatto del gas di Vladimir Putin.

La Russia cessò infatti di esportare grano in Europa appena ebbe inizio la guerra di Crimea. L’effetto fu devastate: scoppiarono i “tumulti del pane” a Londra e sia i francesi sia gli inglesi compresero per la prima volta i rischi della pericolosa dipendenza dalla Russia.

Intanto la sconfitta degli Stati americani del Sud alla fine della Guerra di Secessione aveva trasformato le pianure del Midwest nel baricentro agricolo degli USA.

Alla fine dell’Ottocento l’assetto dell’esportazione del grano nel mondo cambiò: dal porto di New York partivano tonnellate e tonnellate di grano, mentre Odessa, al culmine della sua esportava quantità molto minori.

Da allora e durante tutta la Guerra Fredda (1947-1991), gli USA domineranno i mercati mondiali delle derrate alimentari, arrivando in alcuni momenti a salvare persino i russi dalla fame. L’America sembrava quindi aver stravinto.

La cosa è durata fino a Putin che non è certo riconosciuto a livello internazionale per le sue competenze economiche, ma ha portato la produzione di grano russo al primo posto nel mondo: 85,9 milioni di tonnellate, contro i 49,7 milioni degli USA.

4. Il prezzo e la speculazione

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Lo abbiamo visto recentemente e continuiamo a sperimentare quanto il grano sia legato alla geopolitica internazionale.

Basti pensare alle recenti parole di Putin circa il possibile blocco delle esportazioni di grano verso l’Europa.

Il balzo in alto del prezzo è stato repentino e ha continuato a restare su valori massimi, alimentando preoccupazioni internazionali e speculazioni.

Lo sottolinea l’analisi di Coldiretti, maggiore associazione di rappresentanza e assistenza dell’agricoltura italiana: le quotazioni sono arrivate a superare i 9 dollari per bushel (27,2 chili) al Chicago Board of Trade dopo l’ordine della mobilitazione militare parziale in Russia nello scorso settembre con il richiamo di300mila militari della riserva.

Una situazione che ha alimentato l’interesse della speculazione per il mercato delle materie prime agricole, spostandolo da quello dei metalli preziosi come l’oro.

Le quotazioni dipendono infatti sempre meno dall’andamento reale di domanda e offerta e sempre più dai movimenti finanziari e dalle strategie di mercato incentrate su contratti derivati future, che permettono di investire, acquistando e vendendo solo virtualmente il prodotto, a danno degli agricoltori e dei consumatori.

La prova è che, nonostante il crollo dei raccolti fino al –30 per cento abbia limitato la disponibilità di grano in Italia, in questo momento viene sottopagato agli agricoltori (intorno ai 47 centesimi al chilo) costretti a produrre in perdita a causa dei rincari record: +170 per cento dei concimi al +129 per cento per il gasolio.

La guerra ha dunque moltiplicato manovre speculative e pratiche sleali sui prodotti alimentari, aggravando una situazione che già vede il nostro Paese dipendente dalle importazioni straniere per il 44 per cento del grano duro per la pasta. Solo per questo alimento le famiglie italiane spenderanno nel 2022 quasi 800 milioni di euro in più rispetto al 2021.

Lo dice sempre Coldiretti sulla base di dati Istat fotografando gli effetti dell’aumento dei prezzi del prodotto alimentare più presente sulle tavole degli italiani.

«Un conto che grava soprattutto sulle famiglie più povere dove la pasta ha una incidenza più elevata sulla spesa quotidiana».





5. L’Africa pagherà il prezzo maggiore del conflitto russo-ucraino

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Chi fa maggiormente le spese della crisi russo-ucraina e della questione del grano? I problemi alimentari non dipendono dalla carenza di cibo sul pianeta, ma dalla sua distribuzione.

In Africa, in conseguenza della guerra in Ucraina, il prezzo del pane è schizzato alle stelle e decine di milioni di poveri tornano a convivere con l’incubo di una carestia.

Il prezzo del grano – di cui Mosca e Kiev assicurano un terzo delle esportazioni mondiali – ha sfondato ogni record (supera i 500 euro a tonnellata) e i contraccolpi sono pesanti: l’anno scorso i Paesi subsahariani hanno importato cereali e beni alimentari dalla Russia per 4 miliardi di dollari e dall’Ucraina per 3 miliardi.

La situazione è particolarmente delicata in Nord Africa, la regione che più dipende dalle importazioni di cereali e che già in passato ha vissuto sommosse e sanguinose repressioni.

Torneremo alle primavere arabe del 2011 visto che il filo rosso di molte rivolte di piazza dalla Tunisia all’Egitto fino al Medio Oriente era dettato anche dal prezzo del pane?

Non se la passa meglio neppure l’Africa subsahariana, dove il prezzo dei fertilizzanti e degli idrocarburi determina un aumento insostenibile dei costi di produzione agricola, soprattutto in Paesi come la Costa d’Avorio e il Sudafrica.

Secondo uno studio della Banca africana di sviluppo (AFDB) pubblicato a fine maggio 2022, il continente africano perderà fino a 11 miliardi di dollari di cibo a causa del conflitto in Europa occidentale.








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