Albert era un bambino sano e tranquillo di otto mesi. Era il figlio di una balia che allattava e curava gli infanti invalidi alla Phipps Clinic presso la Johns Hopkins University di Baltimora.
Correva l’anno 1920 e il piccolo divenne il protagonista di un esperimento destinato a fare la storia, orchestrato dallo psicologo John Watson e dalla sua assistente Rosalie Rayner.
Ad Albert venne mostrato un topo bianco con cui da subito cercò di interagire. Ogni volta che lui si avvicinava alla cavia, però, Watson colpiva con un martello una barra di acciaio producendo un rumore sordo che, inevitabilmente, lo spaventava.
E così il piccolo associò la vista del topo a quel suono frastornante e finì con l’avere il terrore del roditore. Ma non solo. Albert cominciò ad aver paura di molti altri animali, come conigli e cani, e di tutto ciò che era “peloso”, come cappotti, pellicce e persino la maschera di Babbo Natale con la barba.
Questo studio che a noi oggi fa venire la pelle d’oca per le implicazioni etiche, di cui all’epoca non ci si preoccupò minimamente, durò circa un anno e dimostrò due cose fondamentali sulla genesi delle fobie: alcune nascono dall’associazione tra un oggetto o una situazione e un’esperienza negativa intensa; le fobie sono “contagiose”, e tendono a diffondersi ad altri oggetti o situazioni simili.
Un’inspiegabile e persistente repulsione nei confronti di oggetti, situazioni e animali. Così è la fobia, che colpisce almeno una persona su dieci. Ecco come nasce e quali sono le nuove frontiere della cura.
1. Un terrore ancestrale
La prima cosa da sottolineare è che "fobia" e "paura" sono concetti diversi.
"La fobia è una paura eccessiva, che induce una reazione esagerata rispetto alla pericolosità dello stimolo scatenante”, ha precisato Giampaolo Perna, Professore Straordinario di Psichiatria, Humanitas University (Milano), responsabile del Centro dei Disturbi d’Ansia e di Panico, Humanitas San Pio X (Milano), e autore di diversi libri tra cui Piccole e Grandi Paure (Piemme editore).
“La paura vera e propria invece è un’emozione normale, sana, fondamentale. Essa ci carica fisicamente e mentalmente per combattere o fuggire dai pericoli che incontriamo e attiva gli altri meccanismi di difesa come l’ansia anticipatoria e i comportamenti di evitamento.
Aver paura degli estranei da piccoli, del fuoco o delle malattie, sviluppare cioè una sana ansia anticipatoria verso questi stimoli, ci aiuta a sopravvivere e a difenderci. Quando però la paura si ingigantisce a tal punto da condizionare la vita, ecco che entriamo nel regno delle fobie”.
Di queste ultime se ne contano un migliaio che, secondo il DSM-5, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (la “bibbia” degli psicologi), coinvolgono in media tra il 7 e il 9 per cento della popolazione mondiale. In Italia si calcola una prevalenza del 10 per cento di individui che hanno avuto una fobia specifica nel corso della vita.
Ma è una stima per difetto perché bisognerebbe aggiungere tutte quelle persone che non hanno il coraggio di parlarne e quelle che non sanno di soffrirne (per esempio, chi abita in campagna potrebbe non scoprire mai di essere terrorizzato dalla metropolitana perché non l’ha mai presa).
Le fobie più comuni sono quelle legate a situazioni ancestrali di pericolo. “I ragni, il buio, i serpenti, i predatori, le altezze, gli spazi aperti sono esempi di stimoli innati a cui il nostro cervello è programmato a reagire con paura fin dalla nascita. Pistole e automobili, per contro, ben più pericolosi rispetto ai primi nella società moderna, per diventare oggetti di timore devono essere stati vissuti direttamente come minacciosi per la nostra vita”, chiarisce Perna.
Per esempio trovarsi semplicemente di fronte a una tarantola può scatenare una forte reazione di paura, che invece non provoca la vista di una vettura. Ma se si è stati vittime di un grave incidente con la macchina le cose cambiano e può innestarsi una paura verso le auto.
“È come se le fobie innate fossero nel nostro hardware e quelle apprese nel software”, sintetizza Perna. In sostanza, nel cervello, non siamo tanto diversi dagli esemplari di Homo sapiens di 30mila anni fa che dovevano difendersi dalle tigri con i denti a sciabola.
L’aracnofobia (foto sotto) è una delle fobie più diffuse nel mondo. Questo perché la vista di un ragno scatena una reazione innata di paura, che ci accompagna da migliaia di anni. Accade anche con i serpenti, il vuoto, le altezze, gli spazi aperti, i luoghi chiusi e i predatori.
2. Paure di ogni genere e viaggio nella mente
In generale le fobie possono essere classificate in due macro categorie: le fobie semplici o specifiche e le fobie complesse.
Le prime riguardano un particolare oggetto, un animale, una situazione o un'attività; spesso si sviluppano durante l’infanzia o l’adolescenza e possono attenuarsi con l’età.
Le seconde tendono a emergere da adulti. Tra queste le più comuni sono l’agorafobia (paura degli spazi aperti) e la fobia sociale (un disturbo che si caratterizza per una forte ansia anticipatoria con reazioni di paura per il timore eccessivo degli altri e del loro giudizio).
"Ma ci sono anche paure a dir poco sorprendenti, come quella dei colori accesi, dell’ombra, dei baci, delle verdure, della simmetria, dei polli, della carta, del numero 8, dei ponti o dei cucchiai”, racconta Gianluca Bavagnoli, autore insieme ad Andrea Q de II grande libro illustrato delle fobie.
"Fino a toccare l’inverosimile con rhippopotomonstrosesquipedaliofobia, un vocabolo quasi impronunciabile che significa paura delle parole lunghe”. A volte, come si è visto nel caso del piccolo Albert, sono innescate da un “trigger”, un trauma specifico, altre sono evolutivamente presenti in ogni essere umano e si sviluppano quando il soggetto soffre di una certa vulnerabilità emotiva.
Una caratteristica che accomuna tutte le fobie è il fatto di essere incredibilmente condizionanti. Chi ne è colpito non riesce a dominare la paura attraverso il ragionamento. Gli effetti sono paralizzanti: vertigini e stordimento; nausea; sudorazione; tachicardia; mancanza di respiro; tremore; disturbi di stomaco.
“C’è poi una famiglia di fobie che ha sintomi diversi dalle altre. Si tratta di quelle legate al sangue, alle iniezioni e alle ferite. In questi casi si attiva la cosiddetta reazione vago-vagale: la persona che ne è colpita ha un calo della pressione sanguigna, un rallentamento dei battiti del cuore e può addirittura svenire”, precisa Perna.
Ma cosa accade nel cervello? “Di fronte all’oggetto fobico si innestano meccanismi che agiscono sotto il livello della coscienza”, dice Raffaella Zanardi, psichiatra dell’IRCCS Ospedale San Raffaele Turro.
“Il substrato biologico responsabile dell’innesco della fobia sembra comprendere diverse strutture: l’ipotalamo (nella zona centrale interna ai due emisferi cerebrali), che è l’esecutore delle emozioni; l’amigdala (un complesso nucleare situato nella parte dorso-mediale del lobo temporale del cervello), che orchestra le emozioni; il corpo striato (una componente sottocorticale del telencefalo), che si attiva quando si formano le abitudini e, infine, la corteccia insulare (una porzione evolutivamente antica della corteccia cerebrale tra il lobo temporale e il lobo frontale), che traduce queste emozioni in una consapevolezza cosciente.
A un livello gerarchicamente e filogeneticamente superiore, la corteccia prefrontale valuta invece l’appropriatezza delle risposte emotive e coordina l’attività di amigdala e striato”.
In generale l’interpretazione emotiva precede quella cognitivo-razionale, che interviene in un secondo momento. Molte ricerche hanno dimostrato che nel cervello di chi soffre di fobie l’amigdala diventa iper-reattiva e prende il sopravvento, innescando risposte esagerate anche di fronte a stimoli irrisori.
Ciò è particolarmente evidente negli studi che sfruttano le tecniche di Risonanza magnetica funzionale (o fMRI) nei quali viene “fotografata” la risposta emotiva di un soggetto di fronte all’oggetto fobico: in queste istantanee l’amigdala e altre strutture cerebrali profonde sono “accese”.
3. Ritrovare la libertà
Non bisogna però disperare, perché le fobie si curano. La strada maestra è quella della terapia cognitivo-comportamentale (Cognitive- Behavioural Therapy, CBT).
Essa si concentra sul rapporto stimolo-risposta: mediante una ripetuta e progressiva esposizione alla ‘paura’ stessa, si sollecita la naturale plasticità del cervello che gradualmente associa allo stimolo fobico l’assenza di una reale conseguenza negativa. Semplificando, il cervello impara a riconoscere un determinato oggetto o una situazione come non pericolosi e quindi spegne la sua risposta di allerta.
L’efficacia di questo trattamento è stata confermata in una recente review (Recent developments in the intervention of specific phobia among adults: a rapid review) pubblicata nella piattaforma F1000 Research che analizza i risultati di 33 studi diversi effettuati dal 2014 alla fine del 2019.
Con le tecniche di neuroimaging è possibile notare che dopo il trattamento si spengono i circuiti emozionali e si attiva solo la corteccia occipitale. In sostanza un aracnofobico di fronte a un ragno vede ‘solo’ un ragno senza che si scatenino gli effetti della fobia.
Alcune fobie, per esempio quelle complesse, sono un “osso più duro” e richiedono, oltre alla terapia psicologica, anche quella farmacologica. In genere si tratta di benzodiazepine, beta-bloccanti e antidepressivi classici, ma la ricerca sta facendo passi avanti anche in altre direzioni: “Una nuova arma potrebbe essere la D-cicloserina, uno storico farmaco antitubercolare che ha già dimostrato una grande capacità di potenziare l’effetto della psicoterapia comportamentale”, racconta Perna.
Pare infatti in grado di facilitare l’attività dei recettori NMDA per il glutammato, che giocano un ruolo essenziale nella plasticità sinaptica alla base dell’apprendimento di estinzione e nel consolidamento della memoria.
Un’altra frontiera interessante è l’applicazione della realtà virtuale. In laboratorio viene ricreato lo stimolo fobico per permettere al paziente di affrontarlo prima in un ambiente sicuro, per poi gestirlo anche nella vita reale. Una volta indossati gli occhiali 3D potrà “guardare in faccia” la sua paura affiancato però dal proprio terapeuta.
Quale che sia la terapia scelta, dopo aver ottenuto la libertà dalla morsa di queste paure paralizzanti, è importante continuare a “giocare in difesa”, pronti a captare l’insorgere di nuove fobie. La sofferenza ci cambia e la rinascita ancor di più. Uscire dalla gabbia di una fobia ci trasforma ed è nostra responsabilità essere capaci di osservare la quotidianità con occhi nuovi.
4. Fobie e Covid-19: c'e correlazione?
Pulizia, distanze di sicurezza, utilizzo dei dispositivi di protezione individuale. Oggi prendere precauzioni per evitare il diffondersi del contagio da Covid-19 è un imperativo.
Senz'altro però la percezione di un pericolo diffuso è altamente condizionante e può alimentare stati ansiosi anche in persone che non ne hanno mai sofferto. L'emergenza pandemia potrebbe quindi far emergere delle forme di psicopatologia latenti?
Esiste la paura che è un sentimento fisiologico che si genera a causa di eventi pericolosi, non previsti e non prevedibili, e poi c'è la fobia, che è la trasformazione irrazionale della paura. Covid-19 porta con sé molti elementi di incertezza intrinsechi alla mancanza di conoscenza del virus e ciò potrebbe condurre all'evoluzione della paura in fobia.
A rischio c'è una popolazione già nota agli esperti, che ha una predisposizione propria espressa in era pre-Covid-19 a cui si aggiunge una quota di soggetti, in genere anziani, che sta vivendo episodi di angoscia di difficile gestione con frequenti ricorsi a cure specialistiche.
Da sottolineare che l'approccio terapeutico in questo caso non è quello canonico di stimolare nel paziente una 'reazione controfobica', smontando cioè la fobia e razionalizzandola, ma di invitarlo all'utilizzo di modalità di prevenzione e presidi perché è rassicurante in termini emotivi.
Ci sarà poi il momento in cui si saprà molto di più su Covid-19 e quindi verrà meno il tema dell'incertezza da cui scaturiscono tante psicopatologie e allora le fobie legate a questa malattia si potranno curare come le altre.
La vera emergenza di questo periodo però non è data tanto dalle fobie che si possono sviluppare quanto dall'aumento di persone che, in gravi difficoltà emotive ed economiche, potrebbero tentare il suicidio o comunque mettere in atto dei gesti autolesivi.
Per Raffaella Zanardi, psichiatra deU'IRCCS Ospedale San Raffaele Turro, invece, non c'è alcuna relazione fra emergenza sanitaria e nuove fobie.
"In questi mesi ho lavorato nei reparti Covid del San Raffaele e visitato pazienti in qualità di psichiatra sia a Milano sia a Lodi e non ho riscontrato alcun aumento di fobie da contaminazione.
D'altra parte il meccanismo che viene stimolato è diverso da quello delle fobie. È un circuito cosciente. La pandemia esiste davvero, le conseguenze sono davanti agli occhi di tutti e il concetto viene elaborato direttamente dalla corteccia prefrontale, come risposta a un reale pericolo. Quindi siamo nell'ambito di una paura fisiologica".
5. Paura di volare. Come vincerla per ritrovare la libertà
Alzi la mano chi ha paura, anzi il terrore di volare. In Italia, secondo un recente sondaggio realizzato da Eurodap (Associazione europea disturbi attacchi di panico) in una platea di 100 persone, ben 60 la alzerebbero.
Questo dato afferma che oltre la metà della popolazione italiana soffre di "aerofobia” o "aviofobia". E non importa che in media si verifichi un incidente ogni milione e 600mila voli e che sia cento volte più pericoloso viaggiare in auto. La paura non conosce ragioni.
Elaine Iljon Foreman, psicologa clinica con quarantanni di esperienza nel trattamento delle aerofobie, spiega nel suo sito (https://freedomtofly.biz) che il senso di perdita del controllo è doppio: riguarda la perdita del controllo di sé, con eventuali attacchi di panico o effetti ancora più gravi, e l'idea di non poter fare nulla nel caso in cui, per un evento esterno, dovesse verificarsi un problema in volo.
L'aerofobia colpisce anche coloro che volano di frequente per questioni di lavoro o per situazioni personali. Sull'aereo vengono colpiti da sudorazione improvvisa, nausea, vertigini, claustrofobia, attacchi di ansia.
Date le dimensioni del fenomeno molte compagnie aeree hanno istituito corsi specifici per vincere questa fobia. Quello di Alitalia si chiama "Voglia di volare" (http://vogliadivolare.alitalia.it/). Dal 1997 è stato frequentato da oltre 2mila persone e ben il 93 per cento si è detto soddisfatto.
Si svolge nell'arco di un weekend durante il quale viene affrontato l'aspetto psicologico della paura. Poi un comandante spiega gli aspetti più tecnici, rispondendo a ogni dubbio, e si entra quindi in un simulatore di volo professionale. Ultimo step è un vero volo sulla tratta Milano-Roma e ritorno.
Lufthansa ed AirDolomiti organizzano seminari di gruppo (https://paura-di-volare.it) sempre di due giorni, mentre Easyjet propone un corso online (www. fearless-flyer.com) creato dal celebre esperto di paure e fobie, Lawrence Leyton.
Ci sono poi molte altre realtà private che si occupano di aerofobia. Fabio Ghirardelli psicologo e psicoterapeuta ha ideato qualche anno fa il corso "Vincere la paura di volare" (www.vincerelapauradivolare.it) che si tiene presso il Centro Simulazioni Volo FSC (Fight Simulator Center) a Limena (PD).
"Nella parte teorica si impara a conoscere a fondo questa fobia, guardandola dritta negli occhi", ci racconta.
"In questo modo, si riesce ad affrontarla meglio nel simulatore di Limena. Poi ipartecipanti hanno la possibilità di fare fino a tre voli aerei, andata e ritorno, nel giro di tre settimane, sempre accompagnati dallo staff di psicoterapeuti. Più che corso mi piace chiamarlo percorso di libertà".