La prossima locomotiva del pianeta?
Non sarà più la Cina ma l’India: diventerà la nazione con più abitanti al mondo.
Al terzo posto ci sarà la Nigeria: sarà molto più popolata degli Usa, dove, nel frattempo, gli immigrati latino-americani, asiatici e africani saranno più dei “bianchi” europei.
E Israele? Dovrà scendere a patti coi palestinesi, che nel frattempo saranno diventati più numerosi di loro. E lo stesso dovranno fare i turchi con i curdi.
Come cambieranno gli equilibri dei popoli nel 2050 e oltre? Scopriamolo insieme.
1. Mezzo figlio
Nel 2050, il mondo potrebbe essere molto diverso da oggi.
E non è fantapolitica: sono alcuni degli scenari che i demografi considerano più probabili se proseguiranno le tendenze in atto già ora.
Ma che cos’è la demografia, e a cosa serve? È lo studio delle popolazioni: ne osserva l’andamento (nascite, morti, migrazioni) e le caratteristiche (età media, fecondità, speranza di vita).
Con la demografia, che ha solo 2 secoli di vita, si possono capire quali sono le cause che ci spingono ad avere (o no) figli, quali fattori fanno variare la mortalità, che cosa causa le migrazioni...
Insomma è sulla base di questi dati che si può capire il presente e prevedere il futuro, e scegliere interventi su misura.
Un contributo più che mai importante, oggi, dato che la Terra è a un bivio: «Un calo di mezzo figlio per donna nel tasso di fecondità ci riporterebbe a 6 miliardi di persone entro la fine del secolo; un aumento di mezzo figlio ci porterebbe a 16», avverte il saggista Alan Weisman in "Conto alla rovescia" (Einaudi).
Troppi? Prima di rispondere a questa domanda, occorre farne un’altra: quanti saremo davvero nel 2050? E nel 2100? In meno di un secolo, la Terra ha più che triplicato i propri abitanti, passando da 2 miliardi (nel 1927) a 7 (dal 2012).
Oggi, però, questa crescita esponenziale è rallentata: rispetto agli Anni ’70, il tasso di incremento della popolazione si è quasi dimezzato.
Tanto che alcuni scienziati, come Jorgen Randers, docente di Strategia climatica a Oslo, prevedono un “alleggerimento” del pianeta: «Quando la maggior parte delle persone sarà urbanizzata, avere molti figli non sarà più un vantaggio», scrive in "2052, rapporto al club di Roma" (edizioni Ambiente).
«Le famiglie povere faranno meno figli. La popolazione globale inizierà a decrescere dell’1% l’anno, avrà un picco a 8,1 miliardi nel 2040 per riportarsi a 7 miliardi entro il 2075. E l’aumento del numero di anziani sarà compensato dalla riduzione del numero di bambini». Andrà davvero così?
2. A un bivio
Secondo la Divisione popolazione dell’Onu, la previsione “di mezzo” – la più accreditata – dice che passeremo dagli attuali 7,3 a 9,7 miliardi entro il 2050.
E nel 2100 arriveremo a 11,2 miliardi. Un aumento consistente rispetto alle stime di Randers: ma perché le previsioni sono così diverse?
Perché le variabili in gioco sono tante: anche il progresso tecnologico, l’allungamento della vita, le crisi economiche, il clima, le guerre o le epidemie influenzano la crescita del pianeta. Insomma, la Terra è a un bivio.
E l’ottimismo non sembra fondato. Quasi la metà del mondo ha un tasso di fecondità inferiore a 2 figli per donna. Ma all’altro estremo, 1 miliardo di persone (quasi tutte in Africa), ha una fecondità di 5 o più figli per donna.
Se i livelli di fecondità rimanessero invariati, si creerebbe una dinamica insostenibile: i Paesi ricchi in calo demografico, e quelli poveri con un boom di nascite». E allora: può il nostro pianeta accoglie altri 2,4 miliardi di persone da qui al 2050?
Negli ultimi 10mila anni la Terra si è ristretta di mille volte: se nel Neolitico ogni terrestre aveva a disposizione 13 km2, fra 35 anni ne avremo 0,015.
Va detto, per inciso, che con una densità pari a quella di Singapore, i quasi 10 miliardi di persone previste nel 2050 potrebbero vivere concentrate in Francia, Spagna e Italia, lasciando deserto il resto del mondo.
Ma al di là del minor spazio disponibile, la crescita di popolazione inquieta per i suoi effetti sul pianeta: un rischio che è sottovalutato.
Negli Anni ’60, alcuni studiosi avevano lanciato un allarmismo irresponsabile, parlando di “bomba demografica”, di catastrofi imminenti.
Oggi, però, siamo caduti nell’errore opposto: si considera l’andamento della popolazione mondiale come ininfluente, o quasi, per la sostenibilità dello sviluppo.
Ed è una posizione altrettanto irresponsabile: non possiamo non preoccuparci dei 3-4 miliardi di persone in più che dovremo nutrire, vestire, alloggiare, istruire e avviare al lavoro prima della fine del secolo.
E avranno un notevole impatto sull’ambiente. Questa crescita implicherà maggior consumo del suolo per costruzioni e coltivazioni, maggior consumo d’energia e di risorse non rinnovabili, più gas serra nell’atmosfera, maggiore inquinamento di fiumi, laghi e mari....
3. Impronte diverse
L’impatto dell’uomo sul pianeta, la sua “impronta ecologica”, non dipende però solo dal numero di abitanti.
Crescita economica e demografica hanno aumentato, ciascuno per il 50%, i gas serra (CO2).
Ma da sola la spinta demografica non innalza i gas serra: lo fa solo nei Paesi ad alto reddito.
Tra il 1980 e il 2005, i Paesi ricchi hanno contribuito per il 7% alla crescita della popolazione mondiale, ma per il 29% a quella dei gas serra, mentre quelli a basso reddito hanno concorso per il 52% alla crescita demografica e solo per il 13% alle emissioni.
In pratica, 10 occidentali inquinano più di 150 indios dell’Amazzonia. In futuro, però, lo scenario potrebbe invertirsi: i Paesi poveri potrebbero inquinare più di quelli ricchi. Infatti, se è vero che questi ultimi consumano più risorse, è altrettanto vero che hanno potenziato il riciclaggio, il risparmio energetico, la digitalizzazione.
E la loro popolazione cala o resta stazionaria, con un declino dei consumi. Nei Paesi poveri, invece, il prodotto pro capite potrà accrescersi di 2, 3 o più volte, e questo implicherà più ferro per utensili, più fibre per vestirsi, più legname per costruire, più spazio per vivere e più energia.
Considerando che in pochi anni queste popolazioni saranno aumentate di 3 miliardi, è facile capire che questa crescita, pur indispensabile, non può essere sostenuta a lungo.
Se nulla cambiasse, le risorse necessarie dovrebbero triplicare; se alla crescita dei Paesi poveri corrispondesse una decrescita di quelli ricchi, il consumo di risorse aumenterebbe “solo” del 43%.
Nelle società povere, l’impatto della crescita economica e della popolazione sull’ambiente sarà assai pesante, se non insostenibile, nei prossimi decenni.
Dunque, se si vuol ridurne l’impatto sul pianeta, occorrono più investimenti in tecnologia nei Paesi poveri. Che, oltretutto, non soffrono solo per l’arretratezza tecnologica: il loro sviluppo è frenato dalla povertà, dalla fame e dalle malattie.
Per sconfiggere l’Aids, la malaria e la Tbc bisognerebbe investire 8 miliardi: una spesa inarrivabile? No. Equivalgono a 1/4 delle esportazioni di armi nel mondo.
4. Un pianeta in movimento
Ma, soprattutto, occorre frenare la crescita demografica.
Nell’Africa subsahariana, se la fecondità restasse uguale, la popolazione triplicherebbe entro il 2050 (da 0,96 a 2,75 miliardi).
Se invece la fecondità declinasse dagli attuali 4,8 figli per donna a 2,6, nel 2050 (come previsto dalla variante “bassa” dell’Onu) la popolazione si limiterebbe a raddoppiare, da 0,94 a 1,92 miliardi.
In ogni caso, fra le 10 nazioni più popolate nel 2100, metà saranno africane: Nigeria, R. D. Congo, Tanzania, Etiopia, Niger. Oggi, però, su 144 Paesi in via di sviluppo, solo in 29 (il 20%) è ammessa l’interruzione di gravidanza.
E spesso i contraccettivi non rientrano fra le abitudini dei Paesi poveri: «Abbassare la fecondità è una priorità attuabile se si vuole uno sviluppo sostenibile. In Rwanda e in Etiopia, le politiche di contenimento delle nascite sono state efficaci.
L'anno scorso, solo via mare, è approdato in Europa poco più di 1 milione di migranti (153mila in Italia). È stato l’effetto delle guerre in Siria, Afghanistan e Iraq, Paesi da cui proviene oltre un migrante su tre.
E se si aggiungono gli arrivi via terra (non quantificati) e i migranti “regolari” per motivi di studio o di lavoro (2,3 milioni, ultimi dati disponibili), si può stimare che l’anno scorso il Vecchio Continente abbia accolto in tutto 3,5 milioni di immigrati extraeuropei: quanto l’intera città di Berlino.
È innegabile, comunque, che gli spostamenti di massa creino problemi enormi: innanzitutto, ai diretti interessati.
Dal 2000 a oggi, i migranti internazionali morti nel tentativo di raggiungere un altro Paese sono stati 40mila, quanto la popolazione di Imperia (3.771 nel Mediterraneo l’anno scorso), e per ogni decesso accertato ce ne sono almeno due sconosciuti.
E poi ci sono gli effetti sui Paesi di destinazione: ingressi clandestini, traffici umani, incompatibilità culturali, saturazione del mercato del lavoro, rischio di infiltrazioni criminali o terroristiche.
Ecco perché molti Stati ergono barriere: quella al confine ungherese è una delle 15 esistenti al mondo. La più lunga è quella di quasi tremila chilometri fra Sudafrica e Zimbabwe; mentre altre, ancora più estese, sono in costruzione fra Stati Uniti e Messico, e fra India e Bangladesh.
Eppure, avvertono gli economisti, invece di costruire barriere molti Paesi dovrebbero aprire le porte ai migranti, se vogliono salvare il proprio sistema pensionistico e assistenziale.
È grazie alle tasse pagate dagli immigrati, infatti, che l’Europa compensa il calo demografico. Nel Vecchio Continente, cioè, si fanno sempre meno figli: oggi, in media, dice un rapporto Ue, ci sono 4 persone che lavorano per ogni pensionato; nel 2050 saranno solo due.
Senza gli immigrati, la popolazione italiana scenderebbe dagli attuali 60,68 ai 45 milioni del 2050. Avremmo tasse più alte e pensioni più basse, e lo Stato sociale è a rischio, visto che l’età media si allunga. Che fare? Limitare le nascite è relativamente facile.
Ma farle aumentare è molto difficile. E così gli immigrati diventano un’ancora di salvezza: l’agenzia economica Bloomberg stima che, per mantenere in piedi il suo sistema pensionistico, l’Europa avrà bisogno di 257 milioni di abitanti in più entro il 2060.
5. Meno figli.. E l'Italia?
Ben più complicato, invece, spingere le persone a fare più figli: occorre garantire più lavoro e più parità alle donne, e più autonomia ai giovani.
Ma in tempi di tagli ai bilanci pubblici sono obiettivi difficili: in Russia, per esempio, il crollo del prezzo del petrolio potrebbe mettere a rischio la politica di incentivi per le famiglie numerose.
Se non si interviene, i Paesi ricchi faranno sempre meno figli e continueranno a spopolarsi (l’Europa perderà 93 milioni di abitanti entro fine secolo), attirando immigrati dalle nazioni povere.
E nel frattempo, saremo sempre più vecchi: l’età mediana mondiale (il valore che divide la popolazione in 2 gruppi di ugual numero), oggi intorno ai 30 anni, salirà a 42 nel 2100.
Nei Paesi ricchi l’aspettativa di vita salirà da 70 a 83 anni, e gli over 60enni raddoppieranno, passando dal 12,2% al 28,5% della popolazione mondiale, rischiando di mandare a gambe all’aria l’assistenza sanitaria e i sistemi pensionistici.
Le spese del welfare saliranno, e con queste le tasse, col rischio che la sanità (e la longevità) diventino un’esclusiva dei ricchi. Senza contare le pesanti ricadute sul lavoro: saturazione del mercato, disoccupazione e slittamento dell’età pensionabile.
Ecco perché, nei Paesi ricchi, diventerà cruciale il ruolo degli immigrati, giovani e in età da lavoro. Sono questioni delicate.
Ma restano in ombra perché la comunità internazionale è condizionata dal consenso: nessuno vuole scontentare questo o quel Paese, questo o quel dogma religioso... Ma così non si affrontano i problemi. E lo sviluppo sostenibile della Terra diventa un miraggio.
E l'Italia ha già perso 150mila abitanti!!! Un Paese di anziani. Così l’Onu dipinge l’Italia nel 2100: la popolazione scenderà dagli attuali 60,7 a 49,6 milioni di abitanti (–18%). Risultato?
Un Paese con pochi giovani ha un’economia stagnante. In più le pensioni e il welfare sono alimentati da meno persone in età lavorativa. I sintomi sono evidenti già oggi: nel 2015 si è registrato un calo record nelle nascite, scese sotto il mezzo milione.
Questo, unito al calo di immigrati (20-30mila: l’Italia non attrae più come un tempo), all’aumento di emigranti all’estero (i giovani: la “fuga di cervelli”) e a un’impennata di morti (+68mila rispetto al 2014), hanno ridotto la popolazione italiana di 150mila abitanti.
Quanto l’intera città di Rimini. Un “buco” che non si vedeva dalla Prima guerra mondiale, avverte il sito Neodemos.info. Cosa è successo? I morti sono aumentati anche in Francia, Spagna e Regno Unito.
Forse è stato l’effetto di un inverno rigido e di un’estate torrida soprattutto sugli anziani.