Il Risorgimento fu uno dei periodi più gloriosi della nostra storia: circa mezzo secolo di dibattiti politici e battaglie nel nome di un nuovo ideale, secondo il quale dai regni che dividevano il nostro territorio poteva nascere un’unica grande nazione. Ecco i principali eventi e i protagonisti.
Tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento si diffuse nella penisola italiana un’idea eccitante: le popolazioni che ci vivevano non erano una casuale accozzaglia di genti, ma esprimevano una “nazione”, cioè un insieme di persone legate da territorio, lingua, religione, costumi e in ultima analisi dalla storia.
Il principio veniva dalla Francia, dove dal 1789 si stavano svolgendo avvenimenti che tutti, in Europa, consideravano decisivi per la storia futura. Qualche anno dopo, in Italia, le armate napoleoniche avevano fatto nascere le “repubbliche sorelle”, come la Repubblica Cispadana o quella Cisalpina, di ispirazione giacobina, sganciandole dal dominio austriaco.
Il primo che parlò di un’Italia unita fu Francesco Lomonaco, studioso napoletano coinvolto nelle lotte per la Repubblica Partenopea del 1799. Dopo la fine della parabola napoleonica, il tentativo da parte delle vecchie dinastie di tornare al passato come se nulla fosse successo parve insopportabile agli intellettuali e ai militari che avevano imparato cosa fosse la libertà.
Tra i primi a esprimere in modo esplicito e chiaro ideali liberali e antiaustriaci furono gli intellettuali milanesi che ruotavano attorno alla rivista Il Conciliatore, come Silvio Pellico, Piero Maroncelli e Giovanni Berchet (sotto).
Furono loro anche i primi a subire la reazione del governo austriaco, che allora reggeva il regno Lombardo-Veneto uscito dal Congresso di Vienna: la rivista, infatti, visse solo dal 1818 al 1819 prima di essere chiusa dalla censura, mentre Pellico e Maroncelli, accusati di far parte della società segreta della Carboneria, vennero imprigionati nel 1820 per dieci anni nel carcere di massima sicurezza dello Spielberg a Brno, in Moravia.
La Carboneria era nata nel Regno delle Due Sicilie per opporsi al regno napoleonico di Murat, ma poi aveva contrastato duramente i Borboni. In modo confuso raccoglieva le esigenze di cambiamento della scarsa borghesia meridionale, organizzandosi in modo gerarchico e segretissimo: gli appartenenti a una cellula (vendita) non dovevano conoscere quelli della vendita vicina; gli iscritti ai livelli inferiori non conoscevano quelli dei livelli gerarchici superiori e così via.
I rituali erano copiati da quelli degli operai che producevano il carbone di legna. Nel 1820 i carbonari organizzarono un’insurrezione a Napoli e l’anno dopo una in Piemonte.
In entrambi i casi, dopo un iniziale successo grazie al quale era stata concessa una Costituzione scritta, la reazione delle potenze conservatrici europee, Austria in testa, era stata energica: il 7 marzo 1821 un esercito di 50mila austriaci aveva invaso il Regno delle Due Sicilie, sconfiggendo nella battaglia di Rieti le forze insurrezionali guidate dal generale Pepe.
In Piemonte, i ribelli che avevano sperato di coinvolgere l’erede al trono Carlo Alberto di Savoia (foto sotto) vennero abbandonati al loro destino e messi in fuga di fronte alla minaccia dell’intervento austriaco.
Il fallimento dei moti carbonari fu attribuito alla segretezza della società e dei programmi. Fu così che nel 1831 il giovane patriota genovese Giuseppe Mazzini fondò una nuova società, la Giovine Italia, che voleva diffondere i suoi ideali – un’Italia unita, indipendente dal controllo straniero e repubblicana – con la massima chiarezza.
All’epoca la soluzione proposta era estremista e radicale: la parola “repubblica” infatti era collegata agli eccessi della Rivoluzione Francese. Ciò spiega perché le posizioni mazziniane si diffusero tra i giovani e gli intellettuali, ma non fecero mai breccia nelle classi subalterne.
Una serie di insurrezioni nel 1833 e nel 1834 nel Regno di Sardegna fallì e comportò numerosi arresti e condanne a morte. Mazzini fuggì e da quel momento dovette vivere in esilio. La sua oratoria appassionata nulla poteva contro i soldati che l’Austria era in grado di schierare a difesa degli stati italiani.
Perciò nei due decenni successivi si fecero strada ipotesi più moderate, che suggerivano una semplice confederazione degli stati già esistenti. Per esempio, il sacerdote torinese Vincenzo Gioberti ipotizzò nel suo Primato degli italiani (1843) che il Piemonte a nord, lo Stato della Chiesa al centro e il Regno di Napoli a sud si unissero sotto il Papa.
L’anno dopo, il nobile piemontese Cesare Balbo, erede delle esperienze illuministiche e napoleoniche, pubblicò Le speranze d’Italia, in cui auspicava una confederazione di stati sotto la guida politica dei Savoia. Una terza soluzione era quella proposta, in Lombardia, da Carlo Cattaneo (foto sotto), che invece guardava alla Svizzera come modello di una confederazione di repubbliche.
Questi ideali e queste soluzioni vennero messi alla prova nel 1848, quando una serie di insurrezioni scosse tutta Europa a partire da Parigi. Le notizie delle rivolte si diffusero per la prima volta nella storia a “velocità elettrica” grazie alla rete dei collegamenti telegrafici predisposti per gestire il traffico delle neonate ferrovie: la gente ebbe l’impressione di un incendio che si propagava senza controllo e da qual momento l’espressione “fare un Quarantotto” diventò sinonimo di “creare una confusione totale”.
Quando arrivò in Italia la notizia dell’insurrezione popolare a Vienna (17 marzo), insorsero Venezia (lo stesso giorno) e poi Milano (il giorno successivo). Qui i patrioti sconfissero le truppe del generale Radetzky in cinque giornate di scontri, nelle quali forse per l’unica volta in Italia combatterono fianco a fianco nobili, borghesi, artigiani, commercianti, operai e contadini contro le truppe di occupazione.
Il comitato insurrezionale chiese l’aiuto del sovrano piemontese Carlo Alberto, che si mise timidamente alla testa di una “guerra italiana” contro l’Austria. Ritardi e incomprensioni fecero però perdere l’occasione di battere sul campo l’esercito di Vienna che, raccolte le forze, sconfisse i piemontesi a Custoza (22-27 luglio 1848) e l’anno successivo a Novara (23 marzo).
Fu allora che l’ala radicale del movimento risorgimentale, ossia i mazziniani, ci riprovò organizzando un’insurrezione a Roma: cacciato il Papa, venne instaurata una repubblica avanzatissima (suffragio universale, abolizione della pena di morte e libertà di culto), che però durò solo cinque mesi (5 febbraio – 4 luglio 1849). Tutti i patrioti mazziniani erano qui: oltre a Mazzini, anche Giuseppe Garibaldi, Goffredo Mameli, Luciano Manara, Nino Bixio (foto sotto) e molti altri.
Furono i francesi di Luigi Napoleone (che quattro anni dopo avrebbe assunto il titolo di imperatore) a distruggere questa repubblica: dopo un primo tentativo respinto da Garibaldi il 30 aprile, il generale francese Oudinot tornò alla carica il 3 luglio con forze superiori e ne sconfisse l’esercito.
Garibaldi riuscì a uscire dalla città con 4mila superstiti e per qualche settimana si mosse per l’Italia centrale, inseguito da eserciti di gran lunga superiori al suo, nell’inutile tentativo di suscitare una nuova insurrezione.
Alla fine dovette sciogliere gli ultimi reparti a San Marino e dopo un estremo tentativo di raggiungere Venezia, che ancora resisteva, evitò per un pelo la cattura e si rifugiò all’estero. Di nuovo l’idea di una Italia unita sembrava sconfitta.
Ma il Piemonte, pur battuto sul campo, riuscì a mantenere l’indipendenza e la Costituzione scritta che Carlo Alberto aveva concesso nel 1848: questo bastò a trasformarlo nel punto di riferimento del movimento risorgimentale italiano (qua sotto, frontespizio dello Statuto Albertino, Museo del Risorgimento, Torino).
Nel 1852, alla guida del piccolo regno sabaudo arrivò Camillo Benso, conte di Cavour, che seppe coordinare le due anime del Risorgimento, quella monarchica del re piemontese Vittorio Emanuele II e quella radicale dei mazziniani.
Prima di tutto inserì il Piemonte nei giochi della politica europea, facendolo partecipare a una guerra lontana come quella per la Crimea (1853-56) per ottenere l’appoggio della Francia contro l’Austria. Cavour e Napolene progettarono un conflitto che avrebbe dovuto portare alla creazione di un regno dell’Alta Italia formato da Piemonte, Lombardia e Veneto.
Questo conflitto, iniziato il 24 aprile 1859, si concluse bruscamente l’11 luglio con l’armistizio di Villafranca dopo la vittoria franco-piemontese di Solferino e San Martino. Nonostante il Piemonte avesse guadagnato la Lombardia, la possibilità di creare uno stato italiano sembrava svanita di nuovo.Chi compì la mossa decisiva fu Giuseppe Garibaldi.
Osannato dai patrioti per la sua lunga militanza (aveva combattuto anche nel 1859 al comando dei Cacciatori delle Alpi, un reparto creato apposta per lui), fu chiamato dai mazziniani siciliani Francesco Crispi e Rosolino Pilo a sostenere una insurrezione in Sicilia.
Con l’appoggio sotterraneo di Cavour, Garibaldi organizzò una spedizione con un migliaio di ex Cacciatori delle Alpi, si impadronì di due piroscafi e sbarcò a Marsala l’11 maggio 1860. Con una serie di battaglie culminate nello scontro sulle rive del Volturno il 1° ottobre di quell’anno, le truppe garibaldine (arrivate a contare 30mila uomini) sbaragliarono l’esercito borbonico restando padrone del campo.
Mentre il re di Napoli si rifugiava nella fortezza di Gaeta sperando nell’aiuto di Napoleone III, Cavour spediva in tutta fretta il re Vittorio Emanuele II a intercettare Garibaldi prima che marciasse su Roma, come molti garibaldini volevano.
L’incontro avvenne a Teano, il 26 ottobre: Garibaldi sacrificò i suoi ideali repubblicani e indicò alle truppe Vittorio Emanuele come re d’Italia. Il 17 marzo successivo veniva proclamato il Regno d’Italia.
1. Giuseppe Garibaldi
Giuseppe Garibaldi era nato a Nizza nel 1807 in una famiglia di marinai e a 14 anni fu iscritto nel registro navale come mozzo.
Dal 1824 navigò sull’imbarcazione di famiglia prima fino al Mar Nero e poi per tutto il Mediterraneo fino a diventare ufficiale in seconda.
Non pensava affatto alla politica. Ma nel marzo 1833, durante un viaggio a Costantinopoli, si imbarcarono sulla sua nave degli esuli francesi socialisti che lo convertirono alle loro idee.
Al ritorno incontrò un affiliato alla Giovine Italia e ne rimase folgorato: da quel momento si dedicò totalmente all’ideale di un’Italia unita e indipendente. Si arruolò nella Marina sabauda per fare propaganda in vista delle insurrezioni previste da Mazzini per il febbraio del 1834.
Il tentativo, come abbiamo visto, fallì: Garibaldi fu costretto a scappare in Francia, inseguito da un ordine di cattura e di esecuzione. Per un paio d’anni navigò nel Mediterraneo, poi conobbe la Giovine Europa, l’altra associazione fondata da Giuseppe Mazzini, e venne conquistato dagli ideali di libertà per tutti i popoli.
Nel 1835 partì per il Sudamerica dove si unì alla lotta per l’indipendenza del Rio Grande del Sud, una piccola regione del Brasile meridionale. Per qualche anno combatté senza risparmiarsi come corsaro, rischiando anche la vita quando cadde in un agguato della Marina brasiliana.
Ripresosi dalla ferita, compì una delle sue imprese più celebri: trasportò per 200 km le sue imbarcazioni via terra per attaccare di sorpresa i brasiliani in una zona del tutto imprevedibile.
Nel 1841 andò in Uruguay, stato impegnato a difendersi dal Brasile: al comando della flotta ottenne brillanti successi salvando l’indipendenza del Paese (dove non a caso è onorato come un eroe nazionale).
Intanto aveva conosciuto l’amore in una donna brasiliana, Anita Ribeiro de Silva, che aveva sposato. Ma quando arrivò il 1848 si precipitò in Italia e combatté per la difesa della Repubblica Romana. Fu l’anima della lotta e sconfisse più volte le soverchianti forze francesi.
Dopo oltre un mese di resistenza, vinto e costretto alla fuga, dopo incredibili traversie riuscì a salvarsi (Anita invece morì a Comacchio), ma dovette abbandonare il Paese.
2. Mazzini: l’ardente oratore della rivoluzione
Giuseppe Mazzini nacque a Genova il 22 giugno 1805 da padre medico che aveva fatto politica al tempo di Napoleone.
“Pippo” cercò di seguire le orme paterne ma era troppo impressionabile e così s’iscrisse a legge, laureandosi nel 1827.
Quando nel 1821 vide a Genova i sopravvissuti dei moti carbonari piemontesi, si convertì agli ideali patriottici.
Arrestato per la prima volta nel 1830, fu tenuto in carcere per poche settimane, sufficienti a concepire il programma del suo movimento politico, la Giovine Italia, che presentò nel 1831 a Marsiglia, dove si era rifugiato: un’Italia unita, indipendente e repubblicana.
La repubblica sarebbe nata da una insurrezione popolare, stimola- ta da un’intensa propaganda. Mentre era in Francia, Mazzini allacciò una relazione con la giovane vedova Giuditta Bellerio Sidoli, da cui ebbe un figlio, morto quasi subito.
Dal 1832 diede il via a una serie di insurrezioni in Liguria e in Piemonte, tutte stroncate. Nonostante il fallimento, furono questi tentativi (che proseguirono fino al 1857) a tenere viva la questione italiana presso l’opinione pubblica nostrana e internazionale e a costringere la politica a prenderne atto.
Ma Mazzini, rimasto scosso dalla morte di tanti giovani che avevano creduto in lui, cadde nel 1836 in una profonda depressione, la “tempesta del dubbio”, da cui uscì grazie alla sua fede in un Dio immanente, diverso da quello cristiano. Inseguito da un ordine di cattura, dovette fuggire in Svizzera poi, dal 1837, a Londra, dove risiedette per oltre 30 anni lavorando come insegnante.
Nel 1848 tornò in Italia per mettersi a capo della Repubblica romana assieme ai suoi più stretti collaboratori: Aurelio Saffi e Carlo Armellini. Quando questa brevissima esperienza finì, tornò in esilio.
Da qui si scontrò con Marx, che non condivideva nulla della sua filosofia e non credeva alle insurrezioni spontanee. Il fallimento costante dei moti mazziniani in effetti rese l’ala radicale del movimento risorgimentale sempre più incerta.
Nel 1860 Mazzini appoggiò Garibaldi: nemmeno dopo la nascita ufficiale del Regno d’Italia il 17 marzo 1861 poté rientrare in patria per la condanna a morte pendente sul suo capo dal 1857.
Alle elezioni politiche del 1866 risultò vincitore nel collegio elettorale di Messina: rifiutò tuttavia la carica per non dover giurare fedeltà ai Savoia.
3. Cavour: il liberale che diede un futuro all’Italia
Camillo Benso, conte di Cavour nacque a Torino il 10 agosto 1810 da una nobile e ricca famiglia (il padre era amico del governatore del Piemonte sotto i francesi, che era cognato di Napoleone).
Completata la sua formazione nella scuola del Genio militare, il giovane Camillo (che a 22 anni era già sindaco di Grinzane) viaggiò in Francia, Belgio e Inghilterra, dove incontrò e apprezzò la democrazia liberale e i vantaggi dell’industrializzazione.
Quando arrivò il Quarantotto, era pronto per scendere in campo tra le fila dei politici moderati.
Ministro dell’agricoltura nel 1850, venne nominato primo ministro nel 1852 e subito cominciò una politica di stampo liberale che portò il Piemonte a essere il regno più avanzato d’Italia: venne modernizzata l’agricoltura, si creò una buona rete ferroviaria, si ridussero drasticamente i privilegi ecclesiastici.
Cavour preparò l’espansione del Piemonte guadagnando l’appoggio della diplomazia internazionale e soprattutto della Francia aiutandola nella guerra di Crimea (1853-56), apparentemente lontanissima dagli interessi di Torino.
Fu così però che con i patti segreti di Plombières (1858) ottenne l’alleanza con l’imperatore Napoleone III in funzione antiaustriaca.
La sua abilità diplomatica era proprio ciò che mancava al movimento risorgimentale italiano, che fino a quel momento era vissuto soprattutto sull’entusiasmo disordinato dei patrioti.
Ma il 27 aprile 1859 la trappola preparata dal primo ministro austriaco scattò: l’impero austriaco dichiarò guerra al Piemonte, facendo scendere in campo al fianco di quest’ultimo la potente Francia.
Le battaglie decisive furono a Magenta (4 giugno) e a Solferino e San Martino (24 giugno): le truppe austriache furono costrette alla ritirata, ma le forti perdite subite sconvolsero l’imperatore francese, spingendolo a stipulare un accordo separato con l’Austria a Villafranca (11 luglio). Ancora una volta il processo risorgimentale italiano appariva bloccato.
Ma gli accordi di Villafranca rendevano nulli i patti di Plombières, lasciando libero Cavour di manovrare negli spazi politici rimasti aperti nella penisola: tirò dalla sua l’Inghilterra, preoccupata che la Francia acquisisse troppo potere in Italia, approfittò dei moti in Romagna e Toscana che portarono ai referendum unionisti del febbraio 1860 e appoggiò segretamente la spedizione di Garibaldi, salvo bloccarlo a Teano per impedirgli di marciare su Roma.
Morì improvvisamente il 6 giugno 1861.
4. Altre 4 figure di primo piano
- Francesco Crispi
Nato a Ribera (Agrigento) nel 1818, divenne avvocato nel 1843 e si trasferì a Napoli. Tornò a Palermo per organizzare la rivolta del 12 gennaio 1848, che fallì.
Andò in esilio in Francia e in Inghilterra, dove incontrò Mazzini.
Nel 1859 tornò di nascosto in Sicilia per organizzare una nuova insurrezione: fu lui a convincere Garibaldi a raccogliere i Mille.
Dopo l’Unità fu eletto al Parlamento tra i radicali. Col passare degli anni assunse posizioni sempre più monarchiche.
Fu nominato primo ministro (1887-1891). Morì nel 1901.
- Goffredo Mameli
Nato a Genova nel 1827, appena ventenne raccolse 300 volontari per sostenere le Cinque Giornate a Milano.
Partì poi per Roma dove partecipò alla difesa della Repubblica romana. Ferito il 3 giugno a Villa Glori, morì per la successiva cancrena il 6 luglio.
È autore delle parole del Canto degli italiani che dal 1946 è l’inno nazionale del nostro Paese (ma la consacrazione ufficiale è avvenuta solo con la legge 181 del 4 dicembre 2017).
- Aurelio Saffi
Nato nel 1819 a Forlì, all’epoca nello stato della Chiesa, si avvicinò alle idee mazziniane.
Durante la Repubblica romana del 1849 fu eletto deputato nella sua città, poi fece parte (con Mazzini e Armellini) del Triumvirato che deteneva il potere esecutivo.
Dopo la caduta della Repubblica fuggì in Inghilterra. Fu eletto al Parlamento italiano nel 1861, ma nel 1874 fu arrestato per breve tempo per le sue presunte attività repubblicane.
Morì nel 1890.
- Carlo Armellini
Avvocato nato a Roma nel 1777, attraverso la seconda moglie Faustina conobbe Mazzini e si affiliò alla Giovine Italia.
Nel 1848 partecipò alla Repubblica Romana diventando membro del Triumvirato.
Dopo la fine della Repubblica emigrò in Belgio, dove morì nel 1863.
5. Così contribuirono scrittori e musicisti
Negli anni Venti e Trenta dell’Ottocento, dopo il brusco arresto dell’idea di un’Italia unita e indipendente in seguito alla sconfitta dei moti carbonari, furono i poeti, gli scrittori, i musicisti e in generale gli artisti a tenere viva la questione, creando con le loro opere una mitologia e una simbologia di grande potenza.
Quasi sempre nei loro testi si parlava di un “patto”, ossia di un giuramento tra coloro che stavano lottando per il riscatto della patria.
Non si trattava però di un accordo sul quale doveva essere fondata la nazione, perché la nazione italiana per loro esisteva già, in quanto il territorio era caratterizzato dall’unità di lingua, di religione, di ricordi storici e di sangue.
Alcune di queste opere, come I Sepolcri di Foscolo (foto sotto) o il Nabucco di Verdi, divennero e restarono famosissime, mentre altre, come la tragedia Giovanni da Procida di Nicolini o il romanzo L’assedio di Firenze di Guerrazzi, furono poi dimenticate.
In quegli anni però si doveva leggerle e i giovani se le copiavano a mano per evitare la censura austriaca. Nell’arte l’Italia veniva spesso raffigurata come una donna o ancora meglio come una madre che nutre i suoi figli, i quali perciò sono fratelli.
Per questo in letteratura o in teatro le vicende narrate avevano spesso come protagonista una ragazza il cui onore veniva violato oppure che si concedeva al nemico tradendo il legame di sangue che la univa agli altri italiani.
La figura del traditore, sempre cinico e subdolo, provocava la disfatta della comunità nazionale: il che voleva rappresentare una specie di giustificazione per le condizioni in cui si trovava la nazione italiana agli inizi dell’Ottocento.
Nel febbraio 1859 i muri di Roma si coprirono di scritte “Viva Verdi!”. In quei giorni, infatti, si teneva in città la prima rappresentazione dell’opera Un ballo in maschera del celebre compositore di Busseto.
Ma Verdi non c’entrava: si trattava in realtà di un acronimo per “Vittorio Emanuele Re D’Italia”, che inneggiava al compimento del Risorgimento italiano.
La figura di Giuseppe Verdi (1813-1901), gigante della storia della musica e punto di riferimento in quella del teatro d’opera, funge così da collante tra le vicende del nostro Paese nelle guerre di indipendenza e l’affermazione del melodramma italiano come genere di riferimento nel panorama musicale dell’Ottocento.
Ufficialmente Verdi non s’interessò di politica fino all’incontro nel 1847 con Giuseppe Mazzini, di cui condivise le idee repubblicane. In realtà il suo lavoro era già stato strumentalizzato ai fini della causa risorgimentale.
Il Nabucco (1842) e I lombardi alla prima crociata (1843), eseguiti al teatro alla Scala con successo, permettevano ai patrioti italiani di identificarsi con i protagonisti: con il popolo ebraico in esilio anelante al ritorno in patria nel Nabucco o con i crociati chiamati a liberare la Terra Santa dal giogo straniero.
Ma questa interpretazione era estranea a Verdi: i passi “risorgimentali” furono inseriti dal librettista Temistocle Solera (1815-1878), fervente patriota, per essere usati come mezzo di propaganda attraverso la musica.
La prima opera politicamente impegnata di Verdi fu La battaglia di Legnano (1849) dove fu invocata la guerra di liberazione e celebrato il patriottismo attraverso il possente coro iniziale e lo struggente finale. Non a caso Verdi fu nominato senatore del neonato Regno d’Italia nel 1861.