Una volta c’erano le cartine, oggi abbiamo il navigatore sui telefonini che ci aiuta a trovare sempre la strada. Ma riusciamo a farne meno?
Qualcuno sì, altri no: non tutti infatti hanno il medesimo senso dell’orientamento e non tutti si orientano nello stesso modo.
La buona notizia è che questa abilità si può allenare. Come? Scegliendo la strategia più adatta al caso nostro!
1. Come fanno i taxisti?
Come funziona il senso dell’orientamento?
Hanno risposto per primi nel 1971 John O’Keefe e Jonathan Dostrovsky, ricercatori dello University College di Londra, scoprendo nel cervello di un topo cellule nervose diverse da qualunque altra: le place cells (cellule di posizione), sensibili alla posizione in cui l’animale si trovava nel suo ambiente.
Queste cellule hanno sede nell’ippocampo e così gli studiosi ipotizzarono che questa area del cervello fosse la vera centralina del senso dell’orientamento.
Successivamente sono state scoperte altre cellule nervose connesse alla navigazione nello spazio: le head-direction cells (cellule dell’orientamento della testa), che informano l’animale in quale direzione è rivolto, le grid cells (cellule a griglia), che gli comunicano la sua posizione nello spazio, e le boundary cells (cellule confine), che si attivano in relazione alla distanza da un limite fisico come una parete.
Dal momento che anche queste altre cellule sono collocate nei pressi dell’ippocampo, il suo maggiore o minore sviluppo fu considerato un fattore fondamentale per un buon senso dell’orientamento.
Nel 2011 Eleanor Maguire e Katherine Woollett del Wellcome Trust Centre for Neuroimaging (UK) coinvolsero in uno studio i taxisti londinesi.
Per ottenere la licenza di taxista a Londra è necessario apprendere la mappa della città in un training di circa 3-4 anni: occorre infatti conoscere 25mila strade e migliaia di punti di interesse.
La ricerca confrontò 40 taxisti che avevano superato il test di ammissione, 39 che non lo avevano superato e 31 non taxisti.
Esaminando le strutture cerebrali all’inizio e al termine del training, le ricercatrici scoprirono differenze significative nello sviluppo di una porzione dell’ippocampo: oltre a rimarcarne il ruolo, lo studio mostrava come il costante esercizio ne accresce dimensioni e funzione.
2. Uomini più bravi delle donne?
Non è solo questa area del cervello la responsabile del senso dell’orientamento.
Secondo uno studio pubblicato su Science nel 2016, infatti, sono fondamentali anche le interazioni tra ippocampo e corteccia prefrontale.
Thackery Brown e i colleghi dell’Università di Stanford (USA) hanno sottoposto i partecipanti allo studio a esercizi di orientamento, registrandone l’attività cerebrale con la risonanza magnetica funzionale e chiarendo che la corteccia orbitofrontale è preposta all’individuazione delle tappe del percorso per raggiungere un luogo e a calcolare la strada più rapida.
Il senso dell’orientamento, dunque, è un’abilità complessa che richiede varie abilità. A differenza degli animali l’uomo impiega molte competenze – pianificazione, problem solving, memoria e visualizzazione – e quindi diverse aree cerebrali; nei soggetti più bravi a orientarsi sono più sviluppate e interconnesse tra loro.
Anche questo spiega il luogo comune, in parte avvalorato dagli studi, secondo il quale gli uomini sono più capaci delle donne a orientarsi nello spazio.
«In modo particolare», scrivono le psicologhe Raffaella Nori dell’Università di Bologna e Laura Piccardi dell’Università dell’Aquila in un articolo uscito nel 2021 sul Giornale italiano di psicologia, «gli uomini hanno prestazioni migliori delle donne quando viene chiesto loro di orientarsi utilizzando delle mappe o all’interno di ambienti virtuali, mentre nell’ambiente reale queste differenze scompaiono».
Secondo alcuni studiosi, alla base ci sarebbero ragioni evoluzionistiche legate alla suddivisione dei compiti nel Pleistocene tra uomini cacciatori e donne raccoglitrici che richiedevano ai primi maggiori capacità di orientamento spaziale.
Quindi, le differenze ci sono, ma hanno a che fare soprattutto con le diverse strategie che impiegano per orientarsi. Non solo: alcuni studiosi ritengono che le donne abbiano più paura di perdersi nell’ambiente, fenomeno definito “ansia navigazionale”, e che ciò potrebbe influenzare negativamente le loro abilità.
3. Il senso dell’orientamento perduto o assente del tutto
Il senso dell’orientamento però si può perdere oppure, in rari casi, può essere del tutto assente sin dalla nascita.
Nel primo caso rientrano le persone affette dalla malattia di Alzheimer. Spesso la perdita dell’orientamento è il primo sintomo della malattia.
Gli anziani all’esordio della patologia tendono a perdersi facilmente anche molto prima che si sviluppino i deficit di memoria.
Questo però capita anche agli anziani affetti da una condizione detta mild cognitive impairment (lieve declino cognitivo), una forma di decadimento cognitivo che solo in alcuni casi può poi degenerare in Alzheimer.
Nel 2016 Blake Ross, programmatore e cofondatore del browser Firefox, scrisse sul suo profilo Facebook: «Nella mia vita non ho mai visualizzato niente. Non riesco a “vedere” il volto di mia madre o una pallina azzurra che rimbalza, la cameretta di quand’ero bambino o la corsa che ho fatto dieci minuti fa».
Come spiega Michael Bond in Il cervello trova la strada (Corbaccio), la condizione del giovane informatico non è nuova alla scienza: è sempre Eleanor Maguire a essersi occupata di soggetti con disturbi simili.
«Tutti hanno subito una lesione all’ippocampo, solitamente causata da una patologia come l’encefalite limbica». Non è difficile immaginare come persone di questo tipo presentino deficit dell’orientamento congeniti, legati all’impossibilità di ricordare luoghi e punti di riferimento visivi.
C’è infine un’altra rara condizione che porta letteralmente a perdersi dentro casa, pur in assenza di patologie del cervello: a descriverla per primo fu una decina di anni fa Giuseppe Iaria, neuroscienziato dell’Università della British Columbia (Canada), partendo dall’esperienza di una paziente che lamentava un costante disorientamento e si perdeva ovunque.
Iaria la sottopose a una risonanza magnetica cerebrale e testò le funzioni cognitive, ma non riscontrò nulla di strano. Da studi successivi si capì che questa condizione, definita developmental topographical disorientation (disorientamento topografico evolutivo), colpisce tra l’1 e il 2 per cento della popolazione, soprattutto donne.
Questi soggetti non elaborano alcuna mappa mentale dello spazio: «Chi ne soffre riesce ad andare da un punto A a un punto B solo se prova più volte il tragitto e riceve indicazioni molto precise», spiega Bond. «Per queste persone, una scorciatoia è letteralmente impensabile».
4. Così il cervello ringiovanisce. Stratagemmi ad hoc
Secondo Iaria, l’anomalia, che potrebbe avere un’origine genetica dal momento che è nota una certa familiarità, può essere legata a una scarsa connessione tra l’ippocampo e la corteccia prefrontale.
Le persone affette, tuttavia, riescono a trovare stratagemmi per compensare questo deficit, ma hanno bisogno di molto tempo per orientarsi e imparare un percorso.
La buona notizia per chi si perde sempre è infatti che le doti di orientamento possono essere migliorate: «La predisposizione alla navigazione non è scritta semplicemente nei geni», prosegue Bond.
«Con una motivazione e un allenamento sufficienti, nulla può impedirci di diventare eccellenti wayfinder (navigatori)». Lo hanno chiarito diversi studi sui bambini. Con l’esercizio si può migliorare, anche se tutto dipende dalla causa dello scarso senso dell’orientamento.
In alcuni casi infatti si può lavorare sulla percezione del mondo esterno, in altri sulla memoria, in altri ancora sulla capacità di valutare le distanze. Dal momento che queste abilità sono collegate anche ad altre funzioni cerebrali, è dimostrato inoltre che migliorare l’orientamento spaziale ha notevoli benefici su tutto il cervello.
Ad esempio, allenarsi a ricordare percorsi può incrementare le prestazioni cognitive, la concentrazione, la memoria e può persino rallentare l’invecchiamento mantenendo il cervello più giovane.
Ma Google Maps riduce il senso dell’orientamento? Una volta, se non si conoscevano le strade, si usavano le cartine stradali oppure si chiedevano indicazioni ai passanti. Ora tutti abbiamo sempre in tasca uno smartphone dotato di mappe geolocalizzate.
Ciò non aiuta ad allenare il nostro senso dell’orientamento, che infatti si è mediamente ridotto. Va però detto che le mappe sul cellulare sono un ottimo strumento per chi ha veri e propri deficit.
Non è però questa la sola causa che ci rende oggi meno bravi a orientarci da soli. Nelle società avanzate esploriamo di meno gli ambienti dal momento che frequentiamo soprattutto luoghi noti.
5. Ci sono 3 strategie di orientamento
Sono 3 le strategie che possiamo impiegare per orientarci:
1. Strategia landmark (punto di riferimento).
La pratica chi, per muoversi nell’ambiente, fa affidamento soprattutto a punti di riferimento visivi senza tener conto della relazione spaziale tra di essi: questo soggetto, per raggiungere un luogo, impara ad esempio che deve svoltare a destra quando vede un certo negozio o un particolare edificio senza però tenere conto della loro posizione lungo il percorso.
2. Strategia route (percorso).
Alla strategia precedente viene aggiunta la capacità di memorizzare la propria posizione nello spazio creandosi una sorta di mappa mentale.
3. Strategia survey (mappatura).
Chi la impiega utilizza le due strategie precedenti e anche i punti cardinali: ad esempio sa se sta muovendosi verso nord o verso sud. Le persone che utilizzano uno stile landmark hanno prestazioni peggiori delle persone di stile route e queste hanno prestazioni peggiori delle persone di stile survey.
Curiosità: a 18 mesi i bimbi si orientano come i topi
Secondo uno studio condotto ad Harvard negli anni Novanta, a 18 mesi i bambini hanno le stesse capacità di orientamento spaziale di un topo.
Solo a 4 anni i piccoli mostrano capacità più sviluppate, come quella di riorientarsi in uno spazio delimitato dopo essere stati bendati.
Lo sviluppo del senso dell’orientamento va di pari passo con quello del linguaggio. È infatti verso i 10 anni che iniziamo a creare mappe mentali dello spazio. Fino a quel momento ci muoviamo basandoci su punti di riferimento visivi, come l’insegna di un negozio oppure un albero, ma senza considerare le distanze e la nostra collocazione nello spazio.