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Il vino: breve storia e diversi tipi di vinificazioni

“Vino” ha origine dalla parola sanscrita “vena” formata dalla radice ven (amare), la stessa delle parole Venus, Venere.

Il vino è dunque, da sempre, strettamente legato all’amore, alla gioia di vivere, bevanda capace di rilassare il corpo, inebriare i sensi, liberare l’istintività dell’uomo, facilitare lo scambio con l’altro, ma anche mettere in contatto l’uomo con il soprannaturale.

Nettare la cui assunzione rende gli uomini simili agli dei, nella grecità; parte integrante del rito della messa, nella cristianità.

L’origine del vino si perde nella notte dei tempi. Come per il fuoco, così anche per il vino, la sua “invenzione” fu del tutto casuale.

La vendemmia è un’operazione delicatissima, ed è indispensabile che tutto lo sforzo che il vignaiolo ha dedicato alla raccolta manuale dei grappoli non sia vanificato da cattive modalità di trasporto.

L’uva deve arrivare in cantina con gli acini perfettamente integri, sani e asciutti: la loro rottura, con le alte temperature della stagione in cui avviene la vendemmia, potrebbe provocare processi di fermentazione non controllata e, perciò, pericolosissimi.

Arrivati a destinazione, i grappoli vengono pigiati, in genere dopo che l’uva è stata separata dai raspi (diraspatura). Qui ha inizio la metamorfosi dell’uva in vino: il mosto comincia a fermentare.

In pratica i lieviti (microorganismi che si trovano sulla buccia degli acini) trasformano gli zuccheri dell’uva in alcol etilico.

Sebbene questa fermentazione alcolica tenda ad avvenire spontaneamente, generalmente vengono aggiunti al mosto lieviti selezionati, che garantiscono che il processo avvenga in modo ottimale.

Ciascuna tipologia di vino (rosso, rosato, bianco) seguirà una sua strada, quella che gli addetti al settore chiamano “vinificazione”.

Ma vediamo brevemente la storia del vino (dall’antichità ai giorni nostri) e anche alcuni tipi di vinificazione.

1. Il vino nell'antichità

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L’uomo della preistoria scoprì per caso che il succo d’uva dimenticato in un recipiente di pelle, a causa dell’alta temperatura, aveva subito una magica trasformazione, dagli esiti sorprendenti e per niente malvagi.

Anzi. Il gusto era buono e gli effetti inebrianti. Le prime tracce della coltivazione della vite (una pianta che nasce molto prima dell’uomo) si trovano in Asia minore, nelle terre tra il Tigri e l’Eufrate.

Ben nota è nella tradizione ebraico-cristiana la figura di Noè (Genesi) che appena uscito dall’arca pianta una vite e si ubriaca del suo vino.

Ma furono gli Egizi a iniziare una vera e propria pratica enologica. Nella terra dei faraoni nascono i primi grandi viticoltori e bevitori di vino. Erodoto li descrive in preda all’ubriacatezza più sfrenata mentre festeggiano il plenilunio.

I vini allora erano in gran parte rossi, venivano conservati in anfore e – pratica modernissima per i tempi – il “produttore” apponeva un sigillo con l’anno della vendemmia: un primo tentativo di invecchiare il vino.

Con l’emergere della civiltà greca, i metodi di vinificazione si perfezionano e l’ubriacatezza assume un carattere sacrale, tanto da riservare nell’Olimpo delle divinità un posto importante proprio al dio del vino, Dioniso, figlio di Zeus.

Anche in Italia, allora chiamata Enotria (terra della vite), fiorisce nelle colonie la civiltà del vino: a Sibari, in Calabria, viene costruito addirittura un enodotto, cioè un condotto di argilla che convoglia il vino verso il porto dove viene imbarcato.

Dai Greci il vino si diffonde ai Romani. Il vino di Roma ha poco a che fare con quello a noi noto e molto probabilmente non incontrerebbe il nostro gusto: i Romani lo bollivano per conservarlo meglio e così si trasformava in un liquido denso e sciropposo di alta gradazione e di sapore dolce.

Lo allungavano sempre con acqua (in latino mescere significa mescolare), talvolta con quella di mare, per renderlo meno denso e meno acido. Le mense più ricche avevano un esperto che decideva di volta in volta, e a seconda del menu, quali fossero le percentuali di vino e acqua da mescolare.

Tra i più ricchi era apprezzato il “mulsum”, o vino con il miele, ed era normale addolcire o speziare il prezioso nettare di Bacco con zucchero di canna, resina, pepe, sale, petali di rose e di viole, cannella, zafferano, aloe e sambuco.

Il vino veniva conservato in recipienti di terracotta rivestiti di pece tenuti vicino alle canne fumarie, e questo conferiva al vino un gusto affumicato. Se era troppo scuro lo si chiarificava con albume o addirittura con il gesso.

Solo gli uomini potevano bere questa “delizia”, rigorosamente vietata alle donne. Nel frattempo i Galli creano uno strumento che rivoluzionerà per sempre la conservazione del vino: la botte di legno.

2. Dal medioevo fino ai giorni nostri

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Nel Medioevo saranno i monaci benedettini e cistercensi a tenere in vita la cultura del vino e a darle nuova linfa: produrre quel nettare – parte integrante del rito della messa – equivale a diffondere il messaggio di Dio: per questo nei campi di chiese, abbazie e monasteri “spuntano” le viti.

E non a caso il vocabolario vitivinicolo è ricco di termini monastici e molte Doc hanno preso il nome da ordini religiosi (ad esempio Châteauneuf-du-Pape).

Sono i monaci che inventano nuovi uvaggi e sperimentano nuove tecniche (è un benedettino italiano a creare il metodo della rifermentazione in bottiglia, poi ripreso da Dom Pérignon, l’inventore dello champagne).

Certo è ancora un vino “a metà”: proviene da miscele di uve bianche e rosse, e non supera l’anno di conservazione. Ma è il consumo che sta cambiando, e il
bevitore che lo sorseggia nelle osterie di città comincia ad apprezzarlo senza bisogno di allungarlo.

Con il Rinascimento, i mercanti olandesi, inglesi e veneziani trasportano per nave migliaia di ettolitri di vino, mentre i grandi Chateaux di Bordeaux cominciano a produrre i grandi vini di pregio e a conquistarsi la fama.

Anche nel Nuovo mondo appena scoperto nascono i pionieri del vino. I conquistadores si sono accorti che il vino non regge la traversata, e per risolvere il problema portano con sé le talee di viti europee, per impiantarle sul suolo americano.

Ma la vera epoca d’oro del vino è il Settecento. Il secolo dei Lumi darà grande impulso alle tecniche di produzione e alla conoscenza del vino:
- viene inventato l’imbottigliamento con il tappo di sughero (fino ad allora la bottiglia veniva tappata con piccoli legni avvolti da stracci imbevuti nell’olio o legati da una colta di cera);
- viene messa a punto la tecnica Champenois;
- vengono studiati i lieviti e lo zolfo e inventati i torchi.

Nasce la leadership della Francia, che diffonde in tutto il mondo i suoi grandi vini di Bordeaux e della Champagne. Ormai si piantano vigneti in tutto il mondo.

Purtroppo un grande “nemico” della vite, fino ad allora sconosciuto, e sbarcato dal Nuovo continente con un battello a vapore, causerà danni gravissimi: siamo nel 1850, e il nemico del vino si chiama filossera.

È un afide micidiale che divorerà le viti europee per quarantanni e impegnerà i vignaioli in una lotta tragica e costosissima. La battaglia contro la peste della vite sarà vinta solo nel 1910 da un francese che individuerà il rimedio: innestare le viti europee su ceppi di vite americana.

Numerose varietà di uva, probabilmente anche pregiatissime, sono però scomparse per sempre dai vigneti europei. La mappa dei vitigni non è più la stessa, ma il vino è salvo, e arriva intatto fino alle nostre tavole.

Solo in qualche piccola area esistono dei vigneti che hanno resistito all’attacco di questo tremendo afide e che, perciò, si chiamano “franchi di piede”. In Italia le possiamo trovare, ad esempio, in alta Val d’Aosta (Blanc de Morgex), nell’area flegrea in Campania e ai piedi dell’Etna in Sicilia.

3. Vinificazione in rosso

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Nella vinificazione in rosso il raspo viene subito tolto per evitare che trasmetta al mosto troppi tannini (sostanze un po’ allappanti e amarognole); le parti solide dell’uva (bucce e semi) vengono lasciate a macerare insieme al mosto.

Più tempo le bucce rimangono a contatto con il mosto, più forte sarà l’intensità di colore del vino; le bucce rivestono infatti un ruolo importantissimo nel processo di vinificazione, perché grazie alle particolari sostanze che contengono (tannini e antociani) determinano il colore e le essenze aromatiche del vino.

Il tempo di contatto delle bucce con il mosto può variare da un minimo di 5 giorni per i vini da bere presto, freschi e non molto colorati, fino a un massimo di 1 mese per i grandi rossi (Barolo, Barbaresco, Brunello), ricchi di tannini, da fare invecchiare.

Terminato questo processo – che il vignaiolo ha seguito scrupolosamente adoperandosi in continui rimontaggi per impedire arresti di fermentazione (i lieviti, infatti, hanno bisogno di ossigeno per moltiplicarsi, ed è proprio il rimontaggio che apporta ossigeno al mosto) –, si procede alla svinatura:
le parti solide (vinacce) vengono tolte dal mosto e torchiate per estrarre il vino che contengono (vino di torchio, molto ricco di colore e tannini) che spesso viene vinificato a parte e aggiunto al vino fiore per dargli spessore.

Il mosto viene poi travasato in recipienti di acciaio dove continua una fermentazione lenta, alla quale segue poi una seconda fermentazione – detta malolattica – innescata, però, dai batteri e non, quindi, dai lieviti, come accade nella fermentazione alcolica.

Nel corso di questo procedimento il vino comincia il suo processo di maturazione: il colore vira verso tonalità meno vive, più calde, il sapore comincia ad acquistare la sua rotondità e pienezza.

Alla maturazione seguirà – per i vini adatti – la fase dell’invecchiamento in grandi botti o in piccoli fusti di rovere (barriques, cioè piccoli fusti di legno di quercia da 225 litri) che conferiscono al prodotto intensi aromi di legno e spezie.

La durata di questo “riposo” dipenderà dal tipo di vino e dai relativi disciplinari: in genere due anni o più se il vino si vuole vantare del titolo “Riserva”. L’invecchiamento continuerà nelle bottiglie. Qui, l’ambiente quasi totalmente privo di ossigeno porterà il vino al suo perfetto equilibrio.

4. Vinificazione in bianco, in rosato e vini speciali

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Per ottenere vini bianchi da uve a bacca bianca ma anche da uve rosse (come il Pinot nero), le parti solide dell’uva non devono rimanere a macerare con il mosto – come per il vino rosso – e quindi vanno separate immediatamente, per evitare che cedano sostanze coloranti.
Per questo vengono utilizzate delle pigiatrici, che schiacciano l’uva con molta delicatezza, e favoriscono l’estrazione di un mosto abbastanza pulito (spremitura soffice) separato dalle bucce.
Se si desidera ottenere un vino bianco fruttato da bere giovane, la via migliore è quello di farlo fermentare in un tank di acciaio a temperatura controllata (18°C). Se invece si vuole un vino da invecchiamento, bisogna farlo fermentare in botti di legno o in barriques.
In questo modo il vino può trarre dal legno stesso i tannini utili alla sua conservazione e durata. I più famosi vini bianchi del mondo (come il Montrachet) sono ottenuti facendo fermentare il vino proprio nelle barriques.

I vini rosati non nascono, come credono in molti, dalla mescolanza (in termine tecnico “taglio”) di vini bianchi e rossi, una procedura vietata dalla legge italiana. Si ottengono invece vinificando in bianco le uve a bacca rossa.
Il mosto, infatti, viene mantenuto brevissimamente a contatto con le vinacce (24-36 ore) in modo che possano cedere solo una parte del loro colore. Quindi si svina e si fa fermentare il mosto a bassa temperatura, seguendo la stessa procedura utilizzata per i vini bianchi.
I vini rosati sono vini da bere nell’arco di un anno, freschi e fragranti, con un profumo di frutti appena raccolti e un colore inconfondibile. Per la loro difficile e delicata realizzazione, l’enologo deve utilizzare tutte le sue competenze e la sua abilità.

I vini speciali rappresentano un gruppo piuttosto ampio di prodotti, spesso caratterizzati da un elevato grado alcolico e zuccherino. Il loro colore può essere bianco, rosato o rosso, e il contenuto di sostanze aromatiche estremamente diversificato. Da un punto di vista legale i vini speciali comprendono i vini liquorosi, i vini aromatizzati e gli spumanti.



5. Vino novello, vini liquorosi e vini aromatizzati

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Il vino novello si chiama così perché è prodotto immediatamente dopo la vendemmia. È un vino fresco e profumato, che va bevuto presto perché non è assolutamente adatto all’invecchiamento.
Si ottiene con la tecnica della macerazione carbonica: l’uva non pigiata viene messa tutta intera (raspi compresi) in serbatoi che vengono privati dell’aria mediante immissione di anidride carbonica, e questa condizione viene mantenuta per 7-9 giorni.
I lieviti indigeni migrano dalla buccia alla polpa alla ricerca di ossigeno e acqua innescando un processo di fermentazione.
Al termine del ciclo si procede alla vinificazione in rosso, con una lieve pigiatura e un’ulteriore fermentazione di 3-4 giorni. Il vino, leggero e dal sapore molto simile al chicco d’uva, non può essere commercializzato prima del 6 novembre, mentre il termine ultimo per l’imbottigliamento è il 31 dicembre dello stesso anno della vendemmia.

I vini liquorosi sono prodotti da un vino base di titolo alcolometrico complessivo naturale non inferiore ai 12°. Il vino base può essere concentrato a freddo, o addizionato di mistella, alcol etilico, acquavite di vino o mosto concentrato.
Il titolo alcolometrico finale deve essere compreso tra i 16 e i 22°.
1) L’alcol viene aggiunto nel corso della fermentazione in una o più riprese. Se la “fortificazione” avviene all’inizio della fermentazione, il vino risulterà molto dolce, mentre se avviene alla fine, il vino risulterà quasi secco.
2) Il vino liquoroso si può ottenere anche aggiungendo al vino semplicemente mistelle (distillato di vino o alcol a 95°) in modo tale che esso ottenga la gradazione alcolometrica necessaria. Fra i vini liquorosi italiani ricordiamo il San Martino della Battaglia, la Malvasia delle Lipari, la Malvasia di Bosa, il Vesuvio Lacrima Crysti, l’Aleatico di Gradoli, l’Erbaluce di Caluso e il Primitivo di Manduria.
3) Altre volte il vino viene addizionato di mosto cotto o di mosto concentrato. Il mosto cotto si ottiene da un mosto sottoposto a fuoco diretto o a vapore, e serve a conferire al vino un colore ambrato e un sapore lievemente amarognolo. La quantità di mosto cotto immessa nel vino determinerà la differente caratteristica del prodotto finito (più o meno dolce).
Questi vini possono subire un periodo di invecchiamento molto prolungato e assumere specifiche caratteristiche a seconda dei contenitori in cui dimorano. Tra di essi (che in passato venivano chiamati anche “vini conciati”) si ricordano il nostro Marsala, o i portoghesi Porto, Madera e Moscatel de Setubal, gli spagnoli Sherry e Malaga.
Tutti i vini liquorosi in commercio riportano, intorno al collo della bottiglia, la fascetta bicolore (rosa-viola) con la scritta “Vino Liquoroso” (contrassegno di Stato).

I vini aromatizzati si ottengono partendo da un vino bianco base, con l’aggiunta di alcol etilico per aumentare il grado alcolico, zucchero per aumentare la consistenza, estratti o infusioni di spezie ed erbe (cannella, china, rabarbaro, assenzio, maggiorana) per esaltare odori e profumi.
Il più noto è il Vermut, che si prepara aggiungendo a una base di vino bianco, alcol, zucchero e un’infusione di erbe aromatiche. Della stessa famiglia fa parte il Barolo Chinato, che deve il suo nome alla china calissaia, una delle droghe più importanti utilizzate nella sua preparazione.






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