Non sono felice e vorrei esserlo davvero. Ma come, visto come vanno le cose?
Quante volte l’abbiamo detto o pensato? Parecchie, c’è da star sicuri. Qualche volta ci siamo anche vergognati di pensarlo e abbiamo fatto male.
La felicità è un argomento serissimo e aspirarvi è un diritto riconosciuto, ma c’è un problema; prima di poterla raggiungere dobbiamo capire che cos’è. Solo se sappiamo in che cosa consiste, infatti, possiamo andare alla sua ricerca.
Sin dai tempi del filosofo greco Aristotele, vissuto nel IV secolo a.C., o del Buddha, il maestro spirituale vissuto dell’India del V secolo a.C., gli esseri umani hanno dato della felicità definizioni diverse e a volte contrastanti.
Non c’è da stupirsi: ognuno di noi ha un’idea assolutamente personale di che cosa possa renderlo felice. La nozione di felicità varia anche da cultura a cultura: alcuni anni fa è stato condotto un test tra i bambini in età prescolare di America settentrionale, Europa e Cina e Taiwan.
A tutti è stato chiesto di scegliere l’espressione più felice tra una faccina con un gigantesco sorriso a bocca aperta e una faccina con espressione calma. Americani ed europei hanno scelto la prima (per noi la felicità è gioia), mentre cinesi e taiwanesi la seconda: per loro la felicità è la tranquillità del cuore.
La felicità dipende da tanti fattori, ma al 40 per cento anche da noi. Lo affermano gli “scienziati della felicità”, che l’hanno definita e misurata. C’entra anche la genetica.
Ma cos’è la felicità? Come si misura? Si può imparare ad essere felici? Scopriamolo insieme.
1. Quattro definizioni
In tema di felicità, c’è oggi una grande novità. Anche la scienza ha iniziato a occuparsi di felicità e lo ha fatto con il suo approccio rigoroso, oggettivo, impersonale, ottenendo risultati replicabili e verificabili.
Che sia questa la volta buona per catturare il segreto di una vita felice?
Per molti la “scienza della felicità” s’identifica con la psicologia positiva, la recente branca della psicologia che si occupa del nostro benessere psicofisico. In realtà, gli studi sulla felicità sono il prodotto della collaborazione di diversi specialisti: psicologi, psichiatri, economisti, sociologi.
Pionieri nello studio della felicità sono stati gli americani Martin Seligman e Chris Peterson; spiega Dacher Keltner, fondatore del Greater Good Science Center e professore di Psicologia all’Università di Berkeley, in California:
«Quindici anni fa c’erano centinaia di studi e ricerche sulla rabbia, neppure uno sull’ottimismo o la gratitudine, migliaia di ricerche sulla paura e sull’ansia, nessun lavoro scientifico e sistematico sull’empatia e la compassione.
Sapevamo quali fattori avrebbero portato le coppie al divorzio, ma non quali avrebbero potuto garantire loro una vita felice; conoscevamo perfettamente gli effetti negativi dello stress, i fattori che predispongono alle malattie e quali conseguenze negative comporta un trauma, ma non sapevamo indicare i fattori in grado di migliorare il nostro benessere psicofisico e renderci più felici.
Ecco perché è nata la scienza della felicità: Seligman e Peterson hanno voluto colmare una lacuna ingiustificata».
Tutti gli scienziati della felicità sono partiti da una domanda fondamentale: che cos’è la felicità? Per lo psicologo israeliano Daniel Kahneman, vincitore del Premio Nobel nel 2002, una frase apparentemente banale come “Sono felice” può esprimere quattro cose molto diverse tra loro.
In primo luogo, può voler dire: «Sento che la mia vita va bene, sono soddisfatto di come è andata e di come va. Sono appagato. Sono orgoglioso delle scelte che ho fatto e degli obiettivi che ho raggiunto, sono contento dei progetti che ho in cantiere».
In secondo luogo può voler dire: «Sono una persona entusiasta, sempre positiva, aperta, energica, per nulla tendente alla depressione. Sono il classico tipo che vede sempre il bicchiere mezzo pieno, un ottimista che non si piange mai addosso».
In terzo luogo, può voler dire: «In questo momento provo un’intensa emozione di gioia, o gratitudine, meraviglia, sintonia, trasporto, venerazione, tenerezza». In quarto e ultimo luogo, può voler dire: «Provo un’intensa sensazione fisica di piacere che mi fa stare molto bene».
Sono quattro esperienze diverse e gli studiosi hanno concentrato la loro attenzione soprattutto sulla prima e sulla terza definizione, ritenendo la seconda e la quarta assai meno interessanti.
Lo psicologo americano Edward Diener, un altro dei pionieri di questa nuova scienza, ha definito la felicità come un benessere generale, legato sia alla soddisfazione della propria vita sia a un certo numero di emozioni positive persistenti.
Sulla scia di Diener, altri studiosi hanno concepito la felicità come l’unione di due componenti diverse: la prima è data dalla sensazione che la nostra vita sia nel complesso buona e meritevole, in altri termini è la soddisfazione che proviamo per ciò che abbiamo raggiunto e vissuto.
La seconda componente è legata alla frequenza con cui proviamo emozioni positive rispetto a emozioni e stati d’animo negativi.
Per Sonja Lyubomirsky, docente di Psicologia presso l’Università della California-Riverside (Usa), «la felicità è l’esperienza della gioia, della contentezza e del benessere positivo, combinata con la sensazione che la propria vita sia buona, degna e piena di significato».
2. Come si misura?
Una volta definita la felicità, gli scienziati si sono posti un nuovo problema: come studiarla? E soprattutto come misurarla?
«Sono stati messi a punto diversi metodi per studiare e misurare la felicità», spiega lo psicologo Dacher Keltner.
«Gli studi osservazionali trasversali considerano un campione di persone in un singolo momento della loro vita e cercano di capire se e quanto si sentano felici attraverso dei sondaggi».
In questo modo gli studiosi raccolgono una immensa mole di dati e possono cercare delle correlazioni: possono cioè cercare di capire se ci sia un legame tra felicità e ricchezza materiale (chi si dichiara molto felice è sempre anche ricco o no?), tra felicità e ottimismo (si dichiarano più felici le persone ottimiste o i pessimisti?), tra felicità e sesso (sono più felici gli uomini o le donne, gli sposati o i single?) e via dicendo.
«Gli studi longitudinali», prosegue Dacher Keltner, «studiano un piccolo numero di persone, seguendo le loro vite con attenzione e nel corso di diversi anni. Sono studi ambiziosi, complicati e costosi, ma riescono a darci elementi utili a capire quale sia la traiettoria di una vita felice, quali fattori aiutino a realizzarla e come la felicità si leghi all’aspettativa di vita o alla salute.
Per verificare alcune ipotesi o correlazioni, inoltre, effettuiamo anche studi sperimentali, cioè realizziamo esperimenti in condizioni controllate. E non è tutto: a volte non riusciamo a misurare la felicità attraverso i questionari, cioè non possiamo domandare cose del tipo “Quanto ti senti felice in una scala da 1 a 10?”.
Con i bambini, ad esempio, è impossibile. In questi casi, misuriamo i cosiddetti indicatori comportamentali e fisici di felicità: le espressioni del viso e degli occhi, la tensione di certi gruppi muscolari, la postura.
Questi e i dati neurofisiologici (come la misura dei livelli di due neutrotrasmettitori, la serotonina e la dopamina) possono essere elaborati e trattati quantitativamente, come richiede un rigoroso approccio scientifico».
La psicologa americana Sonja Lyubomirsky sostiene che il 50 per cento circa per cento del livello di felicità di una persona dipende dai suoi geni, è cioè un fattore ereditario o determinato geneticamente; lo dimostrano diversi studi sui gemelli.
Il 10 per cento del nostro livello di felicità è condizionato dalle circostanze e dalle situazioni esterne: vivere in pace o in guerra, in solitudine o in compagnia, in un periodo di crisi o di prosperità fanno un’innegabile differenza. Il restante 40 per cento del nostro tasso di felicità dipende invece da noi.
È tanto o poco? Dipende: per i pessimisti e per chi vede il bicchiere mezzo vuoto, nelle nostre mani abbiamo soltanto una piccola parte della nostra felicità; per gli ottimisti, invece, ciò corrisponde quasi alla metà.
Poco o tanto che sia, è su di esso che possiamo e dobbiamo agire. La buona notizia è che, entro questi limiti, tutti potremmo essere un po’ più felici. Anche adesso.
3. Spazziamo via i malintesi
Gli studiosi analizzano i dati raccolti e organizzano esperimenti per raggiungere due obiettivi.
Il primo è quello di spazzar via i malintesi, gli stereotipi, i falsi miti e i luoghi comuni sulla felicità, liberando il campo da tutto ciò che non è supportato da evidenze scientifiche.
Mette in guardia Emiliana Simon-Thomas, direttrice scientifica del Greater Good Science Center e docente presso l’Università di Berkeley (California, Usa): «Molti credono che la felicità sia la magica condizione in cui tutti i nostri bisogni e desideri personali sono soddisfatti, la nostra vita ci appare fantastica, proviamo una meravigliosa, prolungata sensazione di piacere e non abbiamo mai emozioni negative, cioè non sentiamo dolore, tristezza, rabbia. No. Non è affatto così».
In primo luogo, i nostri bisogni e desideri personali non saranno mai tutti soddisfatti, quindi aspettarsi una cosa del genere è quanto meno esagerato. In secondo luogo, le emozioni negative sono parte dell’esistenza: dobbiamo accettarle.
Se perdiamo una persona cara, proveremo molta tristezza per un periodo di tempo più o meno lungo: è così per tutti, è la vita.
Il lutto e il dolore, in questo caso, non pregiudicano la nostra capacità di recuperare il benessere psicofisico: dobbiamo avere pazienza, non nutrire aspettative irrealistiche e capire che la felicità è un equilibrio di componenti, non una condizione di perenne assenza di dolore o di assoluto continuo piacere.
L’altro importante obiettivo degli studi sulla felicità è legato alla comprensione dei fattori che fanno la felicità (o l’infelicità) delle persone. Si tratta un obiettivo importante perché ci consente di capire se e come sia possibile essere più felici (o meno infelici). Perché questo è ciò che in fondo interessa davvero tutti noi, scienziati e non.
Ma i soldi fanno la felicità? Dipende da come li spendi.. Nel 2010, lo psicologo israeliano Daniel Kahneman, vincitore del Premio Nobel per l’economia nel 2002, e l’economista scozzese Angus Daeton, docente presso l’Università di Princeton (Usa), pubblicano uno studio scientifico che fa scalpore perché con grande rigore offre una chiara risposta alla domanda «I soldi fanno la felicità?».
I due studiosi sottolineano che un salario troppo basso rende infelici: per stare bene dobbiamo soddisfare tutte le nostre necessità di base, non aver debiti e possedere abbastanza denaro da proteggerci contro gli imprevisti (malattie, separazioni, perdita di lavoro, ecc.). Il denaro quindi fa la felicità.
Con un limite, però. Secondo i calcoli di Kahneman e Deaton, al di sopra di uno stipendio annuale netto di 75mila dollari, pari a circa 60mila euro, il benessere emotivo non cresce più. Oltre quella cifra, possiamo pure raddoppiare il conto in banca, ma non per questo saremo doppiamente felici.
Alcuni studiosi hanno sottolineato che a renderci più felici non sono tanto i soldi in sé, quanto il modo di spenderli.
Due psicologi americani, Ryan Howell della San Francisco State University e Thomas Gilovich della Cornell, hanno puntato il dito contro una convinzione diffusa, ma priva di fondamento: molte persone credono che acquistare beni materiali sia più saggio e ci renda più felici dello spendere soldi nell’acquisto di esperienze di vita (viaggi, concerti, mostre, attività sportive e sociali).
In realtà, molti studi dimostrano il contrario: sono le esperienze di vita, condivise con amici e familiari, a farci stare meglio e a darci più piacere rispetto al mero possesso di oggetti, anche se la pubblicità e la frenesia consumistica ci fanno credere il contrario.
Come scrive Elizabeth Dunn, psicologa dell’Università canadese della British Columbia e autrice assieme a Michael Norton del best-seller Happy Money (Il denaro e la felicità, 2014), se il denaro non ti rende felice è perché lo stai spendendo male.
Il suo consiglio? Supponiamo di avere un aumento di stipendio; potremmo comprarci un auto di lusso o rifarci il guardaroba o l’arredamento. Ebbene, le ricerche ci dicono che la scelta migliore è un’altra: pagare un segretario o un collaboratore domestico e ricavare più tempo libero da dedicare al partner o ai figli.
4. Felici ma non troppo
- FELICI MA NON TROPPO: IL RISCHIO È DIVENTARE MENO CREATIVI ED ECCESSIVAMENTE SICURI DI SE STESSI
Lo sostiene una studiosa di tutto rispetto: June Gruber, docente di Psicologia presso l’Università di Yale (Usa) e direttrice del Yale Positive Emotion and Psychopathology Laboratory. Con il supporto di due colleghe, Iris Mauss e Maya Tamir, la Gruber ha condotto una serie di ricerche e di meta-analisi (analisi su ricerche condotte da altri) ed è giunta a quattro conclusioni sconcertanti.
Troppa felicità deprime la creatività e ci rende meno capaci di affrontare sfide difficili.
Marc Alan Davis ha dimostrato nel 2008 che una felicità molto intensa non aiuta il processo creativo, ma lo ostacola. Barbara Fredrickson, dal canto suo, ha trovato che troppe emozioni positive ci rendono un po’ rigidi e intransigenti soprattutto di fronte a nuove sfide.
Troppa felicità ci fa sottovalutare i rischi presenti nelle situazioni pericolose.
Quando siamo felici ci sentiamo invulnerabili, più disinibiti e più inclini a sperimentare situazioni nuove; queste attitudini potrebbero farci sottovalutare o addirittura spingerci a ignorare i segnali di pericolo attorno a noi. Più felici siamo, insomma, più facilmente adottiamo comportamenti rischiosi.
Quando bisogna competere, la felicità non aiuta affatto.
Gli psicologi Charles Carver e Maya Tamir hanno trovato che le persone molto felici coinvolte in una competizione sportiva o professionale hanno performance peggiori di chi felice non è, a riprova del fatto che certe emozioni negative come la rabbia o il desiderio di rivalsa ci caricano di più e ci aiutano a superare gli ostacoli meglio della gioia.
Inseguire la felicità a tutti i costi rende infelici.
Iris Mauss ha recentemente dimostrato che l’ossessione per la felicità fa più male che bene perché procura molto stress. Va anche detto che la felicità mostra sempre un lato paradossale: più la si insegue, più sembra sfuggire.
- I PIÙ FELICI DEL MONDO VIVONO NEL NORD EUROPA
Ben due rapporti internazionali misurano il tasso di benessere, felicità e prosperità dei vari paesi del mondo. L’Italia non brilla mai in classifica.
Il World Happiness Report, pubblicato dal Sustainable Development Solutions Network delle Nazioni Unite e curato da eminenti professori universitari, valuta la felicità degli abitanti di 150 paesi del mondo, prendendo in considerazione l’aspettativa di vita, la ricchezza di relazioni sociali, la possibilità di compiere liberamente alcune scelte, la libertà dalla corruzione, la generosità e il Prodotto interno lordo (Pil) nominale pro capite.
Ai primi posti nel 2018 si classificano Danimarca, Norvegia, Svizzera, Olanda, Svezia e Canada; agli ultimi Togo, Rwanda, Burundi, Repubblica Centrafricana, Benin. L’Italia non va granché bene: è solo al 45esimo posto.
Il Legatum Institute è un’organizzazione indipendente con base a Londra e pubblica ogni anno il Legatum Prosperity Index, che misura il tasso di prosperità e benessere di diversi Paesi del mondo.
Nel 2018, i Paesi con il punteggio più alto sono Norvegia, Svizzera, Nuova Zelanda, Danimarca, Canada e Svezia; quelli col punteggio più basso Afghanistan, Yemen, Burundi, Congo, Ciad. L’Italia si piazza al 37esimo posto su 142 posizioni.
5. Musica e felicità
Le canzoni pop hanno due temi preferiti: l’amore e la felicità.
Tanti anni fa, al Festival di Sanremo 1982 trionfavano Al Bano e Romina Power cantando Felicità / è tenersi per mano / andare lontano / la felicità...
Oggi canticchiamo tutti il ritornello di Pharrell Williams Because I’m happy /Clap along if you feel like a room without a roof...
La cosa interessante è che certe canzoni non si limitano a parlare di felicità, ma, grazie alle parole, al ritmo o alla musica, sono davvero capaci di comunicarci gioia e di sollevarci il morale.
Lo ha dimostrato un team dell’Università del Missouri, guidato dalla psicologa Yuna Ferguson: «La nostra ricerca offre una conferma scientifica a ciò che molte persone fanno già inconsapevolmente: ascoltare certi tipi di canzoni per migliorare l’umore e vincere la tristezza». Già, ma quali canzoni rivelano questo meraviglioso potere?
- Billboard, il celebre settimanale Usa dedicato alla musica e ai musicisti, ha stilato una classifica di canzoni da ascoltare nelle “giornate no”; in testa spiccano tre canzoni anti-tristezza: Don’t Worry, Be Happy, un allegro ritmo reggae cantato da Bobby McFerrin (1988), Happy Days, la sigla del celeberrimo serial tv, uno scatenato rock ‘n roll creato nel 1976 da Pratt & McClain, e la già citata Happy di Pharrell Williams (562 milioni di click solo su Youtube).
- I ricercatori del Montreal Neurological Institute (Canada) hanno condotto uno studio per verificare gli effetti della musica sull’umore e hanno messo a punto una lista di brani che aiuterebbero il cervello a rilasciare dopamina, il neurotrasmettitore del piacere. Due i brani di musica classica consigliati dai ricercatori canadesi: Clair de Lune, il terzo movimento della Suite bergamasque, composta per il solo pianoforte da Claude Debussy, e il quarto movimento della Sinfonia Dal Nuovo Mondo di Antonín Dvorák.
- La Bbc inglese ha condotto una piccola inchiesta tra un migliaio di ascoltatori, chiedendo loro quali canzoni avessero il potere di combattere il malumore. Si sono aggiudicati la vittoria Bohemian Rhapsody dei Queen (rock, 1975), Dancing Queen degli Abba (pop, 1976) e ancora Happy di Pharrell Williams (neo soul, 2013).
- Ecco le caratteristiche dei brani in grado di aumentare il tasso di felicità: devono avere un alto numero di bpm (battute per minuto) per alzare leggermente il battito cardiaco, essere in scala maggiore (per esempio una scala di do senza diesis e bemolle) e non in scala minore in modo da avere un effetto anti-tristezza e le parole devono comunicare emozioni positive.