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Infertilità: che cosa c’è di vero?

Se cercate dati sull’infertilità troverete citata spesso una stima dell’Organizzazione mondiale della Sanità secondo la quale questo fenomeno riguarda il 15 per cento delle persone.

Significa che una coppia su sette non riesce ad avere un figlio. O meglio, che non ci riesce pur avendo rapporti sessuali regolari, due o tre volte alla settimana.

Questo dato è universalmente accettato e ripetuto, ma non è l’unico che circola. Secondo l’American Society for Reproductive Medicine statunitense, nel Paese nordamericano si è intorno all’11 per cento.

La stima del National Health Service britannico supera, invece, quello dell’Oms attestandosi al 16 per cento e secondo un campione di ginecologi, andrologi e urologi italiani, interpellati dal Censis, da noi i problemi di infertilità riguarderebbero addirittura il 20-30 per cento delle coppie.

E il 90 per cento degli intervistati ritiene che la percentuale stia crescendo. In realtà, il tasso di infertilità è “difficile da determinare”, come ammette anche l’Oms. I dati sull’infertilità mostrano bene quanto poco ancora si sappia su un tema così importante.

Ma anche quanto siano alte l’attenzione e la preoccupazione in tutto il mondo. La difficoltà ad avere figli è una delle questioni più dibattute e coinvolge, come si sa, non solo aspetti medici, ma anche (o soprattutto) questioni economiche e sociali.

Le “sfortunate” campagne del Ministero della Salute italiano per promuovere il primo “fertility day” e le polemiche che hanno acceso ne sono un’altra prova evidente.

Ma cosa c’è di vero sull’infertilità? Ecco i numeri, le cause e le ultime ricerche su un fenomeno che sta preoccupando sempre più i Paesi occidentali.

 

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1. Scegliere il momento giusto

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Il fatto è che la scelta di avere figli, come si sa, viene posticipata sempre più a lungo.

Per ragioni economiche o di carriera e per molti altri motivi. L’età media a cui si diventa mamme per la prima volta in Italia oggi è oltre i 30 anni, mentre in Europa è appena sotto.

Alla clinica Mangiagalli di Milano lo scorso anno le donne che hanno partorito tra i 35 e i 44 anni hanno addirittura superato quelle tra i 25 e i 34 anni. Con questi dati è forse più facile capire la sensazione diffusa che l’infertilità sia in netto aumento.

Più la ricerca di una gravidanza viene rimandata e più, a causa dell’età, diventa difficile che la gravidanza stessa si verifichi. Se una coppia decide di avere un figlio quando la donna ha più di 30 anni e non riesce subito ad avere un bambino, ogni anno che passa la situazione peggiora, facendo crescere l’ansia.

Soprattutto dopo i 35 anni si assiste a un vero e proprio crollo della fertilità femminile: a questa età la probabilità di concepire nell’arco di un anno è ancora del 95 per cento, tre anni dopo scende al 75 per cento.

Perché un organismo più anziano faccia maggiore fatica a procreare è un concetto molto più semplice da capire in senso generale – è ovvio che la natura agisca così – piuttosto che cercando di comprendere il meccanismo preciso che lo determina.

La maggior parte delle ricerche si focalizzano sull’invecchiamento degli ovociti e cercano di scoprire perché il loro numero e la loro qualità diminuisca, mentre poche si occupano dell’ambiente in cui queste cellule si sviluppano.

Alla Northwestern University di Chicago, nell’Illinois (USA) hanno invece studiato l’invecchiamento delle ovaie e il ruolo delle infiammazioni e delle cicatrici che si accumulano in questo organo con il passare degli anni.

“Al microscopio ovociti di animali giovani e anziani possono apparire identici, ma l’ambiente in cui si sviluppano è completamente diverso e questo è un campo di indagine sottovalutato”, dice la portavoce del gruppo di ricerca, Francesca Duncan.

E c’è un altro dato al quale si comincia a prestare sempre più attenzione: anche per gli uomini la capacità di procreare, e di procreare figli sani, diminuisce con l’età (alcuni studi segnalano i 35 anni come soglia critica anche per il declino della fertilità maschile).

Il fatto che una donna non porti a termine una gravidanza, per esempio, non è necessariamente dovuto a problemi suoi: l’embrione potrebbe rinunciare spontaneamente a svilupparsi per un difetto prodotto dal corredo cromosomico maschile, come è stato mostrato da uno studio dell’Università di Salt Lake City, negli Stati Uniti.

L’aborto spontaneo è una delle cause di infertilità a più alto impatto emotivo per le donne, nelle quali genera un forte senso di insicurezza e inadeguatezza.

Le linee guida dei National Institutes of Health statunitensi (NIH, ente simile al nostro Istituto Superiore di Sanità, ma con molte più risorse a disposizione per la ricerca) ammettono che si sa ben poco delle cause degli aborti precoci e indicano questo campo di ricerca tra le priorità, aggiungendo che bisognerebbe indagare soprattutto sulla qualità dei gameti coinvolti nelle gravidanze che non riescono a proseguire.

Oggi si pensa che tra le percentuali di infertilità maschile e femminile non ci sia molta differenza. L’idea che la difficoltà o l’incapacità di procreare (la vera e propria sterilità) di una coppia dipenda solo dalla donna è ormai consegnata al passato.

Anche se l’apparato riproduttivo femminile appare decisamente più complesso di quello maschile, per gli uomini esistono molte possibili cause di infertilità. Il numero di spermatozoi nel liquido seminale, secondo alcuni studi, si sarebbe ridotto negli ultimi decenni.

Tuttavia, la loro conta, che è la prima cosa che si indaga, non sembra affatto un indicatore sufficiente. È importante la qualità degli spermatozoi, la loro capacità di muoversi e la presenza di difetti nel loro corredo genetico.

Basta pensare che la spermatogenesi dura dai 60 agli 80 giorni: dal momento in cui uno spermatozoo comincia a formarsi a quello in cui viene eiaculato trascorrono quindi oltre due mesi, durante i quali può essere danneggiato in molti modi.

Alla Harvard Chan School of Public Health di Boston hanno suddiviso un campione di uomini in base alla frutta e alla verdura consumate. Vegetali diversi richiedono quantità diverse di pesticidi per la loro coltivazione.

Ebbene, negli uomini che consumano più ortaggi coltivati con maggiore uso di sostanze chimiche è stata notata una riduzione di spermatozoi del 49 per cento e una diminuzione di quelli di forma normale del 32 per cento.

 

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2. Quanto costa l'ambiente?

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Il modo in cui agiscono i fattori di rischio di tipo ambientale passa soprattutto per il cosiddetto “stress ossidativo”, ossia quella condizione causata dall’eccessiva produzione di radicali liberi (i prodotti di “scarto” che si formano all’interno delle cellule) da parte dell’organismo, che non riesce più a smaltirli normalmente.

Sono i radicali liberi a determinare, nell’uomo, l’aumento di spermatozoi anomali. Dal 30 all’80 per cento dei casi di infertilità maschile sarebbero legati all’eccessivo stress ossidativo.

E ad aumentarlo possono contribuire non solo i pesticidi. Di certo agiscono così il fumo di sigaretta, l’esposizione all’inquinamento e le infezioni. Ecco perché alcune forme di infertilità maschile possono essere risolte anche con vitamina A e vitamina C. Ma sono ben poche.

E le sorprese sono sempre in agguato. Il bisfenolo A è una sostanza chimica usata per produrre il policarbonato, con cui si fanno, per esempio, i biberon di plastica e le resine che rivestono molte lattine per bevande.

Da decenni è sospettato di essere dannoso e, tra l’altro, corresponsabile di un aumento dell’infertilità, soprattutto di quella maschile. Non c’è nessuna prova certa e perciò continua a essere usato. Però è stato in molti casi sostituito dal bisfenolo S.

Ma alla University of California di Los Angeles l’estate scorsa hanno scoperto studiando i topi che il bisfenolo S potrebbe essere più dannoso del bisfenolo A per gli ovociti. Capire il ruolo giocato dall’ambiente non è dunque facile, ma appare di grande importanza, soprattutto nel mondo industrializzato e inquinato dei Paesi occidentali.

Le linee guida dei National Institutes of Health statunitensi chiedono di allargare lo sguardo a tutti i processi epigenetici. L’epigenetica studia il comportamento del DNA, ma non le sue mutazioni.

Analizza il modo in cui esso si attiva all’interno di ogni processo del nostro corpo, scegliendo quali geni coinvolgere e quanto farli lavorare. Ma esamina anche come l’ambiente modifica il comportamento del DNA, anche senza provocare mutazioni irreversibili.

Le modificazioni epigenetiche dei gameti, maschili e femminili, durante il loro sviluppo e durante lo sviluppo dell’embrione prima del suo impianto nell’utero sono, secondo i National Institutes of Health, un altro campo di indagine prioritario.

Una gran mole di dati segnala come gli stili di vita possano alterare il funzionamento del codice genetico, anche danneggiando le possibilità di avere figli. Alcuni fattori di rischio sono indagati da lungo tempo.

È il caso del peso che sarebbe responsabile fino al 12 per cento dei casi di infertilità, secondo la American Society for reproductive Medicine. I meccanismi che legano sovrappeso e sottopeso alla minore fertilità sono noti.

Negli uomini il sovrappeso provoca squilibri ormonali, riduce la produzione di testosterone, il principale ormone maschile, e aumenta quella di ormoni femminili.

Nelle donne lo squilibrio ormonale si verifica sia in caso di sovrappeso sia di sottopeso, colpendo gli ormoni femminili che regolano il ciclo mestruale, fino a farlo scomparire quando il peso scende sotto una certa soglia.

A questo proposito uno studio del Salk Institute di alcuni anni fa ha messo in luce anche un meccanismo meno ovvio tra alimentazione e fertilità. Quando mangiamo, il senso di sazietà indotto dai grassi si trasmette al cervello attraverso un ormone, la leptina.

Ebbene, quest’ultima sarebbe un segnale importante anche per il sistema riproduttivo femminile. In sostanza, l’organismo femminile tenderebbe a ridurre, o a bloccare, le possibilità di una gravidanza se, attraverso la leptina, arrivano segnali che il cibo è scarso.

Un sistema che avrebbe consentito alle nostre antenate di ridurre le possibilità di restare incinte durante le carestie, quando sarebbero state più rischiose.

 

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3. L'interruttore dello stress e la fecondazione artificiale

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  • L'interruttore dello stress
    Un altro fattore considerato molto importante anche perché potenzialmente modificabile, è lo stress.
    Il primo meccanismo attraverso il quale agisce appare ovvio: la riduzione del desiderio sessuale e la difficoltà ad avere rapporti sessuali frequenti.
    Kira Taylor ha condotto alla University of Louisville uno studio statistico basato sulla percezione da parte di 400 donne del proprio livello di stress.
    I dati hanno mostrato che le donne che si definiscono più sotto stress hanno fino al 45 per cento di probabilità in meno di restare incinte. Anche a parità di ogni altra condizione.
    Lo stress, dunque, agisce come un interruttore della fertilità. Una ricerca del Centro per la ricerca sul sonno e i ritmi circadiani della Northwestern University ha fornito un altro risultato legato ai fattori stressanti che fa riflettere.
    Se si espongono femmine di topo a cicli di luce e buio irregolari, le gravidanze portate a termine crollano dal 90 per cento del gruppo di controllo al 50 per cento del gruppo di cavie sottoposte allo stress di un ritmo circadiano continuamente modificato.
    Il capo della ricerca, Fred Turek, parla di “importanti implicazioni” per turniste e donne che soffrono di disturbi del sonno.

 

  • La fecondazione artificiale
    Anche se esistono trattamenti medici e farmacologici in grado di risolvere un certo numero di casi di infertilità, la ricerca si è concentrata soprattutto sulle tecniche di fecondazione assistita.
    Ma le probabilità di riuscire a mettere al mondo un figlio con una inseminazione artificiale restano decisamente basse: secondo i dati italiani della Relazione al Parlamento solo 6 donne su 100 che tentano l’inseminazione in utero arrivano a mettere al mondo un figlio e solo 7 o 8 quando si usa la fecondazione in vitro.
    Le percentuali diminuiscono drasticamente con l’aumento dell’età delle donne. Il problema principale, per aumentare i successi con le tecniche di fecondazione assistita, sembra quello di scegliere gli ovociti e gli spermatozoi migliori.
    Ogni donna, infatti, nasce con circa 7 milioni di ovociti. Di questi appena 3 o 400 verrano ovulati. Dalla pubertà in poi, a ogni ciclo, molti follicoli ovarici cominciano a maturare insieme, ma poi solo uno, quello chiamato dominante, arriva a maturazione completa.
    Analogamente, nel liquido seminale di un uomo ci sono circa 20 milioni di spermatozoi per millilitro.
    Gli scienziati vorrebbero capire e imitare la selezione adottata dalla natura per decidere quale sia il follicolo giusto e cosa segni il destino dello spermatozoo che feconda l’ovocita.
    Ma sanno anche che la scelta che avviene naturalmente è piuttosto imprecisa, come dimostra l’alto numero di ovuli che non si annidano nell’utero dopo essere stati fecondati e le gravidanze che si interrompono spontaneamente.

 

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4. Infertilità, malattie e la fecondazione assistita si è inceppata

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  • Infertilità e malattie
    Tutte le donne che si sottopongono a una chemioterapia antitumorale vedono la propria fertilità in parte compromessa.
    Prelevare ovociti prima della cura e congelarli è oggi la soluzione più utilizzata.
    Però il trattamento di stimolazione ovarica necessario prima del prelievo può favorire lo sviluppo del tumore. Una ricerca condotta anche in Italia dal gruppo di Roberto Gualtieri, professore dell’Università Federico II di Napoli, prevede il prelievo di tessuto ovarico, in cui i follicoli sono ancora in uno stadio primordiale.
    Prelevando i follicoli ovarici ancora immaturi, infatti, si possono evitare le pesanti terapie ormonali di stimolazione. Terapie pesanti non solo per le donne malate di tumore ma per tutte quelle che le affrontano.
    Congelando questo tessuto sarà possibile far maturare i follicoli solo al momento in cui si decide di usare un ovocita. In Australia, alla University of New South Wales, potrebbero aver trovato i cocktail di sostanze giuste per far maturare i follicoli in laboratorio.
    In realtà, la crioconservazione degli ovuli o degli embrioni può servire anche a rinviare una gravidanza e ottenerla con ovuli più giovani. Una donna può chiedere di conservare i propri ovuli a 20 anni e aspettare a fecondarli e trasferirli nel proprio utero a 40.
    Esistono banche che offrono questo servizio. Ma attualmente le percentuali di successo con ovuli o embrioni congelati non sembrano poi molto superiori.
    La strada per garantire davvero a ogni coppia la possibilità di procreare resta decisamente ancora lunga.

 

  • La fecondazione assistita si è inceppata
    Molte critiche, soprattutto negli Stati Uniti, puntano il dito contro il fatto che la fecondazione assistita sia soprattutto un grosso affare economico.
    In effetti, negli Usa una fecondazione assistita costa anche il doppio rispetto alla Gran Bretagna e quasi quattro volte rispetto a Paesi come Francia e Belgio. George Annas, bioetico della Boston University School of Public Health descrive la situazione come “peggio di un Far West”, in cui “alcune cliniche di grande successo competono brutalmente per conquistare i pazienti”.
    In Italia la fecondazione assistita avviene nella maggioranza dei casi in strutture pubbliche o convenzionate, anche se la percentuale di rimborso per le coppie varia da regione a regione.
    Ma dal 2011 la sua crescita nel nostro Paese si è fermata, dicono i dati della Relazione presentata ogni anno al Parlamento sullo stato di attuazione della Legge 40, quella che disciplina la materia.
    I trattamenti di primo livello, quelli in cui la fecondazione dell’ovulo viene tentata direttamente nell’utero della donna, sono stati nel 2014 addirittura meno che nel 2005.
    I trattamenti di secondo livello, quelli in cui gli ovuli vengono prelevati dalla donna, fecondati in laboratorio e poi gli embrioni vengono trasferiti nell’utero, sono invece rimasti sostanzialmente stabili tra il 2011 e il 2014 dopo una corsa che aveva portato a un aumento di oltre l’80 per cento di interventi in soli sette anni.
    Nessuna analisi, per ora è stata tentata per spiegare il fenomeno. Il costo in denaro ha probabilmente un certo peso, vista la coincidenza con l’ultima grande crisi economica.

 

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5. Embrioni da cellule adulte

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L’ultima frontiera dell’inseminazione artificiale riguarda la possibilità di arrivare a creare embrioni partendo da cellule di un organismo adulto.

Nel 2009 fece scalpore la notizia che ricercatori della Stanford University erano riusciti a creare gameti maschili e femminili, ossia spermatozoi e ovociti, partendo da cellule staminali embrionali.

Oggi centri di ricerca come quello dell’università di Kyushu, in Giappone, sono andati oltre: le cellule staminali da cui ottenere i gameti non sono più quelle embrionali, ma cellule adulte riprogrammate in modo che tornino cellule staminali.

E con queste cellule sono state ottenute gravidanze portate a termine. Per ora nei topi di laboratorio.

In pratica, oggi è possibile prendere una cellula di un individuo adulto e riportarla allo stadio di cellula staminale, grazie alla tecnica di riprogrammazione cellulare indotta, premiata con il Nobel nel 2012.

Da queste staminali oggi si riesce a ricavare un ovocita o uno spermatozoo. E, infine, da queste due cellule è possibile ottenere un nuovo individuo.

Che non è un clone, bensì davvero un figlio dei due individui da cui sono state prelevate le cellule di partenza perché nel figlio il loro DNA si è ricombinato, proprio come avviene in una gravidanza naturale.

Con questa tecnica, anche una persona completamente sterile potrebbe mettere al mondo un figlio con un partner. In più, potrebbero farlo anche due individui dello stesso sesso, persino due uomini, a patto di trovare un utero “in affitto”.

 

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