È davvero quella umana la specie più intelligente?
I babbuini distinguono le parole di senso compiuto da quelle sconclusionate.
Gli scimpanzè ricordano le sequenze numeriche meglio di noi. I bonobo nascondono gli strumenti di lotta come le nazioni gli armamenti.
In Giappone, uno scimpanzé di nome Ayumu, dopo aver osservato una striscia numerica scorrere lungo uno schermo, è stato capace di battere regolarmente gli umani ricordando la sequenza meglio di loro.
E che dire degli orango dello zoo di Miami, che addirittura sanno usare l’iPad? Essere battuti in un test mnemonico è solo uno dei tanti esempi di come la specie umana non sia sempre la più intelligente.
Non è semplice definire l’intelligenza, anche nell’ambito della nostra specie, viste le sue molteplici sfaccettature che vanno al di là di aspetti quali la memoria e il QI.
Individui diversi fanno meglio cose differenti: l’intelligenza è una grandezza relativa e non misurabile e comprende la capacità di piani care, imparare, risolvere problemi, pensare in maniera astratta e afferrare concetti complessi.
Non sorprende, dunque, che la misurazione dell’intelligenza di altri animali rappresenti una vera e propria sfida, soprattutto perché, tradizionalmente, la scienza utilizza test modellati sugli esseri umani per valutare altre specie: invece, se c’è un gruppo che dovrebbe essere adottato come riferimento, è proprio quello delle scimmie.
Tetsuro Matzusawa, professore di linguistica ed esperto di intelligenze presso l’Università di Kyoto, ritiene che possa esserci una spiegazione evolutiva alla base delle straordinarie capacità mnemoniche di Ayumu.
Gli scimpanzé memorizzano gli elementi ambientali molto più velocemente degli esseri umani perché, per sopravvivere, hanno bisogno di valutare le situazioni contingenti con grande immediatezza.
Quando i nostri antenati hanno acquisito competenze verbali, questa capacità ha ceduto il passo alla competenza (più impegnativa in termini cognitivi) della rappresentazione linguistica della memoria, ovvero come riferiamo ad altri le nostre esperienze.
La performance di Ayumu non solo ci obbliga a ripensare la nostra definizione di intelligenza ma suggerisce anche che molti animali abbiano già raggiunto il massimo sviluppo richiesto dall’ambiente che li circonda.
In tutto il Pianeta gli animali stanno dimostrando di possedere doti intellettive ritenute in passato esclusivamente umane, rivelandosi molto più acuti di quanto pensassimo. Vediamo insieme alcuni esempi molto significativi.
1. Megattere e l'uso degli strumenti
Tempo fa l’uso di strumenti era visto come una competenza essenziale per distinguere l’uomo dagli altri animali dal punto di vista delle prestazioni intellettive.
Oggi, però, sappiamo che le lontre si servono di pietre per spaccare i gusci dei crostacei e che i corvi sanno costruire uncini per dissotterrare vermi: l’uso di strumenti è una pratica incredibilmente diffusa nel regno animale.
Lo spettacolo più stupefacente, però, è quello offerto dalle megattere dello Stretto di Chatham, in Alaska, che catturano pesci utilizzando una tecnica senza uguali (foto).
La caccia ha inizio quando uno dei cetacei esegue un breaching, una improvvisa emersione seguita da un tuffo per rientrare in acqua. Di norma le megattere si spostano da sole ma questo “salto” richiama altri esemplari che formano così un gruppo.
Anche quindici megattere si ritrovano a nuotare insieme finché, una dopo l’altra, scompaiono con un’immersione profonda sincronizzata.
Mentre uno dei cetacei usa lo sfiatatoio per produrre un “muro” compatto di bollicine, un altro s’immerge fin quasi al fondale ed emette “richiami alimentari”, versi acuti e prolungati per spaventare le aringhe, che così si dirigono in superficie.
Le altre balene seguono l’autore dei richiami sonori, mentre il cetaceo intento a creare bolle d’aria si avvicina sempre più al branco di aringhe in emersione. Tutto ciò dà luogo a uno strumento di caccia estremamente efficace, una fitta “rete” di bollicine, nella quale restano intrappolati i pesci.
Fred Sharpe, dell’Alaska Whale Foundation, studia queste megattere da ormai trent’anni, utilizzando idrofoni (microfoni subacquei) per comprendere meglio la natura e la funzione dei richiami alimentari, che fanno parte dell’articolato repertorio vocale delle balene.
Dalla superficie immobile e silenziosa, Fred si protende ad ascoltare i “dialoghi” tra i cetacei che gli danno un’indicazione di quando le balene riemergeranno. I richiami si fanno sempre più urgenti e prolungati, fino a diventare un unico suono acuto e continuo.
Dopo pochi secondi le megattere emergono: sembrano gigantesche cozze, con le bocche spalancate a mostrare i fanoni pronti a intercettare le aringhe che saltellano in superficie.
In collaborazione con la National Geographic Society, Fred ha fissato speciali telecamere dette crittercam sul corpo delle balene, per registrare dati visivi, sonori e ambientali e osservare da una prospettiva subacquea il fenomeno del bubble feeding.
Le straordinarie immagini ottenute, che mostrano le balene all’inseguimento delle aringhe fino alla superficie tra spesse pareti di bolle, hanno consentito a Fred di scoprire nuovi dettagli su questa complessa tecnica di cattura.
Ogni esemplare deve svolgere il proprio compito con precisione assoluta, senza nel frattempo perdere d’occhio gli altri. Se la rete viene stretta troppo presto, non si cattureranno abbastanza pesci; se invece si aspetta troppo, il branco di aringhe sfuggirà.
Per avere successo, questo tipo di tecnica richiede la massima coordinazione e grandi doti intellettive, che collocano le megattere tra i più raffinati utilizzatori di strumenti del Pianeta.
2. Gli elefanti e la memoria di ferro
Nell’inospitale scenario del deserto del Kalahari, nell’Africa meridionale, ricordare dove si trovano risorse alimentari e idriche è essenziale per la sopravvivenza, soprattutto quando si ha bisogno di bere 200 litri d’acqua e di consumare 150 kg di cibo al giorno.
Gli elefanti, com’è noto, non dimenticano: Mike Chase di Elephants Without Borders, elefanti senza Frontiere, sta raccogliendo prove delle straordinarie facoltà mnemoniche di questi animali, in grado di ricordare luoghi visitati anche solo una volta nella loro vita.
Fin dalla nascita, un elefante africano inizia a memorizzare l’ubicazione di raccolte d’acqua e risorse alimentari, seguendo la matriarca che guida la mandria attraverso gli sconfinati spazi desertici.
Mike ha dotato diverse femmine dominanti di radiocollari, per poter tracciare gli spostamenti di ogni mandria. I suoi dati confermano che gli elefanti, oltre a essere in grado di ricordare posti frequentati decenni prima, sanno anche con esattezza quando si ripresentano le condizioni ideali per farvi ritorno, pur dovendo percorrere enormi distanze.
Ancora più impressionante è il fatto che gli elefanti sembrano passarsi le informazioni da mandria a mandria: ciò implica la capacità di formulare e comunicare, in qualche modo, dati specifici relativi ad aree geografiche e periodi dell’anno.
Per esempio, di recente migliaia di elefanti provenienti da luoghi distanti centinaia di chilometri tra loro si sono radunati al Savuti Channel nel Delta dell’Okavango in Botswana, dopo che il canale era rimasto in secca per trent’anni.
Gli elefanti comunicano tramite ultrasuoni a una frequenza di 20Hz, il limite inferiore dell’udibilità umana.
Gli ultrasuoni attraversano distanze anche di 10 km ma resta tuttora inspiegato come questi campioni della memoria, anche se separati da migliaia di chilometri, sappiano fare ritorno in contemporanea nel medesimo luogo.
3. Comunicazione - Gli animali possono imparare a usare simboli
Panbanisha (foto accanto) è un bonobo femmina di 16 anni che vive con altri sette esemplari di questa specie presso il Great Ape Trust, nello Iowa, Stati Uniti .
Sa comunicare utilizzando simboli che rappresentano termini inglesi.
Per dialogare con Panbanisha si possono indicare dei simboli su una lavagna, sebbene questa scimmia sia in grado di capire anche le parole.
Insegnando ai primati a comunicare con il linguaggio degli umani si ottengono senz’altro informazioni interessanti: tuttavia, potremmo scoprire molto di più sui meccanismi mentali degli animali se potessimo comprendere il linguaggio che utilizzano per comunicare tra loro.
Nel regno animale si fa uso di comunicazione verbale e non verbale, il cui significato è chiaro a pochissime persone.
Tra queste c’è Monty Roberts, che ha iniziato a studiare il linguaggio dei cavalli selvaggi del deserto del Nevada oltre cinquant’anni fa, scoprendo che i mustang adottano una comunicazione corporea complessa, ricca di sfumature sottili ma estremamente significative.
Monty ha chiamato questo linguaggio Equus, dal nome scientifico del cavallo. Equus comprende almeno 170 gesti che coinvolgono tutto il corpo, tra i quali abbassare il collo e puntare le orecchie all’indietro per espellere dalla mandria un esemplare ostracizzato.
Un’altra espressione gestuale prevede una leggera contrazione muscolare e posture strategiche di occhi, orecchie e del resto del corpo, oppure le azioni di leccare e masticare che hanno come effetto un abbassamento dei livelli di adrenalina e indicano lo stato di rilassamento.
Tutti questi gesti rappresentano altrettanti complessi indizi della condizione mentale e delle intenzioni del cavallo. Monty ha utilizzato dei cardiofrequenzimetri per dimostrare la capacità innata di questi animali di “sintonizzarsi” dal punto di vista fisico ed emotivo con i propri simili.
Ciò si traduce in un vantaggio, per esempio in caso di vicinanza di predatori, perché i cavalli si mettono reciprocamente in stato di allerta apprestandosi così alla fuga.
Grazie alla comprensione del linguaggio silenzioso degli equini, Monty è in grado di domare i mustang senza coercizione fisica ma comunicando nella loro lingua per allenarli.
Utilizzando una gestualità appositamente elaborata per conquistare la fiducia del cavallo, Monty fa sì che sia l’animale a scegliere di avvicinarsi.
Oggi gli scienziati stanno studiando il linguaggio naturale di molte altre specie per comprenderne il pensiero, obiettivo che non riusciremmo mai a raggiungere imponendo loro il linguaggio umano.
4. Emozioni - Le balene e gli uccelli provano sentimenti?
Liz Bonnin, biologa e presentatrice televisiva, ha raccontato qualche anno fa:
"Mentre eravamo intenti a riprendere le balene grigie della Laguna di San Ignacio, in Messico, esemplari adulti lunghi 12 metri si sono avvicinati alla nostra barca, sostenendo da sotto i balenotteri e avvicinandoli tanto da consentirmi di toccarli. Per oltre un’ora, un giovane maschio ha giocato intorno alla nostra imbarcazione, sospingendola, tornando più volte da me per farsi grattare la pancia e adagiandosi su un fianco per poi rimanere a lungo a fissarmi" (foto).
Un’esperienza forte, vissuta come qualcosa di più di un incontro casuale e resa ancora più toccante dal fatto che, non molto tempo fa, la stessa laguna è stata teatro di sanguinose battute di caccia, durante le quali i cetacei caricavano le baleniere per difendere i propri piccoli.
Anche se non possiamo essere certi che le balene provino sentimenti simili ai nostri, è vero che il loro cervello contiene cellule fusiformi, ossia i neuroni responsabili delle emozioni, dell’empatia e dell’autocoscienza negli umani e nelle scimmie.
L’intelligenza emotiva è forse la più controversa tra tutte le facoltà animali, tanto che alcuni scienziati liquidano come aneddotici e tacciano di antropomorfismo tutti gli episodi di emotività riferiti ad altre specie.
Viste, però, le sempre più numerose conferme oggettive di sensibilità degli animali, altri ribattono che, invece, la scienza ha il dovere di sondare la possibilità che essi provino emozioni.
Una ricerca di John Marzluff, professore dell’Università di Washington, a Seattle, ha rivelato per esempio che i corvi sono in grado di distinguere tra diversi volti umani e che tali ricordi sono rinforzati da esperienze emotive.
Scansioni cerebrali eseguite su uccelli esposti alla visione di diverse maschere indossate da John mentre li cattura mostrano un’attivazione dell’amigdala, la regione cerebrale deputata alla sensazione di spavento: è dunque provato che i corvi sono in grado di sperimentare l’emozione della paura.
5. Didattica ed adattabilità
- Didattica: i suricati insegnano alla prole importanti tecniche di sopravvivenza
Trasmettere conoscenze ad altri individui è una competenza ritenuta in passato esclusivamente umana: una convinzione poi smentita dall’osservazione di molte specie.
I suricati, per esempio, insegnano con grande zelo ai loro piccoli come rendere inoffensive prede pericolose.
Per studiare le modalità utilizzate dagli adulti per mostrare alla prole come manipolare il cibo, i ricercatori del Kalahari Meerkat Project, in Sudafrica, hanno riprodotto i richiami di richiesta emessi da suricati di età diverse.
Udendo i richiami di piccoli di appena tre o quattro settimane, gli adulti offrivano invertebrati innocui o scorpioni precedentemente resi inoffensivi staccando con un morso il pungiglione.
I richiami di esemplari di 10-11 settimane spingevano invece i suricati adulti a procacciare prede vive, scorpioni più grossi senza pungiglione o scorpioni vivi intatti, poi neutralizzati insieme ai giovani.
Insieme alle api, alle formiche, agli uccelli africani detti “babbler” e ad alcuni carnivori, i suricati sono tra le poche specie che si dedicano ad attività educative di questo tipo. - Adattabilità: il cervello dei volatili può adattarsi a condizioni difficili
I biologi dell’Università del Nevada hanno dimostrato che a volte gli animali diventano più intelligenti quando devono adattarsi a condizioni ambientali particolarmente proibitive.
Esemplari di cincia grigia americana, abituati al clima rigido dell’Alaska, sono stati messi a confronto con cince originarie del Kansas in una prova che prevedeva il recupero di un verme nascosto sotto un disco di vetro.
Gli uccelli provenienti dall’Alaska hanno imparato a sollevare il vetro con grande rapidità, mentre le cince del Kansas non ci sono riuscite.
I volatili di entrambi i gruppi erano stati allontanati dalle famiglie all’età di 10 giorni e allevati in cattività: ciò è molto indicativo del fatto che le differenze tra le competenze cognitive dei due gruppi in fatto di adattabilità siano attribuibili al loro patrimonio genetico. - Rispetto a quelle del Kansas, infatti, le cince dell’Alaska hanno ippocampi più grandi.
Questa differenza nella regione cerebrale deputata alla memoria implica un’evoluzione genetica della cincia dell’Alaska, che l’ha resa più capace di ricordare dove sono state nascoste risorse alimentari: una competenza vitale quando il cibo scarseggia durante i gelidi inverni nordamericani.