L’Islam è una religione, o meglio una concezione onnicomprensiva del mondo e della realtà, su cui si nutrono spesso preconcetti (e pregiudizi) senza conoscerla a sufficienza.
Per un quinto della popolazione mondiale, l’Islam è sia religione, sia stile di vita.
I Musulmani professano una religione di pace, misericordia e perdono che nulla ha a che vedere con le gravi vicende erroneamente associate all’Islam.
Di norma, la maggior parte delle persone tendono abbastanza facilmente a identificare Islam e arabismo. Si tratta di un pregiudizio da sfatare. Gli arabi musulmani sono appena un quinto dei musulmani di tutto il mondo; ed esiste una minoranza araba cristiana, soprattutto in Egitto e in Libano.
Il più grande paese islamico è l’Indonesia e, complessivamente, la maggior parte dei musulmani è probabilmente di origine indiana. Ciò non toglie che i paesi arabi rimangano il cuore dell’Islam, anche perché il Profeta Muhammad era arabo e il Corano è stato rivelato in lingua araba.
I credenti recitano le loro preghiere in arabo anche se non lo conoscono o lo capiscono poco (come un tempo le nostre nonne recitavano le preghiere in latino senza comprendere granché di quello che dicevano), e qualsiasi dotto musulmano deve conoscere l’arabo che rimane la lingua religiosa per eccellenza.
È necessario perciò ricordare il contributo fondamentale che alla cultura islamica hanno dato soprattutto i persiani e gli indiani, ma anche i berberi o i turchi. L’arabo è stato però per secoli la lingua della cultura e della comunicazione internazionale islamica, un po’ come il latino nel mondo medievale o l’anglo-americano nel mondo contemporaneo.
L’Islam e il Cristianesimo , insieme con il Giudaismo, risalgono al profeta e patriarca Abramo, e i tre profeti discendono direttamente dai figli di quest’ultimo: Muhammad dal maggiore, Ismaele, e Mosè e Gesù da Isacco.
Abramo fondò l’insediamento che oggi è la citta di Makkah, e costrui la Ka’ba, verso la quale i Musulmani si rivolgono quando pregano.
Ma vediamo 5 parole chiave di questa antichissima religione dove il numero dei musulmani nel mondo avrebbe superato un miliardo e cinquecentomila milioni di fedeli (1.500.000.000).
1. Muhammad
Muhammad è il Profeta dell’Islam; come afferma il Corano è il “sigillo dei profeti” ma “è un uomo come gli altri”.
Le fonti per la conoscenza della vita di Muhammad sono due: il Corano e la tradizione dei hadîth.
Secondo la tradizione Muhammad apparteneva alla tribù dei Quraysh; suo nonno, ‘Abd al-Muttalib, era un personaggio di rilievo della Mecca. La data della nascita di Muhammad non è sicura, si collocherebbe comunque alla Mecca tra il 569 e il 571.
La storiografia musulmana fa coincidere la nascita di Muhammad con l’“anno dell’Elefante”, durante il quale un capo abissino attaccò con il suo esercito, nel quale vi era appunto un elefante, la Mecca.
All’epoca la città era un importante centro commerciale, politico e religioso. Situata sulle vie del commercio carovaniero tra l’Oceano Indiano e il Mediterraneo, custodiva in un antico santuario, la Ka‘bah, la Pietra Nera, probabilmente un frammento di meteorite, che era oggetto di culto e di pellegrinaggio già da parte di numerose tribù nomadi politeiste; il controllo della Ka‘bah era esercitato dai Qurayshiti.
Verosimilmente il padre di Muhammad morì prima della sua nascita; a circa sette anni il bambino perse anche la madre e fu allevato dal nonno che, prima di morire, lo affidò a uno dei suoi figli, Abû Tâlib, padre di ‘Alî.
Come la maggior parte dei giovani della sua tribù, Muhammad partecipava alle carovane commerciali che dalla Mecca portavano fino in Siria le merci provenienti dall’Arabia meridionale.
Fra il 595 e 600 si data il matrimonio di Muhammad con Khadîjah, una ricca vedova della Mecca che lo aveva preso al proprio servizio; il matrimonio gli evitò le ristrettezze economiche. Secondo la tradizione Khadîjah, che era di circa quindici anni più anziana di Muhammad, fu la prima convertita all’Islam e diede al Profeta tre figli maschi, che morirono in tenera età, e quattro femmine, tra le quali Fâtimah.
Secondo la tradizione, verso il 610 Muhammad ebbe le prime rivelazioni. Durante un ritiro spirituale sul monte Hirâ, in una grotta, una notte, chiamata poi nel Corano laylat al-qadr (notte del destino), gli apparve l’arcangelo Gabriele, che gli annunciò che era il messaggero di Dio e gli ordinò di predicare. Nei primi anni, della rivelazione furono a conoscenza solo pochi intimi. Alla fine del 612 un’altra visione gli avrebbe ordinato la predicazione pubblica.
Intorno al 613 iniziarono le prime predicazioni tra i suoi concittadini; il nuovo messaggio religioso, i cui temi centrali erano il monoteismo appaiato alla rivendicazione della giustizia sociale e all’ammonizione escatologica dell’imminente fine del mondo, venne respinto dalla grande maggioranza dei Qurayshiti; tuttavia Muhammad riuscì ad avere alcuni seguaci.
Nel 622 Muhammad e i suoi seguaci emigrarono a Yathrib, che da questo momento venne chiamata Madînat al-nabî, la Città del Profeta o semplicemente Medina, la città per antonomasia. Questa data è quella dell’Egira (cioè hijrah, emigrazione), che divenne poi con il califfo ‘Omar l’inizio dell’era musulmana. In questo modo si formò la prima comunità musulmana.
Nel 624, a Badr, ci fu il primo scontro con i meccani, dal quale i musulmani uscirono vittoriosi; nello stesso anno venne espulsa da Medina la più importante tribù ebrea accusata di avere rapporti con i Qurayshiti.
Nel 630-632 si ebbe la sottomissione delle tribù della penisola araba. Secondo la tradizione nel 631 Muhammad non effettuò il pellegrinaggio, ma inviò a rappresentarlo Abû Bakr, mentre l’anno seguente, il 632 guidò egli stesso il pellegrinaggio, noto come “pellegrinaggio dell’addio”; infatti pochi mesi dopo morì a Medina.
Muhammad non lasciò indicazioni precise su chi dovesse essere il suo successore, a parte il fatto di aver designato Abû Bakr a dirigere la preghiera. Ciò scatenò un dissidio politico e ideologico che ha determinato in modo decisivo la storia dell’Islam e che costituisce in fondo l’evento storico più importante di tutta questa civiltà.
2. Corano
Dall’arabo Qur’ân, termine di probabile origine siriaca che significava “recitazione”, riferito alla proclamazione salmodiata delle scritture presso i primi cristiani.
I musulmani preferiscono l’etimologia araba dalla radice qara’a, recitare o leggere.
Secondo l’Islam si tratta non dell’unico, ma dell’ultimo Libro rivelato da Dio, a completamento e a parziale rettifica di quanto precedentemente affidato ai Suoi inviati, fra i quali specialmente Mosè e Gesù. L’inizio della rivelazione coranica avvenne nel 610 d.C., mentre Muhammad si trovava in ritiro sul monte Hirâ’, presso la Mecca.
Le rivelazioni si susseguirono fino alla morte del Profeta e non furono messe per iscritto che parzialmente e in forma inorganica, fino a che il terzo califfo ‘Othmân ne fece redigere una versione ufficiale, divisa in 114 capitoli detti sûre, disposte – a eccezione della prima – grosso modo in ordine di lunghezza decrescente, cosicché le prime brevi rivelazioni ricevute alla Mecca sono collocate prevalentemente in fondo al libro, mentre le più prolisse sûre medinesi si trovano all’inizio.
La scrittura incompleta adottata nella vulgata, senza la notazione delle vocali e dei punti diacritici che distinguono lettere simili, determinò la sopravvivenza di alcune varianti, scarsamente significative tuttavia sul piano dottrinale, così come la numerazione dei versetti e la titolazione delle sûre – stabilite solo in seguito – possono tutt’oggi differire leggermente nelle varie edizioni del Corano.
Il Corano è un testo in prosa rimata, simile nello stile ai libri sapienziali della Bibbia e ai Salmi, considerato dai musulmani un modello insuperabile di perfezione linguistica ed eloquenza.
Data la scarsa cultura del Profeta, che secondo la tradizione islamica era addirittura analfabeta, non solo i contenuti dottrinali e morali del Corano, ma la sua stessa forma sono considerati di origine divina.
Esso corrisponderebbe a un archetipo celeste, eterno e increato, anche se queste ultime caratteristiche sono state negate da alcune scuole teologiche minoritarie.
Il Corano è un testo estremamente composito e asistematico, tanto che gli stessi musulmani hanno dovuto ricostruirne la probabile cronologia in base alle circostanze in cui venne rivelato, anche per stabilire quali disposizioni legali sono state date per ultime, rettificando o abrogando quanto di eventualmente discordante fosse stato detto in precedenza.
3. Jihâd
Il termine Jihâd, la cui radice rimanda all’idea di sforzo, indica nel discorso giuridico, ma anche in quello morale, lo sforzo sulla via di Dio.
Si tratta innanzi tutto dello sforzo militare per la diffusione o la difesa dell’Islam, diretto alla realizzazione della sua dimensione universale.
Tuttavia i giuristi sciiti, e, specialmente in epoca contemporanea, alcuni giuristi sunniti, affiancano a questo sforzo militare, denominato jihâd minore o dei corpi, lo sforzo di autoperfezionamento, definito jihâd maggiore o delle anime.
Quest’ultimo è un dovere che incombe su ogni individuo, l’altro è un dovere comunitario, che si considera adempiuto se un numero sufficiente di musulmani vi si dedica.
La distinzione tra “grande” (maggiore) e “piccolo” (minore) jihâd, l’uno spirituale e l’altro militare, è comunque attribuita dalla tradizione allo stesso Profeta Muhammad ed è stata accolta dalla maggior parte dei teologi musulmani, fin dal cosiddetto Medio Evo.
Per quanto riguarda il Corano, nelle sûre del primo periodo meccano il termine jihâd è assente, mentre vi compare nel secondo, ma si tratta ancora soltanto di un conflitto verbale con gli infedeli. Nel terzo periodo meccano, con l’aggravarsi della situazione, ricorre più spesso, ma ancora come esortazione all’impegno nella lotta contro l’idolatria.
Nella giurisprudenza, il jihâd militare è combattuto contro gli infedeli. Esso è l’unico tipo di guerra per cui il fiqh detti una regolamentazione: la guerra tra musulmani non è teoricamente possibile, dato che la comunità islamica dovrebbe trovarsi unita sotto la guida politica del califfo.
Neppure la guerra contro i musulmani dissidenti può essere qualificata come jihâd. Il jihâd offensivo è obbligatorio solo quando vi siano prospettive favorevoli. Non lo si può muovere se non dopo aver invitato i nemici alla conversione.
Gli sconfitti dovranno convertirsi per forza, a meno che si tratti di cristiani o ebrei: allora potranno scegliere tra la conversione e la accettazione di sottoporsi come protetti al potere politico islamico. Se il jihâd è difensivo, il dovere di combatterlo incombe individualmente su ognuno, e non solo sui maschi, liberi e fisicamente e mentalmente sani.
Numerose sono le regole che intendono fare del jihâd una guerra giusta e non oppressiva. Per esempio, è fatto esplicito divieto di combattere le donne, i bambini e i vecchi e si sottolinea addirittura il fatto che non sarebbe lecito distruggere le piante o le coltivazioni e ridurre i nemici alla disperazione.
I giuristi sciiti che considerano il jihâd uno dei pilastri dell’Islam ritengono che solo l’imâm lo possa dichiarare: ma poiché l’imâm è assente, l’esercizio del jihâd è sospeso.
La traduzione oggi comune di jihâd con “guerra santa” è comunque imprecisa da almeno tre punti di vista:
- il primo risiede nel significato semantico del termine, come si è detto all’inizio “sforzo” sulla via di Dio;
- il secondo è che jihâd dovrebbe eventualmente venir tradotto con “guerra legale” piuttosto che “santa”;
- il terzo è perché il Corano non lo usa mai specificamente in quel senso. Ciò non toglie che alcuni gruppi fondamentalisti lo abbiano usato e lo usino intendendo proprio la “guerra santa” contro i miscredenti.
Peraltro, un attivista islamico come Sayyid Qutb considera il jihâd obbligatorio solo come difensivo: il punto consiste nel significato da dare al termine “difesa”. Secondo lo stesso Qutb, la lotta contro i miscredenti è di fatto una forma di difesa dell’Islam minacciato.
Dato il forte peso che una legittimazione religiosa di scelte politiche conserva agli occhi dei musulmani, l’appello al jihâd viene inoltre spesso tuttora utilizzato per sostenere cause quali guerre di liberazione nazionale, di espansione, conflitti fra paesi confinanti e persino attività di guerriglia e azioni terroristiche.
Spesso i gruppi radicali invocano il jihâd ritenendo che la religione e il mondo islamico siano sottoposti ad aggressione da parte dell’Occidente e ciò rende obbligatoria la difesa con tutti i mezzi.
4. Sharî‘ah
Nel suo significato principale, Sharî‘ah è la legge sacra dell’Islam. Il termine indica in generale la via, il cammino.
È usato per significare la via indicata da Dio attraverso i suoi profeti, dunque il messaggio profetico nel suo complesso; oppure, evidenziando la dimensione giuridica del messaggio profetico, una Legge, un sistema giuridico rivelato.
Dunque non solo i musulmani hanno la propria sharî‘ah, ma anche gli ebrei e i cristiani. Sharî‘ah, normalmente nella forma plurale sharâ’i‘, può infine riferirsi alla singola regola giuridica. Nel suo significato principale di legge rivelata, sharî‘ah è sinonimo di shar’, di uso anzi più frequente in passato.
Essa presenta un’evidente collegamento con il termine fiqh, tanto che i significati delle due parole paiono talora sovrapporsi ed essere intercambiabili, nell’ambito di un campo semantico coperto nelle lingue europee dall’espressione “diritto islamico”.
Fiqh è tuttavia in origine l’atto di comprendere, di capire e resta il nome di un’attività squisitamente umana; è riferito immancabilmente a un uomo: si parla del fiqh di Mâlik o di al-Shâfi‘î.
La sharî‘ah è invece posta da Dio. Dio è il Legislatore (shâri‘), funzione che può al massimo essere allargata metaforicamente al profeta Muhammad. Sharî‘ah rimanda dunque all’origine divina del diritto, fiqh alla dimensione umana della conoscenza, della scienza giuridica che descrive e dichiara la sharî‘ah.
Il termine sharî‘ah occupa un grande spazio nel discorso giuridico e politico attuale. Nel linguaggio dei legislatori, sharî‘ah si trova operativamente opposta a qânûn, la legge dello Stato.
La sharî‘ah occupa un importante spazio simbolico nelle costituzioni, che la individuano come una/la fonte principale della legislazione; o ancora nelle disposizioni sull’interpretazione della legge, che impongono, tra gli altri criteri, quello di leggere le disposizioni con riferimento ai princìpi della sharî‘ah.
Nel discorso politico la richiesta di applicazione della sharî‘ah. assume funzione ideologica, esprime la tensione verso un ideale di giustizia sociale, veicola l’immagine sintetica di una tradizione a cui proclamare fedeltà riconoscendosi uniti.
5. Sawm (digiuno)
Sawm, ovvero digiuno, detto anche siyâm; è il digiuno del mese di sacro ramadân, uno dei cinque pilastri dell’Islam.
Per tutta la durata del nono mese del calendario lunare, i musulmani devono osservare il digiuno dall’alba al tramonto.
Ciò comporta l’astensione non solo dal cibo, ma anche dalle bevande e dai rapporti sessuali. Più in generale, occorre evitare l’ingresso nel corpo di sostanze estranee, sicché è proibito anche il fumo.
Al credente è anche raccomandato un comportamento moderato e riflessivo, esente da litigiosità, passioni, menzogne, calunnie. Per la validità del digiuno è richiesto che il fedele formuli l’intenzione (niyyah) di compiere l’atto.
Non appena tramontato il sole, si rompe il digiuno con il pasto detto fatûr o iftâr; e quindi, tardi nella notte, si assume il sâhûr, il pasto che darà energie per la giornata seguente.
La liberazione dalle privazioni del digiuno è segnata, il primo giorno del mese di shawwâl, dal ‘îd al-fitr, la festa della rottura del digiuno.
Oltre che gli impuberi, non tenuti a compiere alcuno degli atti di culto, sono esentati dal digiuno di ramadân i viaggiatori e tutti coloro la cui salute ne soffrirebbe: i malati, i vecchi e le donne durante le mestruazioni, o che si trovano in periodo di gestazione o allattamento.
Chi, essendo obbligato al digiuno, lo omette, è tenuto a recuperare i giorni perduti e, in alcuni casi, a compiere un’espiazione. Il fedele può rispettare il digiuno anche fuori dal mese di ramadân: sono anzi individuati giorni in cui questa pratica supererogatoria è raccomandata.
È però riprovevole digiunare di venerdì e addirittura proibito farlo nei giorni delle due feste e nei giorni che seguono il pellegrinaggio. Il digiuno continuato, senza l’interruzione del tramonto, è considerato riprovevole.