Le Olimpiadi del 1936 si svolsero a Berlino.
Nelle intenzioni del ministro della propaganda Joseph Goebbels sarebbero dovute diventare l’occasione per propagandare, agli occhi del mondo, l’immagine dell’ideologia nazista.
Invece il personaggio simbolo di quei giochi fu Jesse Owens, un atleta afro-americano che vinse ben quattro medaglie d’oro, nove primati olimpici e tre record del mondo.
Ma ciò non bastò per essere salutato dal Führer. Per forza: Owens negava nel modo più clamoroso la superiorità della razza ariana.
1. Berlino e la razza ariana
Quando il 1° agosto del 1936 a Berlino si celebra l’apertura delle XI Olimpiadi della storia, Hitler non riesce a contenere l’eccitazione.
3963 atleti, una struttura organizzativa perfetta e una coreografia impressionante: bandiere con la svastica che sventolano ovunque e uno stadio gremito che lo acclama.
Il Führer non è interessato all’aspetto sportivo della competizione ma a quello politico.
I Giochi dovranno, dimostrare la superiorità della Germania e incutere negli avversari della potenza nazista, in primo luogo gli Stati Uniti, timore e reverenza.
Nei deliranti paradigmi hitleriani gli uomini e le donne tedesche sono superiori per corpo e intelletto agli altri popoli poiché appartengono alla cosiddetta “razza ariana”, un immaginario gruppo razziale europeo contraddistinto dal fisico longilineo, la carnagione chiara, i capelli biondi e gli occhi azzurri.
Per il Führer le vittorie olimpiche celebreranno il nazismo; vincere a tutti i costi, quindi, è il motto che anima gli atleti tedeschi, obbligati ad allenamenti durissimi nella Foresta Nera e perfino pronti a fare uso sconsiderato di sostanze dopanti come la benzedrina, un’anfetamina.
Gli sforzi del regime sono ripagati: la Germania conquista 89 medaglie, battendo l’America che si ferma a 56.
2. Un insanabile affronto
Per Hitler, però, c’è un affronto che neanche il ricco medagliere tedesco riesce a sanare.
Le spettacolari imprese del campione afroamericano Jesse Owens, vincitore di 4 medaglie d’oro (un exploit che sarà eguagliato soltanto quasi cinquant’anni dopo, nel 1984 a Los Angeles da Carl Lewis) e detentore di numerosi record.
Oltre a conquistare il primo posto nelle gare di velocità dei 100 metri e dei 200 metri, nel salto in lungo e nella staffetta 4x100, Owens con le sue performance eguaglia o batte addirittura 9 primati olimpici e 3 record del mondo.
Mentre il pubblico inneggia a Owens, eroe di Berlino, Hitler non riesce a trattenere un’espressione di disgusto: la presunta superiorità della razza ariana, che porterà al genocidio degli Ebrei e dei Rom, viene smentita proprio da un uomo di colore, ritenuto dal Führer inferiore e limitato mentalmente.
Sfrecciando inafferrabile lungo la pista di atletica dello Stadio Olimpico di Berlino e alzandosi in volo da terra con salti poderosi, Jesse Owens è la rappresentazione più potente dell’assurdità delle teorie razziali tedesche, che vedono nel colore della pelle e non nel talento, nell’impegno e nell’allenamento le discriminanti per il successo.
3. Non gli stringe la mano
Le strepitose vittorie di Owens hanno alimentato per anni il dibattito sulla mancata stretta di mano di Hitler al campione.
Hitler, tuttavia, non si congratula con nessun atleta straniero e, redarguito dal Comitato Olimpico, si limita a indirizzare un generico cenno di saluto ai vincitori non tedeschi delle competizioni.
Adotta lo stesso comportamento con il fuoriclasse americano e, infastidito dalle sue ripetute vittorie, si allontana dallo stadio durante le premiazioni.
L’affronto più crudele per Owens, però, è quello che gli riserva il presidente Franklin Delano Roosevelt e il suo stesso Paese.
Ritornato negli Stati Uniti, infatti, il campione di Berlino deve fare i conti con la segregazione razziale e con il razzismo che ancora anima la società americana.
Roosevelt non gli invia neppure un messaggio di congratulazioni e Owens, abbandonato dagli sponsor, è costretto ad arrangiarsi con lavori di fortuna e competizioni a pagamento contro cavalli da corsa.
Mentre durante le Olimpiadi di Berlino l’atleta viene alloggiato nei dormitori assieme a tutta la squadra americana, in patria è obbligato a risiedere in spazi destinati ai neri e a utilizzare pullman e ascensori diversi dai suoi colleghi.
«Fu piuttosto Franklin Delano Roosevelt che evitò di incontrami. Il presidente non mi inviò nemmeno un telegramma». Tra i due c’era un incontro in programma, che la Casa Bianca cancellò per paura delle reazioni degli elettori bianchi.
Soltanto negli anni Settanta arrivano i primi riconoscimenti ufficiali per lui, il campione i cui nonni erano schiavi in una piantagione del Sud.
Alla sua morte, nel 1980, il presidente Jimmy Carter dichiara: «Forse nessun atleta ha rappresentato meglio di lui la lotta dell’uomo contro la dittatura, la povertà e le discriminazioni razziali».
4. Jesse e Luz: un’amicizia oltre il razzismo
Nell’agosto 1936 sul podio dei vincitori del salto in lungo sale anche un atleta tedesco: Carl Ludwig Long, detto Luz, che ha conquistato il secondo posto.
Sul gradino più alto, Jesse Owens. Long e Owens saranno legati da un’amicizia fortissima, nata proprio ai bordi della pista di atletica dell’Olympiastadion.
Il 4 agosto 1936, durante le qualificazioni del salto in lungo, i giudici di gara dichiarano nulli i primi due salti di Owens; al campione americano rimane solo un ultimo tentativo per accedere alla finale.
Long gli si avvicina e suggerisce di provare a saltare anticipando lo stacco dal terreno per evitare un’altra penalità. È proprio il consiglio del collega a portare Owens in finale e alla vittoria.
Durante i Giochi i due atleti si confidano e stringono un’amicizia duratura. Lo stesso Owens dirà in un’intervista: «Si potrebbero fondere tutte le medaglie che ho vinto, ma non si potrebbe mai riprodurre l’amicizia a ventiquattro carati che nacque sulla pedana di Berlino».
Quando scoppia la Seconda Guerra mondiale, Long viene arruolato nell’Aviazione e inviato a combattere contro gli americani in Sicilia, dove muore nel 1943. In una lettera a Owens, scrive: «Dopo la guerra, va’ in Germania, ritrova mio figlio e parlagli di suo padre. Tuo fratello, Luz».
Una promessa che Owens onorerà, incontrando più volte il figlio di Long e ricordando con lui quei giorni di agosto del 1936, quando l’improbabile amicizia tra un tedesco e un americano sconfigge i deliri nazisti.
5. Niente di meglio dello sport per oscurare la politica
Le Olimpiadi del 1936, disputate a Berlino, sono state assegnate alla capitale tedesca nel 1931, quando Hitler non è ancora al potere, e diventano l’occasione per il regime nazista per dare sfoggio della propria presunta superiorità.
Pertanto vengono organizzate minuziosamente e con gran dispendio di denaro, sotto la regia sapiente del ministro della Propaganda Joseph Goebbels.
Lo stadio, realizzato prima della Prima Guerra mondiale per le Olimpiadi del 1916 (poi mai disputate a causa del conflitto), viene completamente ricostruito per poter ospitare oltre centomila persone.
Le gare sono filmate e trasmesse per la prima volta pubblicamente per chi non ha potuto acquistare i biglietti e viene persino inventato il rito del tedoforo, che porta la torcia partendo dalla Grecia.
Grazie all’organizzazione così meticolosa, le XI Olimpiadi della storia ingannano quasi tutti gli osservatori stranieri, che non si rendono conto delle persecuzioni operate da Hitler contro ebrei, rom, omosessuali ecc.
Soltanto Spagna e Unione Sovietica boicottano i Giochi organizzati dal Führer; l’invasione della Polonia, tre anni più tardi, dimostrerà le intenzioni bellicose del padrone di casa di Berlino 1936.