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JFK, colpo grosso a Dallas

Un cielo d’ottobre incredibilmente terso per il Maryland si specchia sull’edificio di vetro e cemento all’8.601 di Adelphi road, simile a una fortezza.

Qui, nell’Archivio nazionale al College Park, non distante da Washington, riposa la verità ufficiale dell’attentato a John Fitzgerald Kennedy.

Dieci metri cubi di scaffali raccolgono i registri della commissione Warren, oltre 25mila rapporti investigativi, e ogni materiale sull’assassinio politico più famoso e discusso del XX secolo.

La memoria storica di quell’omicidio è qui, distante dal sentire collettivo e da ogni altra verità nota e taciuta, ignorata e scaduta, nei cinque milioni di pagine relative al delitto che cambiò la storia dell’America e del mondo, custodite in copia nella libreria del Congresso e in vari archivi nel paese.

A partire dal maggiore fondo privato, l’Harold Weisberg archive, all’Hood college di Frederick, ancora nel Maryland, dopo la morte del primo e maggior cacciatore dei segreti kennediani.

Tra le migliaia di prove raccolte dalla commissione, guardate a vista in un deposito dove filtra solo l’aria condizionata, c’è il fucile dell’attentatore, il Mannlicher Carcano da 6,5 mm rinvenuto al sesto piano del Texas school book depository, con la famosa pallottola magica capace di fare sfracelli per cascarsene, bella bella, dalla barella del governatore John Connally.

Sotto teca in una stanza senza finestre, a una temperatura inferiore ai 20 gradi per non rovinare il delicato tessuto di lana macchiato di sangue, c’è pure l’abituccio rosa, copia americana del tailleur di Chanel, indossato da Jacqueline Kennedy il giorno dell’attentato.

Una scia di macchioline appena più scure del rosa confetto, non l’enorme macchia nera sulla camicia a righine del marito, lacerata, fradicia del sangue fuoriuscito dalla testa spappolata dal fatale terzo colpo.

In una stanza poco distante, a – 4 gradi, c’è pure il filmato amatoriale più visto nella storia del mondo: 486 fotogrammi impressi in super 8 da Abraham Zapruder, il sarto di Dallas che riprese con la sua cinepresa Bell & Howell l’esplosione del cranio del presidente. Ma nella versione a uso della commissione.

Oltre ai tagli della pellicola, nel luogo dove si conserva la memoria storica dell’omicidio politico clou del XX secolo mancano vari pezzi, messi all’incanto.

Tredici per l’esattezza, tra cui le chiavi della limousine scoperta su cui viaggiava il presidente, il 22 novembre 1963, e l’invito per il pranzo di gala che ci sarebbe stata quella sera, se non fosse stato ucciso.

L’anno scorso ebbe luogo l’asta dei cimeli dell’assassinio di Jfk, nei giorni in cui uno dei suoi probabili veri assassini, James Sutton, alias James Files, è uscito dal carcere di massima sicurezza di Crest Hill, dov’era detenuto, per essere trasferito nel penitenziario di Danville, sempre in Illinois.

Dov’è stato scarcerato a maggio, “sulla parola”, dopo 25 anni passati in galera, sui 30 ai quali era condannato per omicidio. Non quello di Kennedy, per cui l’ex marine e agente della Cia, oggi 74enne, non è mai stato incriminato.

Nonostante abbia confessato da tempo – come molti altri, del resto – d’essere stato lui a sparare da dietro la famosa staccionata sul grassy knoll di Dealey Plaza il colpo mortale dei tre giunti a segno, quello che spappolò il cranio al 35° presidente Usa.

Colpito da una pallottola esplosiva, perdipiù caricata a mercurio, per conto dei mafiosi Sam Giancana e Charles Nicoletti, anch’egli tra gli attentatori.

Un complotto, ordito dalla mafia e dalla Cia, che da sempre ha una verità ufficiale, raccontata nel rapporto Warren, stilato a un anno dall’attentato, e un’altra ufficiosa, mai provata e scaduta.

Una verità nota fin da quando i servizi segreti francesi, su sollecitazione di De Gaulle, buon amico della coppia presidenziale e a cui la famiglia s’era rivolta per una controinchiesta parallela a quella dell’Fbi, l’hanno raccolta e messa nero su bianco in un pamphlet ignoto ai più.

Edito nel 1968 a firma di James Hepburn (uno pseudonimo) nel libro-dossier The plot (Il complotto) e pubblicata nello stesso anno in vari paesi, in Italia con il titolo L’America brucia da una piccola casa editrice torinese, grazie ai buoni uffici di Gianni Agnelli, altro buon amico dei Kennedy.

Ma gli Stati Uniti si sono rivelati ignifughi a ben altre macchinazioni. Così, da oltre mezzo secolo l’unico omicida resta ufficialmente quel Lee Harvey Oswald che con tutta probabilità sparò un colpo dei tre andati a segno, quel giorno nella città texana.

Subito messo a tacere da Jack Ruby con un colpo di pistola, anch’esso tra i cimeli messi all’asta, assieme alla bara di Oswald. Insomma, in quel luogo c’è tutto fuorché la verità, che va cercata altrove. Ma andiamo con ordine.

1. L’America dei Kennedy e l'altra

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L’America retta da Kennedy sul finire del ‘63 è il gendarme del mondo che attraversa uno dei momenti più caldi della guerra fredda, appena emersa dallo scottante rovescio dell’invasione di Cuba fallita nella Baia dei porci.

Con gli strascichi del blocco navale per impedire l’installazione dei missili sovietici nell’isola di Castro che ha tenuto il mondo col fiato sospeso, spingendolo a un passo della guerra globale con l’Urss.

Un gigante che non ha ancora digerito quello smacco, e va impegolandosi in un’altra e più tragica impresa militare: la guerra del Vietnam, da cui uscirà con una cocente sconfitta.

Il democratico Kennedy, che l’avventura cubana ha avallato e malgestito, servendosi della Cia e degli esuli anticastristi, regge le sorti della più grande democrazia d’occidente da poco più di mille giorni e le cose non vanno tanto bene.

La sua America è un paese non solo in guerra nel mondo, ma nei suoi stessi stati. La questione razziale ha assunto i connotati del conflitto civile: perché due studenti neri possano iscriversi a un’università bianca del sud la Casa Bianca ha mobilitato la guardia nazionale.

Ogni organizzazione della destra xenofoba ha in Kennedy e nelle sue aperture progressiste un nemico giurato. Altrettanto mortale è la minaccia per i grandi trust del petrolio che vedono nelle iniziative governative volte a tassare i proventi la longa manus del comunismo internazionale nei loro affari.

I clan mafiosi ai quali Joseph Kennedy, padre di John, s’è rivolto grazie ai buoni uffici di Frank Sinatra per spalleggiare l’elezione presidenziale del figlio alla convention democratica e alla presidenza – lui, cattolico irlandese amico personale di Pio XII in un paese dove da sempre chi detiene il potere è di marca ebrea e protestante – fremono per le iniziative non certo riconoscenti di Bob Kennedy, fratello minore del presidente e ministro di giustizia.

Per loro, la mancata riconquista dell’Eldorado cubano per cui tanto si sono spesi, grazie alle ambiguità di Jfk, è la goccia che manda a monte l’affare del secolo e fa traboccare il vaso.

I migliori nemici del presidente allignano così tanto tra gli esuli anticastristi umiliati dai rivoluzionari che dai barbudos disposti a tutto pur di punire chi li minaccia e invia sicari a colpire l’uomo simbolo della revolucion.

Per gli uni Kennedy è colpevole di aver voluto fermare la rivoluzione, per gli altri di non averlo fatto. Trait d’union tra gli uni e gli altri è proprio quell’Oswald (in contatto con vari servizi segreti e sorvegliato speciale dall’Fbi) che farà, suo malgrado, da capro espiatorio nell’affaire. 

È in quest’ambiente di odio ideologico, revanscismo militare, destra razzista, cricche affaristiche fuori controllo che matura l’humus del complotto.

Un’America torbida e profonda assai distante dall’altra che vede in Kennedy l’uomo nuovo capace di aprire le porte di una nuova frontiera, quello dell’“ask not” dove s’incarna un mito progressista destinato a fare breccia pure nei cuori dei tardo comunisti italiani.

L’America abbacinata dal mito del paladino dei diritti negati, come dai tailleur e dalla mondanità charmant di Jackie

La donna che – per amore non disgiunto da una buona dose d’opportunismo – ha sposato uno dei più incalliti donnaioli del secolo e, dopo la sua morte, sarebbe convolata a nozze col facoltoso Onassis, sottraendolo alla sorella.

2. Tutte le donne del presidente e un tavolo da poker texano

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Le donne del presidente meritano un capitolo a parte nella storia politica e nella vicenda umana di un uomo tanto malfermo di salute da ricevere più volte l’estrema unzione e dedito a stupefacenti come coadiuvanti delle sue incredibili performance sessuali.

Due amanti fisse disponibili a tempo pieno nello studio ovale, nomi in codice Fiddle e Faddle, sulle quali gli uomini dei servizi chiudono entrambi gli occhi e stendono un velo di protezione.

Meno tranquillo che con le segretarie dei portavoce della Casa Bianca si rivela il ménage con altre amanti più o meno stabili.

Due nomi, fra tutte, difficili da tenere a bada o passare sotto silenzio: Marilyn Monroe – alla cui morte l’entourage del presidente non è estraneo – e, prima, la meno nota ma altrettanto avvenente e assai più pericolosa Judith Exner, a sua volta amante e trait d’union tra Kennedy, Sinatra e il boss siculo-americano Salvatore Giangana.

Al secolo Sam Giancana, che tanta parte ha nell’elezione presidenziale e nei complotti anticastristi, come nell’eliminazione dell’ex amico Jfk, per finire assassinato dalla Cia a metà degli anni ‘70.

Ma se gli esecutori vanno cercati tra i killer di mafia e i doppiogiochisti della Central intelligence agency, è su un tavolo da poker texano, come in una frusta spy story, che si alza la posta in gioco e si punta alla vita del presidente.

A quel tavolo sopra al ristorante Brownie’s, nella Grand Avenue di Dallas, siedono, coi boss mafiosi e Cliff Crawford Carter, stretto collaboratore del vicepresidente Lyndon Johnson, un paio di personaggi neppure sfiorati dall’inchiesta dell’Fbi ma sui quali la controinchiesta degli 007 francesi coordinati da André Ducret punta l’indice fin da subito.

Il generale Ted Walker, ispiratore delle proteste contro l’ambasciatore Usa all’Onu, Adlai Stevenson, di poco precedenti l’attentato, e dei manifesti listati a lutto esposti alla vigilia dove si accusa il presidente di tradimento, minacciandolo di morte.

L’altro pezzo da novanta che siede al tavolo da poker in quel maggio ‘63 dove si decide la fine dei giochi per Jfk è nientemeno che Haroldson Lafayette Hunt, il più ricco tra i petrolieri texani e tra i più facoltosi al mondo.

Ultraconservatore come il generale, finanziatore dei circoli della destra eversiva, suoi sono il Texas school book depository e il Dal Tex building , i palazzi dove sono appostati due dei quattro cecchini del gruppo di fuoco.

3. Il gruppo di fuoco e il pazzo

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I nomi degli attentatori li fa tutti un suo omonimo, Howard Hunt, anch’egli nel commando e agente Cia, responsabile della Baia dei porci e del Watergate, nel più completo autodafé lasciato al figlio alla vigilia della morte, nel 2007.

Ma l’elenco della dozzina di esecutori materiali del complotto della Cia, nome in codice “big event”, colpo grosso, che ha i suoi addentellati nel vicepresidente Johnson, successo a Kennedy alla sua morte, e nel potente capo dell’Fbi Edgar Hoover, passano sotto il silenzio dei riflettori e della grande stampa.

Così, quando la limousine presidenziale scoperta attraversa Dallas imboccando Elm street, per una doppia curva che passa a venti metri dai palazzi di Hunt dove l’aspettano due degli attentatori – anziché proseguire dritta sulla Main street per il comizio e il banchetto al Trade Mart volto a recuperare i consensi per il secondo mandato – e altrettanti dalla staccionata sulla collinetta, il destino di Kennedy è segnato.

Almeno 5 colpi, tre a segno, con Jackie che nella celeberrima sequenza di Zapruder si sporge sul cofano a raccogliere i pezzi del cervello del marito schizzati via, mentre l’autista accelera solo a colpi andati a segno, il governatore del Texas Connally pure ferito.

Dalla sua barella scivola il proiettile miracolosamente intonso che secondo il rapporto Warren avrebbe compiuto lo sfracello di sette ferite, con una evoluzione tale da innescare la teoria della pallottola magica.

Oswald, assunto “ad hoc” al deposito di libri da poche settimane, subito fermato e rilasciato da un agente, finisce arrestato in un cinema con una pistola addosso, accusato dell’omicidio del presidente e di un poliziotto quella stessa giornata (ma il vero omicida dell’agente Tippit, a dire di Files, sarebbe Gary Eugene Marlow, anch’egli della partita).

Pestato, fa appena in tempo a definirsi un capro espiatorio, o meglio un “patsy”, un burattino, e di cercare invece dalle parti di Johnson, prima di finire freddato da Ruby, proprietario del Carousel club, uomo di mafia e informatore della polizia, per evitare alla first lady lo strazio d’un processo.

Quanta bontà d’animo nel cuore del gestore di un locale di spogliarelliste che finirà i suoi giorni in galera alla vigilia del processo – per un cancro fulminante, ma c’è chi lo mette tra le vittime collaterali dell’attentato – ma nessuna connessione con gli attentatori, giurano gli esperti della commissione Warren a cui gli agenti dei servizi spacciano lucciole per lanterne.

Ma gente come Allen Dulles – l’ex capo della Cia estromesso da Jfk dopo il fiasco della Baia dei porci – e gli altri membri non sono degli ingenui. Piuttosto, come dire al paese che l’uomo assassinato è divenuto presidente grazie alla mafia, e questa e i sodali della Cia l’hanno ucciso per le sue ambiguità specie nell’affaire cubano, spalleggiati da vari pezzi grossi?

Come svelare l’altra faccia del potere, il Jack trafficone, donnaiolo e cocainomane? Tre dei sette giurati mostrano di non gradire l’amaro calice delle verità di comodo ma il presidente della commissione, nonché della Corte suprema, Earl Warren, nominato da Johnson, amicissimo dei Kennedy, per carità di patria e salvaguardia dello status quo sancisce, dopo quasi un anno d’indagini, che a uccidere Jfk è stato quel ragazzo disadattato e filocastrista – un agente sacrificabile, a cui è stato comandato di sparare “a vuoto” per innescare una reazione anticomunista – mai giunto a processo.

Un pazzo isolato, armato con un fucile italiano residuato bellico comprato per posta e un telescopio posticcio. Per inciso, una prova al poligono di tiro di Terni compiuta nel 2007 da esperti balistici con la stessa arma ha dimostrato l’impossibilità pratica di fare centro nei tempi stabiliti dall’inchiesta, pochi secondi, per tiratori assai più abili del presunto killer.

(Nella foto il vicepresidente Johnson giura accanto a Jackie sull’aereo presidenziale, dopo l’attentato).

4. La pista italiana

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Le incongruenze contenute nel rapporto e soprattutto l’onda di omicidi politici successivi spingono il Congresso Usa ad attivare, alla metà degli anni ‘70, un’apposita House select committee on assassinations (Hasca).

Altri sono caduti sotto il piombo d’ignoti o isolati sicari, da Robert Kennedy a Martin Luther King, a Malcom X, per non parlare delle morti sospette legate a tali attentati. A rigor di logica e a non volersi ostinare a isolare il caso dal suo contesto, ogni lettura anticomplottista risulta miope, ma i complottisti non hanno buon gioco.

Anche la nuova commissione stabilisce che a uccidere il presidente è stato Oswald col suo catorcio, pur ammettendo la possibilità che altri, in primis Cia & mafia, due lati della stessa medaglia, avessero partecipato all’attentato.

E il duello tra negazionisti e complottisti prosegue tra colpi di scena e rivelazioni, nuovi documenti in vecchi faldoni e mezze verità. Fino a disvelare una verità tanto elementare quanto inattuale, scaduta appunto, surclassata dai tempi che di quella vicenda non vogliono più sapere ma ne sono intrisi.

Tra i tanti lati oscuri illuminati poco a poco, non secondaria appare la pista italiana tornata alla ribalta grazie alla documentazione scovata da un ricercatore, Michele Metta, in un libro inizialmente autoprodotto: Cmc, il lato italiano della congiura che uccise John Fitzgerald Kennedy.

Già il procuratore distrettuale di New Orleans, Jim Garrison, autore del bookseller Sulle tracce degli assassini, alla base del film Jfk di Oliver Stone, illuminò la vicenda nel ‘67, portando in tribunale Clay Shaw, agente della Cia a capo del Trade Mart di New Orleans e membro della Permindex, per la sua connessione nel delitto.

L’organizzazione commerciale, acronimo di Permanent industrial exhibition che fino ai primi anni ‘60 ha sede a Roma, all’Eur, col nome di Centro mondiale commerciale, chiusa su sollecitazione del governo francese in quanto finanziatrice, tra le tante attività eversive, dell’Oas responsabile degli attentati al presidente De Gaulle riguardo all’Algeria.

Attività finanziate da due banche, Seligman e Schroder, già sostenitrici di Hitler, poi del capo della Cia Allen Dulles e di suo fratello Foster, come provato da Metta.

Che sottolinea come vari membri della società, ricicciata come Iahc, Italo american hotel corporation, fossero intimi di Licio Gelli, legati alla sua ascesa nella P2 e alla strategia della tensione sfociata nello stragismo.

Molti dei volti ignoti sulla Dealey Plaza nel venerdì nero di Dallas diventano di casa sulle piazze romane e d’Italia. Uno fra tutti Ted Shackley, vice capostazione Cia nella capitale e tramite tra il Venerabile e gli uomini forti dell’entourage Usa.

Era stato buon preveggente Saverio Tutino, dunque, nello scrivere all’indomani dell’omicidio Moro come il sangue di Kennedy fosse giunto fino al momento topico della strategia del terrore in Italia, e ben oltre. Fino ai giorni nostri.

John Kennedy junior, l’ultimo dei rampolli della dinastia e il più attrezzato per la corsa alla Casa Bianca, già icona degli anni ‘60 col saluto militare alla salma del padre, a neanche tre anni, a chi gli chiedeva come mai su George, la sua rivista, non facesse nessuno scoop sull’attentato, rispondeva che prima bisognava diventare davvero potenti.

Pensava a una sua candidatura nel nuovo millennio ma ha perso la vita prima, in un incidente aereo dove non mancano suggestioni complottiste. E nella lotta per la convention repubblicana, davanti a una foto che ritrae il padre di Ted Cruz, Raphael, in compagnia di Oswald, Donald Trump ha definito probabile una connessione tra i due nell’omicidio di Jfk.

Forse a Washington con lui, estraneo alle trame del vecchio Gop, qualche altro scheletro potrà saltare fuori dall’armadio. Insomma, per dirla come il reporter Webster Tarpley, le stesse reti che hanno messo in atto il clamoroso attentato dell’11 settembre 2001 affondano le loro radici nel sangue dei Kennedy e nel colpo grosso – il “big event” – di Dallas.

Una scia di sangue lunga oltre mezzo secolo, all’origine della quale la verità ufficiale del pazzo isolato e della sua pallottola magica tiene ancora banco. 

Alla fine di quest'anno (2017) dovrebbero essere desecretati tutti i documenti relativi all’omicidio, a 25 anni dall’entrata in vigore del Jfk Records act, la legge varata allo scopo d’inventariare l’immensa mole di materiale sull’assassinio in mano alle varie agenzie governative, rendendolo davvero pubblico. 

Chissà se allora si troverà una conferma a una verità scaduta, ma ancora capace di far tremare il mondo (nella foto la traiettoria dei tiri nella versione ufficiale).



5. Mafia, Cia e killer spaziali

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  • JOHN KENNEDY
    John Fitzgerald Kennedy, noto anche come Jfk o Jack, (Brookline, 29 maggio 1917 – Dallas, 22 novembre 1963), vinse le elezioni presidenziali del 1960 per i Democratici, diventando il 35o presidente degli Stati Uniti d’America dal 20 gennaio 1961 alla morte, quando subentrò il vice Lyndon Johnson.
    Di origini irlandesi, è stato il primo presidente statunitense di religione cattolica, il primo a essere nato nel XX secolo e il più giovane in carica a morire degli altri tre presidenti Usa assassinati (Abraham Lincoln il 15 aprile 1865, James Garfield il 2 luglio 1881, William McKinley il 6 settembre 1901).
    La sua presidenza in piena guerra fredda, durata circa mille giorni, fu segnata da grandi eventi: la crisi di Berlino del 1961 con la costruzione del muro abbattuto nell’‘89, la corsa alla Luna, lo sbarco nella Baia dei porci, la crisi dei missili a Cuba, l’impegno Usa in Vietnam e l’affermarsi del movimento per i diritti degli afroamericani.
    Il suo assassinio resta un fatto epocale nella storia degli Stati Uniti e del mondo.
  • GLI ATTENTATORI
    Secondo la confessione di Howard Hunt, agente Cia autoaccusatosi dell’omicidio Kennedy, operativo dalla Baia dei porci allo scandalo Watergate, raccolta dal figlio Saint John (The last confession of E. Howard Hunt di Erik Hedegaard, pubblicata in Italia nell’aprile 2007 da Rolling Stone), tra i personaggi chiave dell’omicidio figurano:
    - il vicepresidente Lyndon Johnson, succeduto a Kennedy;
    - Edgar Hoover (capo dell’Fbi), deus ex machina dell’insabbiamento alla commissione Warren con la storia del killer solitario;
    - Cord Meyer, funzionario della Cia, architetto dell’apparato di disinformazione nell’operazione Mockingbird sull’influenza nei media e marito di Mary Meyer che aveva una relazione con Jfk e venne successivamente assassinata;
    - David Atlee Philips, veterano della Cia e della Baia dei porci, come pure William Harvey, collegato ai boss mafiosi Santos Trafficante e Sam Giancana; Antonio Veciana, esiliato cubano, fondatore del gruppo terroristico anticastrista Alpha 66, appoggiato dalla Cia.
    Come loro, agenti della Cia veterani della Baia dei porci sono Frank Sturgis e David Morales. Legato alla mala era invece Lucien Sarti, killer corso e trafficante di droga, il secondo cecchino che avrebbe sparato dalla collinetta erbosa di fronte a Kennedy.
  • I REI CONFESSI
    Assai prima di James Files, alias Sutton, nel ‘94, il primo ad autoaccusarsi dell’omicidio Kennedy è stato Loran Hall che rivela, pochi anni dopo l’attentato, di aver ricevuto nel 1963, da un gruppo di estrema destra legato agli anticastristi e alla Cia, 50mila dollari (L’Europeo, 1968).
    Si dicono colpevoli Roscoe White, ex poliziotto di Dallas e sedicente killer dalla collinetta (secondo la rivelazione dopo la sua morte da parte di moglie e figlio), come pure Charles Rogers e Charles Harrelson, con la complicità di Chauncey HoltLuis Angel Castillo, tra i sicari di Castro, nel ‘67; Antoine Guerini e Christian David, mandanti della mafia corso-marsigliese (nell’‘88); Robert Easterling e Manuel Rivera, anch’essi killer anticastristi al soldo della Cia, e Robert Morrow.
    Nel complesso il ricercatore texano David Perry ha raccolto le testimonianze di ventotto tra rei confessi o individuati come il secondo, terzo o quarto sparatore in Dealey Plaza. Tra questi, Files è l’ultimo della lista, non il meno credibile.
  • LE TEORIE DEL COMPLOTTO
    Sono una cinquantina le teorie del complotto raccolte da Diego Verdegiglio, a sua volta complottista pentito.
    Vincent Bugliosi (anticomplottista doc), esperto in materia, ha contato 42 gruppi, 82 assassini e 214 persone nelle varie cospirazioni legate all’assassinio di Kennedy emerse da mezzo secolo in qua.
    Tra queste, quella che trova più consensi è la pista mafiosa supportata dai petrolieri texani e dalla destra xenofoba, dagli anticastristi e da agenti della Cia e dell’Fbi, oltre che
    dalla polizia di Dallas.
    Il comitato denunciato da James Hepburn, sulla cui falsariga si muovono Oliver Stone – che aggiunge tra le motivazioni dell’attentato la volontà di Kennedy di disimpegnarsi in Vietnam – Thomas Buchanan, Jim Garrison, Harold Weisberg, Raymon Marcus, Vincent Salandria, Léo Sauvage, Michael Kurtz, Mark Lane, Gore Vidal, Ilario Fiore e molti altri).
    In quest’ottica, la responsabilità diretta di Johnson e Hoover è sottolineata da Mark North, Craig Zirbel, David Lifton – che non sottrae la famiglia Kennedy da complicità nella copertura del complotto – con l’avallo delle confessioni in punto di morte di una ex amante del vicepresidente, Madeleine Duncan Brown, di Howard Hunt, oltre che dello stesso attentatore e di Jackie, la first lady.
    Tra quanti credono a tutt’altra pista, con una responsabilità riconducibile ai comunisti castristi, cinesi o sovietici, di cui Oswald fu l’emissario, vanno annoverati Edward Epstein, Michael Eddowes, Mary Farrell, Benjamin Price e altri.
    Né mancano ipotesi più fantasiose: a uccidere Kennedy sarebbe stata una setta massonica (Robert Anton Wilson e Neal Wilgus), i mormoni (Thothnu Tastmona), il Mossad (Mordechai Vanunu), i sudvietnamiti del presidente Ngo Dinh Diem (spodestato da un golpe avallato dalla Cia ai primi di quello stesso novembre), la Federal riserve per il ventilato intervento sul dollaro (Jim Marrs), e infine gli alieni per i progetti kennediani di conquista dello spazio e la volontà di divulgare i file segreti sugli Ufo.
    In un memorandum scritto dieci giorni prima del suo assassinio al direttore della Cia James Angleton, Kennedy chiedeva infatti “il riesame delle classificazioni di tutti i file del reparto spionaggio Ufo riguardante la sicurezza nazionale” e prospettava un comune programma di esplorazioni nello spazio coi sovietici.
    E tanto basta perché anche il killer spaziale entri nel plot.








Note

FILM, LIBRI E SITI

Della ventina di film sull’attentato, la palma del più famoso spetta a Jfk, un caso ancora aperto, di Oliver Stone (1991) – regista anche di Nixon, gli intrighi del potere, del ‘95– incentrato sulla figura del procuratore Jim Garrison, superbamente interpretato da Kevin Costner.
Capace di smuovere le acque al punto da far uscire dagli armadi scheletri e documenti fino ad allora ben serrati.
Il primo a cimentarsi nell’impresa di raccontare la vicenda in chiave ucronica è Larry Buchanan, nel 1964, con The trial of Lee Harvey Oswald, la storia di un ipotetico processo a Oswald.
Soggetto poi utilizzato in altre pellicole come il film omonimo diretto da David Greene e Gordon Davidson nel ‘77, la miniserie tv Il giorno che uccisero Kennedy, dello stesso anno, con Ben Gazzara, e il documentario On trial: Lee Harvey Oswald (1986).
A sei anni dai fatti di Dallas è la volta dell’italiano Tonino Valerii di rileggere l’attentato in chiave western con Il prezzo del potere (1969), seguito da Azione esecutiva di David Miller nel 1973 e da Perché un assassinio del ‘74, diretto da Alan J. Pakula.
Ruby and Oswald di Mel Stuart è un film tv del ‘78, chiude il decennio Rebus per un assassinio del ‘79, diretto da William Richert.
Poi un lungo silenzio fino all’exploit di Stone, che fa da apripista ai film successivi: Ruby, il terzo uomo a Dallas, di John Mackenzie, e Due sconosciuti, un destino di Jonathan Kaplan, entrambi del ‘92.
A cui seguono, nel ‘93, Nel centro del mirino, diretto da Wolfgang Petersen, con Clint Eastwood, e il film televisivo Mio marito è innocente di Robert Dornhelm, sulla vita di Marina Harvey Oswald, vedova di Lee, e delle loro figlie June Lee e Audrey Marina Rachel, rispettivamente di neanche due anni e poche settimane al tempo dell’assassinio del padre.
Altri anni di silenzio fino a Thirteen days, film del 2000 diretto da Roger Donaldson, sulla crisi dei missili a Cuba, e Intervista con l’assassino, di Neil Burger, del 2002.
Infine, nel 2013, a cinquant’anni dall’attentato escono Parkland di Peter Landesman, il tv movie Killing Kennedy di Nelson Mac Cormick, prodotto da Ridley Scott per National Geographic, e The butler di Lee Daniels. Ultimo della lista, nel 2016, Lbj di Rob Reiner, sulla carriera di Johnson dal ‘59 al ‘64.

Reso noto a Washington il 27 settembre 1964, il Rapporto Warren sull’assassinio di Kennedy (pubblicato in Italia da Rizzoli come supplemento all’Europeo pochi giorni dopo) resta una pietra miliare del caso, benché le sue incongruenze siano da sempre contestate.
Buon ultimo Philip Shenon nel mastodontico – 664 pagine – Anatomia di un assassinio, storia segreta dell’omicidio Kennedy (Mondadori, 2013) rivela la mole dei documenti tenuti nascosti o ignorati dai giurati della commissione, a riprova della fallacità delle sue conclusioni.
Dello stesso anno è il citato Michele Metta, Cmc, Il lato italiano della congiura che uccise John Fitzgerald Kennedy (autoprodotto, poi edito da Islainfinita), che approfondisce con la forza dei documenti i temi presenti in un libro pubblicato da Sperling & Kupfer nel ‘92, sull’onda del film di Stone che ne celebra la figura, da Jim Garrison: Jfk, Sulle tracce degli assassini.
Sulla figura del presidente è d’obbligo rifarsi ad Arthur Schlesinger, I mille giorni di John F. Kennedy alla Casa bianca, Rizzoli, 1966; Anatolij Gromyko, John F. Kennedy e la macchina del potere, Editori Riuniti, 1969; Gianni Bisiach, Il presidente, Mondadori, 1990; Jfk, una vita incompiuta, Robert Dallek, Mondadori, 2004; Edward Klein, La maledizione dei Kennedy, Mondadori, 2007, e John F. Kennedy, Ritratti del coraggio, edito da Alberto Gaffi con la Fondazione Italia Usa nel 2008.
Sulla falsità del mito kennediano punta invece l’indice Lanfranco Palazzolo con Kennedy shock, Kaos, 2010.
Datati ma tuttora validi per le implicazioni dell’attentato restano l’opera prima sul caso di Harold Weisberg, Chi ha ucciso Kennedy, le prove della congiura, il primo a smontare le conclusioni ufficiali del rapporto Warren (autopubblicato prima d’essere edito da Feltrinelli nel ‘67); Edward Jay Epstein, Dossier Kgb Kennedy e Oswald, Editoriale nuova, 1978, e Saverio Tutino, Da Kennedy a Moro, la vera storia degli ultimi vent’anni, Studio Tesi edizioni, 1979.
Ma il più datato di tutti, e al tempo stesso la vera pietra d’angolo del caso, è The plot di James Hepburn. Pseudonimo sotto cui è celato l’operato degli 007 francesi che lavorarono al caso col materiale fornito loro da Bob Kennedy, pubblicato all’indomani dell’omicidio di questi.
Edito in Italia grazie ai buoni uffici di Gianni Agnelli dalla piccola casa editrice Albra nello stesso anno con il titolo l’America brucia (negli Usa uscì come Farewelll America, America addio) e subito introvabile, è stato riedito recentemente in versione ridotta e assai rimaneggiata a cura di Stefania Limiti: Il complotto, la controinchiesta segreta dei Kennedy sull’omicidio di Jfk (Nutrimenti, 2012), con un’intervista inedita a William Turner, l’investigatore del procuratore Garrison.
Di tutt’altro segno anticomplottista (dopo un ventennio passato tra le file complottiste) sono invece i lavori di Diego Verdegiglio, Ecco chi ha ucciso John Kennedy, Mancosu, 1998, e Massimo Polidoro, Grandi gialli della storia, Piemme, 2004, che riprendono le tesi negazioniste di Gerald Posner in Case closed (1993).
Anche la letteratura si è occupata del caso. Tra i titoli di autori celebri, American tabloid di James Ellroy (Mondadori, 1995), Don Delillo, Libra (Einaudi, 2000), Manuel Vázquez Montalbán, Ho ammazzato J. F. Kennedy (Feltrinelli, 2001), e Stephen King, 22/11/63 (Sperling & Kupfer, 2011).
Incentrato sulla figura della first lady ma capace di cogliere l’humus del tempo come la psicologia dei protagonisti e i retroscena della vicenda è Jackie di Adriano Angelini (Gaffi, 2015), un romanzo e allo stesso tempo un saggio su una figura e una vicenda tra le più amate e
controverse del XX secolo.

Due i principali siti italiani di riferimento per gli appassionati del caso: www.johnkennedy.it, curato da Federico Ferrero (anch’egli, come Verdegiglio, dopo un ventennio di complottismo passato armi e bagagli a credere nella sola responsabilità di Oswald e nella versione ufficiale), e www.jfkennedy.it, a cura di un trio guidato da Giuseppe Sabatino, di segno dichiaratamente opposto.
In lingua inglese la più completa raccolta di file sul caso è disponibile online su www.jfkmurdersolved.com, anch’esso decisamente cospirazionista.

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