John Ford è l’uomo che, di fatto, ha inventato il cinema western. Anzi, colui che ha reinventato il West per intero.
Non è un paradosso: anche se Ford nacque nel 1895, quando la grande avventura della Frontiera era già morta e sepolta, fu proprio lui, assieme agli altri registi del genere, a creare l’epica che ridiede linfa vitale alla saga più originale, importante e ricca dell’intera nazione americana.
Un popolo che, altrimenti, non avrebbe potuto cantare altre storie se non quelle dolorose, benché eroiche, della Guerra d’indipendenza e della Guerra Civile.
Fu Ford a fare del West un luogo mitico e magico, la sede dei sogni di ogni famiglia americana. Fu lui a creare una sintassi per il cinema western, con tutti i suoi cliché, i personaggi fondamentali, le situazioni tipiche. Egli stesso, anche se in maniera modesta, si riconosceva questo merito.
Come amava dire: «Si esagera facendo di me uno specialista del western. Ciò detto, amo questo genere. Forse perché non ho dimenticato la lezione del cinema muto, e accordo all’azione un’importanza preponderante. Il cinema migliore è quello in cui l’azione è lunga e i dialoghi brevi. Il più difficile è trovare la storia da raccontare; una buona storia, con uno sfondo pittoresco e che tratti di esseri umani». Insomma, una buona storia ambientata nel Far West.
John Ford e il cinema western: un binomio inscindibile nell’immaginario di tutti gli amanti del cinema e del Far West. O, forse, un “trinomio”, se a Ford e al West uniamo anche John Wayne, l’attore “feticcio” del grande regista, con cui girò, tra il 1928 (anno del film muto La casa del boia) e il 1963 (I tre della Croce del Sud, una commedia ambientata in Polinesia), ben 21 pellicole, tra cui alcuni capisaldi del western come Ombre rosse, In nome di Dio, Il massacro di Fort Apache, I cavalieri del Nord Ovest, Rio Bravo, Sentieri selvaggi, Soldati a cavallo, L’uomo che uccise Liberty Valance e La conquista del West.
Ma chi era veramente John Ford, il re dei film western? Scopriamolo insieme.
1. Il magnifico irlandese
Eppure, quando nel 1968, durante un’intervista televisiva rilasciata al giornalista Philip Jenkinson, Ford pronunciò la celebre frase «Mi chiamo John Ford e faccio western», Hollywood fu percorsa da un alito di perplessità.
Probabilmente era la prima volta che si parlava del western come di un autentico mezzo espressivo degno di attenzione e non come di un semplice prodotto commerciale per le masse.
Fino a quel momento, come ricorda il regista Douglas Sirk, «nessuno si era mai occupato di stabilire quale posto avesse il western nel cinema americano, né quale posto avessero i film nella cultura americana. L’osservazione di Ford provocò accese discussioni. Ci si stupiva del fatto che il grande John Ford si fosse autodefinito in quei termini. Ma io credo che non si possa esaminare il cinema americano se non si tiene conto del western».
Era proprio così. Ford intendeva dire non solo che tutti i suoi film, in un certo senso, erano western, ma anche che il cinema americano, nella sua totalità, era fatto di grandi western; perché il western costituiva l’epica di quel popolo, il suo vero sottofondo culturale, il tessuto su cui si era costituita, nel corso dei cento anni che andavano dalla fine del Settecento alla fine dell’Ottocento, la società degli Stati Uniti.
Con i suoi pregi e i suoi difetti, i suoi gravi peccati originali e i suoi tentativi (non sempre riusciti) di redimersi e farsi perdonare dalla Storia e dalla propria coscienza. Fin dai primi tempi della colonizzazione, l’Ovest si spostò sempre più a ovest e il West divenne sempre più il Far West, lungo l’immaginaria linea della Frontiera che doveva portare, una volta giunti oltre l’arcobaleno e l’orizzonte, a un mondo fatto di pura libertà.
L’America e gli americani si costruirono mediante l’azione, e quell'azione fu un viaggio continuo per spingere la Frontiera sempre più in là. Il Paese non poteva essere separato dal suo limite, dal suo West; in questo modo i racconti western diventavano l’archetipo della storia americana, fatta dell’incontro dell'uomo bianco con la terra selvaggia e con coloro che la abitavano, gli indiani. Ognuno dei grandi film western di Ford è il sunto di tutto questo.
Nato a Cape Elizabeth, nel Maine, il 1° febbraio 1895, John Ford era figlio di immigrati di origine irlandese: contadini, come disse lui stesso, che in America ricevettero un’istruzione per il bene del nuovo Paese. Il suo vero nome era Sean (versione irlandese di John) Aloysius O'Fearna, e aveva tredici tra fratelli e sorelle.
La povertà dei genitori lo rese, in un certo senso, più puro di spirito. Come ricordava in un’intervista al quotidiano francese “Le Monde”: «Spesso mi viene rinfacciato il mio idealismo. Non lo nego. Il fatto è che io credo in un mucchio di cose che ormai si è presa l’abitudine di sbeffeggiare: l’amore, l’amicizia, la giustizia. Amo gli uomini e ho fiducia in loro».
È la base del suo cinema, e probabilmente della sua vita, se è vero che, pur essendo di idee repubblicane e conservatrici, durante la tempesta maccartista che sconvolse Hollywood (quando, negli anni Cinquanta, si cominciò a dare la caccia ai simpatizzanti socialisti e comunisti fra quanti lavoravano nel mondo del cinema), non esitò a schierarsi a difesa di colleghi più o meno sospettati: lo fece in nome dell’amicizia e dell’amore per il lavoro che li univa.
Quando John era bambino, la sua famiglia si trasferì a Portland, dove il padre aveva acquistato un saloon. Studiò alla Portland High School, dove si diplomò nel 1913. Si impiegò quindi in una fabbrica di scarpe, come addetto alla pubblicità. Ben presto, però, raggiunse il fratello maggiore Francis, che lavorava come attore e regista alla Bison Life Motion Picture.
Nel 1916, John (che si faceva chiamare Jack) iniziò a lavorare come assistente alla regia, ma intanto faceva anche il macchinista e il trovarobe. Suo fratello aveva già assunto il cognome d’arte Ford; poco dopo, anche John fece lo stesso.
Buon lavorante del cinema, Francis proseguì a fare sia l’attore che il regista fino agli inizi degli anni Venti, quando decise di dedicarsi esclusivamente alla carriera di attore (comparve più volte anche in film del fratello).
Qualche anno prima, John, tra altre migliaia di comparse, aveva partecipato alla realizzazione di Nascita di una nazione, di Griffith. Interpretava un cavaliere del Ku Klux Klan, e l’esperienza gli consentì di studiare i metodi di lavoro del grande regista.
Come disse lui stesso, «Griffith influenzò tutti noi. Se non fosse stato per lui, il cinema non sarebbe mai uscito dall’infanzia. È stato il promotore di tutto, è stato lui a inventare il primo piano e a fare un sacco di cose cui nessuno aveva mai pensato prima».
Quando la casa di produzione per cui lavorava, visti i successi dei western con Tom Mix, William Hart, Rio Jim e Bronco Bill, si decise a produrre anch’essa film del genere, la scelta per la regia cadde su John Ford, visto che gli altri registi disdegnavano quel tipo di pellicole, ritenute più adatte ad acrobati e artisti circensi che a veri attori.
2. L’invenzione di un genere
Nel 1917, Ford diresse il suo primo film, The Tornado, interpretato anche da lui stesso.
Il «Moving Pictures World» recensì l’opera scrivendo: «Nel salto dal tetto in sella al cavallo, Jack Ford si fa ammirare come acrobata e abile cavallerizzo. Al culmine dell’azione, il protagonista balza dal cavallo in corsa su un treno in movimento».
I western dell’epoca erano così: più un lavoro da cascatori che altro. Lo stesso Ford riteneva che le immagini e non le parole dovessero raccontare una storia. Dopo quel primo successo, Ford realizzò una serie di 26 western in cui l'attore protagonista era Harry Carey.
Ogni film era girato nell’arco di una settimana, spesso improvvisando durante le riprese. Il trucco per risultare così prolifici consisteva nello scrivere una storia base e poi girarla in ambienti diversi, con nuovi titoli e coprotagonisti differenti.
Ford ammise di aver girato “lo stesso film” almeno 12 volte senza che nessuno se ne accorgesse. Erano tulle pellicole da due rulli (circa 20 minuti), ma nel 1917 Ford realizzò anche il suo primo lungometraggio (cinque rulli, poco meno di un’ora) intitolato Centro! (Straight Shooting).
Un critico scrisse: «Pochi registi sanno mettere tanta forza nei film come fa Ford». Il 3 luglio 1920, John si sposò con Mary McBride Smith, da cui ebbe due figli: Patrick Roper, nel 1921, e Barbara Nugent, nel 1922. Nel 1923, per il film Cameo Kirby, fu accreditato per la prima volta con il nome John invece che Jack.
L'anno dopo arrivò il suo primo, vero, grande successo: Il cavallo d'acciaio (The Iron Horse), che racconta l'avventurosa vicenda della costruzione della ferrovia transcontinentale, che unì le due coste degli Stati Uniti negli anni Sessanta dell’Ottocento.
Nel 1928, John girò La casa del boia (The Hangmans House), il suo primo lavoro con John Wayne. Era ancora un film muto, ma iniziò lì il sodalizio trentennale fra i due artisti. L’opera, nonostante il titolo, non è un western, bensì un drammone familiare irlandese in cui Wayne non recita da protagonista, ma nella parte di uno spettatore a una corsa di cavalli.
Nel 1929, Ford realizzò il suo primo film parlato, Il barbiere di Napoleone (Napoleon’s Barber), un cortometraggio comico in cui un barbiere spaccone si vanta con un cliente di ciò che farebbe a Napoleone se gli capitasse a tiro, salvo poi scoprire che il cliente è proprio Napoleone.
Del 1935 è The Informer (Il traditore), forse il più grande successo di critica mai ottenuto da Ford, che gli consentì di vincere l’Oscar come miglior regista.
Nel 1939 John Ford girò il suo western più famoso: Ombre rosse (Stagecoach). Sceneggiato da Dudley Nichols partendo da un racconto di Ernest Haycox, il film, ambientato attorno al 1880, narra la vicenda di una diligenza su cui viaggiano una prostituta che vuole cambiare vita (Dallas), un dottore alcolizzato, la moglie incinta di un ufficiale, un sudista spiantato, un banchiere truffatore, un rappresentante di whisky e uno sceriffo, a cui, lungo la strada, si aggiunge il cowboy e pistolero Ringo (John Wayne), proprio l'uomo che il tutore della legge sta braccando.
Priva di scorta militare, la diligenza viene attaccata dagli Apache, ma il provvidenziale “Arrivano i nostri!" (cioè l'intervento della Cavalleria) risolve la situazione. Il fuorilegge compie la vendetta che desiderava e lo sceriffo, alla fine, lo lascia libero di fuggire oltreconfine, in Messico, dove rifarsi una nuova vita con Dallas, di cui nel frattempo si è innamorato.
Oltre che il film per eccellenza di Ford, la pellicola è anche la prima in cui Wayne giochi un ruolo di assoluto primo piano, costruendo il personaggio tipico di tutti i suoi western futuri: l’uomo solido, senza tentennamenti, leale, ma con una venatura di malinconia che lo rende umano, nonostante le apparenti rigidità.
Il film, che secondo il critico francese André Bazin disegna la forma classica del western al suo punto più alto, ottenne due premi Oscar: per la colonna sonora, composta da Richard Hageman, e per il miglior attore non protagonista, assegnato a Thomas Mitchell, che vestiva i panni di Josiah Boone, il medico alcolizzato.
Nel 1940, Ford vinse il suo secondo Oscar come regista. Se lo aggiudicò per Furore (The Grapes of Wrath), capolavoro tratto dal romanzo pubblicato da John Steinbeck solo un anno prima.
Interpretato da Henry Fonda, Jane Darwell e John Carradine, il film racconta l’America della grande depressione. Tom Joad (Fonda) esce di prigione e scopre che la sua terra gli è stata espropriata dalle banche.
Non ha altra scelta che partire su un camion, con tutta la famiglia, diretto nel West, verso la California, percorrendo la Route 66, trasformata in una pista di nuovi pionieri. La loro illusione di ottenere una terra fertile da coltivare viene presto disillusa e il viaggio si trasforma in una vera odissea.
3. La stagione della Frontiera
Quando gli Stati Uniti dichiarano guerra al Giappone, dopo il bombardamento di Pearl Harbor, nel dicembre del 1941, Ford si arruolò in Marina.
A capo di un gruppo di reporter e operatori, riprese le operazioni sul campo. Nel 1942 partecipò alla battaglia delle Midway, dove subì la ferita che, tempo dopo, gli sarebbe costata la perdita dell’occhio sinistro.
Dopo la guerra, nel 1945, girò I sacrificati (They Were Expendable), un film di guerra, ma negli anni immediatamente successivi iniziò per lui la grande stagione dei western. ellicole destinate a fare epoca, interpretate da attori di straordinario spessore, in grado di creare una cifra specifica, un cliché che modulasse l’intero cinema della Frontiera.
La lista comincia con Sfida infernale, del 1946, interpretato da Henry Fonda nei panni di Wyatt Earp e Victor Mature in quelli di Doc Holliday. Il film riprende la vicenda della celebre sfida all’O.K. Corral, che proprio grazie a questa pellicola si trasformò in uno dei miti fondanti del West.
Come disse Ford: «Uomini come Earp avevano del fegato. Non avevano bisogno di servirsi del revolver. Era sufficiente lo sguardo. Dominavano con il prestigio di cui godevano e con la personalità. E poi... avevano fortuna. La .45 è l’arma più imprecisa che sia mai stata fabbricata».
Del 1948 è II massacro di Fort Apache (Fort Apache), ancora con Henry Fonda, cui si affianca John Wayne, che apre la serie in cui interpreta ufficiali dell’esercito. Il film è anche il primo di una trilogia dedicata alla cavalleria durante le Guerre indiane, e mette in scena il contrasto fra il colonnello Turner (Fonda), desideroso di farsi un nome nel conflitto contro i pellerossa, e gli altri ufficiali del forte, tutti veterani del West, fra cui il capitano York (Wayne), che si dimostrano più attendisti.
Nel 1949 è la volta di I cavalieri del Nord Ovest (She Wore a Yellow Ribbon), secondo capitolo della trilogia citata. Lo stile della pellicola è esplicitamente ispirato a quello del pittore western Frederic Remington e valse a Winton Hoch il premio Oscar per la miglior fotografia.
Ford rivelò: «Ho tentato d’imitare lo stile di Remington, ma non si può imitarlo al cento per cento. Come obiettivo minimo mi sono dato quello di cogliere il colore e il movimento che gli sono peculiari, e penso di esserci in parte riuscito».
Interpretato da John Wayne nel ruolo del capitano Nathan Brittles, il film prende avvio all’indomani della disastrosa sconfitta di Custer a Little Bighorn e mostra la cavalleria impegnata a fronteggiare una grande offensiva di pellerossa, unitisi in un’estesa e temibile alleanza.
Lo scenario che fa da sfondo agli esterni è quello della Monument Valley, tra Utah e Arizona, luogo abituale nella cinematografia fordiana e ormai inciso nell’immaginario comune come il vero paesaggio western.
Rio Bravo (Rio Grande), del 1950, è il terzo film della trilogia (sempre interpretato da John Wayne), preceduto da un altro western: La carovana dei mormoni (Wagon Master), in cui Ford ripercorre l’epico trasferimento dei coloni di fede mormone verso i territori dello Utah, dove fondarono Salt Lake City.
Ma è con un film non western, Un uomo tranquillo (The Quiet Man), del 1952, che Ford, con Wayne come interprete, si aggiudicò il suo quarto e ultimo Oscar (nel 1942, in piena guerra, era stata la volta di Com’era verde la mia valle, in originale How Green Was My Valley).
4. I due inseparabili John e gli ultimi fuochi
- I due inseparabili John
Nel 1953 Ford girò l’avventuroso Mogambo e, per l’amicizia con John Wayne, lavorò come regista della seconda unità a Hondo, diretto da John Farrow.
Del 1956 è il capolavoro Sentieri selvaggi (The Searchers), probabilmente il miglior risultato della collaborazione tra Ford e Wayne: qui l’attore riteneva di aver dato il meglio di sé e sarebbe stato sempre particolarmente affezionato al personaggio da lui interpretato, quello di Ethan Edwards, tanto da battezzare Ethan uno dei suoi figli.
La storia dei due uomini alla ricerca di una ragazza rapita dagli indiani mette in scena tutti gli stereotipi del western, a partire dall’ambientazione (la Monument Valley), per proseguire con i pellerossa, i banditi, il deserto e il senso di sconfitta che avvolge il protagonista, un uomo del passato che non riesce ad ambientarsi nel mondo in cui si trova a vivere.
Dopo aver ritrovato la nipote rapita dagli indiani e averla riportata alla famiglia, la sua partenza verso un orizzonte immenso rappresenta forse il tentativo di calarsi in un passato, quello del West avventuroso, che sta morendo, soffocato dalla civiltà avanzante.
Ambientato dopo la Guerra di secessione (il periodo più drammatico della storia americana, che forgiò l’anima stessa della nazione, ma le inflisse anche innumerevoli ferite), il film, come dichiarò Ford, «è la tragedia di un solitario; di uno che, uscito vivo dalla Guerra Civile, se n’è andato in Messico, dov’è diventato un bandito, e non è mai diventato parte della sua famiglia».
Del resto, quello della solitudine volontaria e dell’abbandono degli affetti domestici è sempre stato un tema ricorrente nella letteratura americana, a partire da Washington Irving ed Hermann Melville.
- Gli ultimi fuochi
Il 1959 fu l’anno di Soldati a cavallo (The Horse Soldiers), ispirato a un episodio realmente accaduto durante la Guerra Civile e raccontato nell’omonimo romanzo di Harold Sinclair, in cui si rievoca la vicenda del colonnello nordista Benjamin Grierson (trasformato in John Marlowe e interpretato da Wayne) che, nel 1863, fu incaricato di penetrare dietro le linee sudiste per sabotare le ferrovie che ne rifornivano le truppe.
Nel 1961 Ford girò Cavalcarono insieme (Two Rode Together), in cui riprese il tema di Sentieri selvaggi, cioè quello della ricerca dei prigionieri dei pellerossa.
L’anno dopo, fu la volta del suo ultimo grande western, che fu anche uno dei suoi ultimi film: L’uomo che uccise Liberty Valance (The Man Who Shot Liberty Valance). A interpretarlo, James Stewart nelle vesti dell’avvocato Ransom Stoddard, trasferitosi nel West dalla città, e John Wayne nella parte del cowboy solitario Tom Doniphon.
Nel film, ambientato a fine Ottocento, i due uomini rappresentano gli aspetti conrapposti del West che si stava formando: la civiltà, proveniente dall’Est, con le sue regole e le sue leggi, e la libertà, anche un po’ anarchica, del vecchio West.
Cosciente che sarà la prima a prevalere, Doniphon si mette al suo “servizio” e la aiuta ad avere la meglio sui fuorilegge che mettono sotto scacco la cittadina.
Seguirono il film a più mani La conquista del West (How the West Was Won), del 1962, e II grande sentiero (Cheyenne Autumn), del 1964, dalla parte degli indiani.
Ma Ford era ormai già malato. Il suo ultimo lavoro, Missione in Manciùria (7 Women), del 1966, fu un insuccesso di critica e pubblico. Non sarebbe più tornato sul set: si spense a Palm Springs, il 2 settembre 1973. I Navajo della Monument Valley lo ricordano con il nome di Natani Nez: “Grande Capo Alto”.
Nella foto sotto, John Ford nei primi anni Settanta, in compagnia dei colleghi registi Dennis Hopper (autore, nel 1969, di Easy Rider, a sinistra) e John Huston, che diresse anch’egli western celebri come II tesoro della Sierra Madre (1947), Gli inesorabili (1960) e l'uomo dai 7 capestri (1972).
5. I quattro premi Oscar e i ventisei capolavori western
- I quattro premi Oscar
Nel corso della sua straordinaria carriera, durata cinquant'anni, John Ford ha vinto ben quattro premi Oscar come miglior regista, nessuno dei quali, tuttavia, per un film western. I suoi film premiati furono:
∗ Il traditore, 1936, con Victor McLaglen, Heather Angel e Preston Foster. Sceneggiato da Dudley Nichols, il film è ambientato nell'lrlanda del 1922, all'epoca della guerra civile.
Racconta la storia di Gypo Nolan, un disoccupato allontanato dai nazionalisti per non aver avuto il coraggio di uccidere un traditore e che, alla fine, diventa traditore egli stesso.
∗ Furore, 1940, con Henry Fonda, Jane Darwell, John Carradine. Tratto dall'omonimo romanzo di John Steinbeck, racconta l'America negli anni della grande depressione, quando migliaia di famiglie furono costrette a lasciare le loro case per cercare un'illusione di sopravvivenza nelle terre dell'Ovest. Un sogno spesso infranto da sfruttamento, sopraffazioni, violenza e morte.
∗ Com'era verde la mia valle, 1942, con Walter Pidgeon, Maureen O'Hara, Donald Crisp. Basato su un romanzo di Richard Llewellyn, è la vicenda di un minatore che lascia la città gallese in cui è sempre vissuto, ma che ormai è completamente cambiata
∗ Un uomo tranquillo, 1953, con John Wayne, Maureen O'Hara, Victor McLaglen. Scritto da Frank S. Nugen, è la storia di Sean Thornton, pugile che ha fatto fortuna in America e torna nella sua Irlanda.
Accolto inizialmente con sospetto, quando decide di riacquistare la casa dei genitori diventa il beniamino della comunità.
- 26 capolavori western
Ford diresse uno straordinario numero di film western. Quella che segue è una selezione delle sue migliori pellicole:
∗ La pista dell'odio (The Trail of Hate), 1917.
∗ Il compagno di Cheyenne (Cheyenne's Pal), 1917.
∗ All'assalto del viale (Bucking Broadway), 1917.
∗ Tre uomini a cavallo (Three Mounted Men), 1918.
∗ Preso al laccio (Roped), 1919.
∗ L'agenzia degli affari indiani (By Indian Post), 1919.
∗ La legge della pistola (Gun Law), 1919.
∗ L'ultimo fuorilegge (The Last Outlaw), 1919.
∗ I cavalieri della legge (The Rider of the Law), 1919.
∗ Piste disperate (Desperate Trails), 1921.
∗ II cavallo d'acciaio (The Iron Horse), 1924.
∗ Ombre rosse (Stagecoach), 1939.
∗ La più grande avventura (Drums Along the Mohawk), 1939.
∗ Sfida infernale (My Darling Clementine), 1946.
∗ Il massacro di Fort Apache (Fort Apache), 1948.
∗ I cavalieri del Nord Ovest (She Wore a Yellow Ribbon), 1949.
∗ La carovana dei mormoni (Wagon Master), 1950.
∗ Rio Bravo (Rio Grande), 1950.
∗ Hondo (Hondo), 1953.
∗ Sentieri selvaggi (The Searchers), 1956.
∗ Soldati a cavallo (The Horse Soldiers), 1959.
∗ I dannati e gli eroi (Sergeant Rutledge), 1960.
∗ Cavalcarono insieme (Two Rode Together), 1961.
∗ L'uomo che uccise Liberty Valance (The Man Who Shot Liberty Valance), 1962.
∗ La conquista del West (How the West Was Won), 1962.
∗ II grande sentiero (Cheyenne Autumn), 1964.
Note
PAROLA DI JOHN FORD
«Amo l'aria aperta, i grandi spazi, le montagne, i deserti. Sesso, degenerazione e oscenità sono cose che non m'interessano. Mi piace assaporare il profumo onesto dell'aria aperta. È un bisogno, per me».
«Gli indiani mi sono molto cari. C'è del vero nell'accusa che l'indiano non è stato ritratto con giustizia nel western, ma l'accusa è stata falsamente generalizzata. L'indiano non amava l'uomo bianco, e non era per niente diplomatico».
«Abbiamo avuto torto a trasformare in eroi banditi come Billy the Kid, che era d'incredibile ferocia e brutalità. Anche se è vero che la legge o l'ordine furono imposti da delinquenti rinsaviti, ai quali era stato affidato l'incarico di sceriffo».
«Provo molto affetto per gli indiani. Sono un popolo morale: hanno il cuore generoso, amano i bambini e amano gli animali».
«Ciò che m'interessa è il folklore del West. Mostrare il reale in modo quasi documentario, lo sono stato cowboy: mi guadagnavo 13 dollari al mese con le mie mani all'epoca in cui Pancho Villa attraversava la Frontiera».
«Il cinema migliore è quello in cui l'azione è lunga e i dialoghi brevi. Quando un film racconta la sua storia con una successione di piani semplici e belli, allora sì che è cinema».