Avviata già nell’829, la costruzione del santuario destinato ad accogliere le spoglie dell’Evangelista – trafugate l’anno precedente da Alessandria d’Egitto – fa esplicito riferimento a due modelli illustri: il Santo Sepolcro di Gerusalemme e la basilica degli Apostoli di Costantinopoli.
Correva l’anno 828 e due mercanti veneziani, Bono e Rustico, si trovavano ad Alessandria d’Egitto quando le locali autorità «saracene» ordinarono che, per costruire un nuovo palazzo, si prelevassero colonne e lastre marmoree da chiese cristiane e altri edifici.
Tra le possibili fonti di approvvigionamento vi era anche il tempio in onore di san Marco, e, infatti, i due mercanti, che vi si erano recati in preghiera, trovarono i custodi della tomba dell’evangelista, il monaco Stauricio e il prete Teodoro, assai preoccupati di fronte a una simile prospettiva.
Bono e Rustico, allora, proposero ai due di portare a Venezia le spoglie del santo, sostenendo che, poiché Marco, prima ancora di giungere ad Alessandria, aveva fondato sull’alto Adriatico il patriarcato di Aquileia, i Veneziani ne erano «figli primogeniti» ed era dunque piú che naturale che ne custodissero il corpo.
I religiosi tergiversarono, finché un uomo che era entrato nella chiesa e aveva nascosto una lapide di marmo per salvarla dalla razzia non fu arrestato e duramente fustigato dai «Saraceni».
Oggi scopriremo alcune cose molto interessanti sulla Basilica di San Marco a Venezia. Leggiamole insieme.
1. Il «sacro furto» delle reliquie dell’Evangelista
Stauricio e Teodoro si convinsero allora della necessità di porre al riparo le sacre ossa da ogni empietà, e si imbarcarono nell’impresa dei due mercanti.
Per non indurre sospetti, misero al posto di quelle dell’Evangelista le ossa di santa Claudia.
Una scelta felice, poiché le ossa di san Marco, appena rimosse, emisero un profumo soave e potentissimo, che fu avvertito in tutta la città.
Quelli che corsero a controllare il sepolcro trovarono le ossa della santa e non si accorsero del trafugamento, mentre le reliquie di san Marco, caricate su un carro, furono nascoste sotto uno strato di carne di maiale.
Le guardie musulmane incontrate per strada non osarono toccare quel carico, per loro immondo, e non si accorsero del tesoro che c’era sotto.
Fu cosí che i due mercanti, in compagnia di Stauricio, caricarono le reliquie sulla loro imbarcazione e fecero ritorno a Venezia. Il doge Giustiniano, all’oscuro del piano, fu ben lieto dell’impresa e accolse trionfalmente i trafugatori. Le stesse reliquie furono depositate nel Palazzo ducale, in attesa che venisse eretto l’apposito santuario.
La storia fin qui riassunta è tratta dall’avventurosa Translatio sancti Marci (Traslazione di san Marco), l’opera che racconta, con inevitabili deformazioni epiche, il «sacro furto» delle celebri reliquie dell’Evangelista.
È, al riguardo, l’unica fonte disponibile. L’edizione del racconto che ci è pervenuta risale alla metà dell’XI secolo, ma si può sostenere che la sua versione originale sia stata realizzata a ridosso dei fatti narrati, intorno alla metà del IX secolo.
In ogni caso, non vi è ragione per dubitare sui dati essenziali della tradizione. D’altronde, un pellegrino in Terra Santa, tale Bevado, intorno all’850 fece tappa ad Alessandria per rendere omaggio alla tomba di san Marco, e seppe solo all’ultimo momento che quelle ossa non c’erano più, perché erano state condotte a Venezia.
Nella Translatio ritroviamo tutti i luoghi tipici delle narrazioni dedicate ai trafugamenti di reliquie. In particolare, il santo è ben lieto di essere trasferito (le sue ossa emanano infatti un profumo paradisiaco), poiché il suo santuario è in mano a dominatori spietati, violenti oltreché famelici di spoglie.
Nell’ottica del racconto, le ossa vengono traslate da un luogo a un altro, più sicuro e ben più onorifico, per iniziativa di due solerti mercanti, ma, nella realtà dei fatti, il corpo di san Marco è stato «acquisito» con un’azione predatoria organizzata in grande stile.
Tutto fu pianificato sin dal principio con l’avallo del doge, per fare di san Marco l’elemento protettivo e il punto di forza della città lagunare, fiera della propria autonomia e della propria determinazione.
Nell’isola di Rivo Alto (Rialto), di fianco all’antico Palazzo Ducale, sorge cosí il santuario di S. Marco. La sua costruzione è già avviata nell’829 dal doge Giovanni, fratello di Giustiniano.
Egli fa tesoro di un periodo di esilio in Oriente, e intende così realizzare una replica del Santo Sepolcro di Gerusalemme, che ebbe modo di vedere dal vivo. Secondo una tradizione tardiva, si sarebbe affidato a un architetto di nome Narsis (Narsete), forse armeno.
Di questa chiesa non rimane alcuna descrizione, e non sussiste oggi alcun elemento che le possa essere riferito con certezza. Due punti, però, costituiscono una indiscussa e preziosa base per gli sviluppi futuri.
In primo luogo, si afferma subito la volontà di imitare un illustre santuario ubicato nel cuore stesso della cristianità: un’imitazione magari simbolica sul piano architettonico, ma assai concreta sul piano delle funzioni e dei significati. S. Marco doveva giocare a Venezia lo stesso ruolo del Santo Sepolcro di Cristo nella Città Santa.
In secondo luogo, questo ruolo doveva essere disancorato dall’autorità religiosa. Mentre il santuario della Palestina sorgeva di fianco alla residenza del patriarca, S. Marco era una chiesa di palazzo, di esclusiva pertinenza del doge.
La ben meno celebre cattedrale di Venezia con la relativa sede vescovile, S. Pietro, era ubicata da tutt’altra parte, sull’isola di Castello. S. Marco acquisì l’attuale qualifica di cattedrale solo nel 1807.
2. Un’ambizione senza pari
Secondo il cronista cinquecentesco Stefano Magno, nella seconda metà dell’XI secolo la già florida Venezia aveva accumulato un tesoro cospicuo, grazie agli affari mercantili e alle prime attività in campo militare.
Che cosa fare di tanto denaro? I casi erano due: o si ingaggiava una guerra o si costruiva una chiesa.
Si decise di ricostruire S. Marco, in proporzioni ben più ampie. Il modello scelto era segno di un’ambizione che all’epoca era davvero senza pari.
Si voleva infatti riproporre, nello schema generale e nelle dimensioni, la sontuosa basilica degli Apostoli di Costantinopoli (Apostoleion), ricostruita da Giustiniano tra il 536 circa e il 550, in seguito sottoposta a restauri e rifacimenti, senza modifiche significative, nei secoli IX e X.
Fondata da Costantino stesso come memoriale degli Apostoli e come proprio mausoleo (vi fu sepolto nel 337), la basilica bizantina, oggi non più esistente, era il prototipo della chiesa di Stato di antica tradizione, che legava a doppio filo la fede all’autorità laica.
La basilica di S. Marco, che era al tempo stesso santuario di un evangelista (eletto ad apostolo della laguna), cappella palatina e mausoleo dei dogi, doveva adeguarsi senz’altro a una tale struttura. L’impresa fu avviata nel 1063 sotto il dogado di Domenico Contarini.
Era davvero un anno cruciale, poiché alla stessa data veniva aperto un altro considerevole cantiere in un’altra grande città marinara, Pisa, laddove si eresse una chiesa ben paragonabile a S. Marco per impegno economico e significato civico, la cattedrale di S. Maria Assunta.
E, nello stesso 1063, il maestro Deusdedit dava inizio alla poderosa torre campanaria della chiesa abbaziale di Pomposa, lungo la strada che congiungeva Venezia a Ravenna.
La struttura, alta quasi 49 m e staccata dal corpo della chiesa, fece da apripista alla tipica serie dei campanili italiani isolati, come la stessa torre di S. Marco, vedetta e simbolo della Serenissima, completata nel 1152.
La torre veneziana crollò all’improvviso nel 1902, ma fu subito riedificata «come era e dove era». Collegata in origine al fabbricato delle Osterie, essa stabilí le premesse dell’attuale piazza San Marco, suggerendo di estendere il suo ristretto ambito originario con l’interramento del canale Batario che correva sul lato ovest.
Intorno al 1170, intrapreso o completato l’ampliamento, sorsero sul lato settentrionale le antiche Procuratie (destinate agli amministratori della basilica), simili alle Osterie per le facciate a portico con galleria sovrastante.
Nella piazzetta, a delimitare con enfasi il Molo, furono erette le colonne monumentali che tuttora si osservano (forse ispirate alle colonne onorarie che sorgevano presso l’Apostoleion), mentre il Palazzo Ducale e il contiguo Palazzo di Giustizia venivano completamente ricostruiti.
Nel 1071 i lavori di costruzione della basilica veneziana risultano già conclusi. Si parava cosí, in tutta la sua grandezza, lo stesso edificio che abbiamo sotto ai nostri occhi, sebbene la sua veste laterizia sia «mascherata» da numerose aggiunte e modifiche. Tutti gli elementi fondamentali dell’insieme riconducono alla scomparsa chiesa di Costantinopoli.
3. I primi mosaici
La più antica decorazione musiva della chiesa, eseguita nell’ultimo quarto dell’XI secolo, interessò due soli punti eminenti: l’abside e l’esedra nella quale si apre l’ingresso principale, sulla facciata interna.
Non mancò qualche intervento isolato di carattere devozionale, come la vibrante Deposizione, ritrovata in frammenti sotto le lastre del rivestimento marmoreo, su uno dei pilastri della cupola centrale (oggi custodita al Museo Marciano).
Nella calotta dell’abside prese forma il Cristo in trono, oggi perduto (la raffigurazione attuale è un rifacimento del 1506), mentre nella fascia sottostante, tra una finestra e l’altra, si ammirano tuttora le enormi raffigurazioni dei santi patroni: Nicola (il protettore della flotta cittadina) è in posa frontale, da «icona», mentre Pietro è intento a consegnare le Scritture a Marco, che le «gira» a sua volta a Ermagora (il primo vescovo di Aquileia).
Qui, come sottolinea Antonio Iacobini, si realizza il «manifesto» storico-ideologico della chiesa, grazie a una maestranza greca che introduce con piglio monumentale il raffinato stile bizantino dell’epoca dei primi imperatori della dinastia comnena.
Mentre nel duomo della vicina isola di Torcello un’altra squadra di musivari greci, intorno al 1050, aveva posto al culmine dell’abside la figura della Madonna col Bambino, secondo la tradizione bizantina, a S. Marco l’abside è riservata invece al Cristo Pantocratore (che «domina tutto con forza»), di norma previsto all’apice di una cupola.
In tal modo, quando iniziò la vasta campagna decorativa del S. Marco, intorno al 1150, la figura stessa del Cristo fece da culmine al programma iconografico, sviluppato lungo tutto l’asse longitudinale della basilica, secondo una sensibilità spaziale tipica dell’Occidente.
L’impresa partí dalla cupola del presbiterio e si sviluppò verso l’entrata principale nell’arco di un lungo periodo, fino al Duecento inoltrato, impegnando svariate squadre di musivari, di provenienza greca ma anche di formazione locale, spesso in collaborazione tra loro, e sempre sulla scia del lessico decorativo delle chiese bizantine.
Nonostante i vari apporti succedutisi nel tempo considerevole richiesto dall’esecuzione, tutto il complesso appare compatto, coeso, unitario. L’effetto è favorito da uno spazio architettonico che si espande in modo fluido, con superfici lievemente articolate.
Gli stessi mosaici si sviluppano a macchia d’olio senza l’ausilio di alcuna riquadratura, su un fondo aureo compatto, che li unifica mirabilmente.
Nelle fasce basali delle pareti, le superfici si rivestono di lastre marmoree sapientemente accostate, dove le venature della pietra creano una ritmica astratta di «composizioni» simmetriche, a formare una sorta di drappo continuo, così come si osserva ancora oggi nelle chiese giustinianee di S. Sofia a Costantinopoli e di S. Vitale a Ravenna.
Il discorso figurativo principale si articola secondo una sensibilità prettamente storica, consentendo al fedele di passare in rassegna, in modo coerente e progressivo, tutte le fasi della Rivelazione, a partire dal Cristo in trono dell’abside.
La cupola dell’Emanuele, al di sopra del presbiterio, decorata da artisti veneziani già nei primi decenni del XII secolo, mette in scena Cristo nel clipeo stellato con i Profeti attorno, e allude così alla speranza nell’avvento dell’Atteso.
La cupola centrale dell’Ascensione vede all’opera, intorno al 1170, una maestranza greca di altissima levatura, che porta al culmine i preziosismi della pittura comnena. Qui entra in scena il passato, il momento in cui si afferma la Chiesa militante.
Intorno all’Asceso si profila il solenne corteo della Madonna e degli Apostoli, e, cosa inaudita in un soggetto così tipicamente «bizantino», si inserisce anche una schiera con le personificazioni danzanti delle Virtù e delle Beatitudini, mutuate dal repertorio della scultura e della pittura «latina».
La cupola occidentale della Pentecoste è invece dedicata al presente, ossia al ritorno del Cristo che dà la premessa alla Chiesa trionfante. Vi opera una presumibile maestranza locale, in una cruciale fase di passaggio, tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo.
Al culmine si osserva l’Etimasia («preparazione del trono»), in cui la colomba dello Spirito Santo plana sul trono vuoto, destinato al Messia alla fine dei tempi. L’immagine sommitale si congiunge al corteo degli Apostoli (già incontrati nella cupola adiacente) grazie a una raggiera di lingue di fuoco.
4. Gli araldi della Rivelazione
Per effetto della discesa dello Spirito Santo sugli araldi della Rivelazione, tutti i popoli della terra, raffigurati tra una finestra e l’altra (un altro inserto tipicamente «occidentale»), vengono a conoscenza del messaggio di Cristo.
Intorno all’asse principale della decorazione, già punteggiato da ridondanze e da «contaminazioni», si sviluppa, sin dal principio, una pletora di storie e di «icone» che completa un insieme davvero strepitante e tutt’altro che rigoroso, dotato di una forza innegabile proprio per la sua ricchezza figurativa e narrativa.
Spiccano le storie dedicate a Cristo e a Maria, e i cicli agiografici dedicati a diversi santi. Con ovvia insistenza, si ribadisce in più punti il valore della missione apostolica di san Marco, alfiere di Cristo.
Il ciclo cristologico, già avviato intorno al 1150 nel transetto sud, prosegue poi nell’arcone sud di fianco alla cupola dell’Ascensione, dove le maestranze locali sperimentano una forma di racconto in sequenza, basata sulla ripetizione dei personaggi entro la stessa fascia, come nelle Tentazioni di Gesù.
La maestranza greca di alto livello che decora la stessa cupola intorno al 1170, realizza nuove storie nell’arcone ovest (il famoso arcone della Passione). Le figure acquisiscono vigore monumentale, le scene si stagliano con forza sul fondo aureo, e non si rinuncia a un forte piglio narrativo.
Il Tradimento di Giuda e la Sentenza di Pilato si susseguono senza alcuna cesura. Oltre alle consuete didascalie che riassumono i passi biblici, si leggono anche le battute del dramma, riportate su rotoli di pergamena che gli stessi personaggi «parlanti» esibiscono.
Una maestranza veneziana ormai autonoma e assai agguerrita, richiesta nella stessa Roma, realizza poi la stupenda Orazione nell’orto della navata destra, eseguita prima del 1218. All’interno dello stesso riquadro il racconto si articola in sei sequenze, con il Monte degli Ulivi che si ripete sullo sfondo per tre volte.
La Translatio di san Marco ha trovato una sua prima versione iconografica grazie a una serie di 10 placchette a smalto che si susseguono lungo la cornice della Pala d’oro, una grandiosa opera di oreficeria posta a decorare l’altar maggiore nel 1105, arricchita di un nuovo ordine nel 1209 (con smalti depredati a Costantinopoli) e poi sontuosamente «reimpaginata» alla metà del Trecento.
Assai vivaci, le scene dedicate alle reliquie dell’Evangelista, presenti già nella prima versione dell’arredo, vengono poi «tradotte» in mosaico all’avvio della decorazione generale della basilica (1150 circa), nell’arcone sud del presbiterio. Con quelle immagini si enuncia il fondamento della dignità storica della Repubblica veneziana.
Non a caso, nella sottostante cappella di S. Clemente, era presente il seggio del doge. Dopo la presa di Costantinopoli (1204), al momento della sua elezione e in altre occasioni solenni, lo stesso doge saliva sul pulpito destro, ricco di marmi di recupero in porfido rosso, antico attributo del potere imperiale.
5. Ercole porta la Croce
Dalla parte opposta del presbiterio, dove si situa la cappella di S. Pietro, l’immagine musiva di san Marco è riproposta in chiave prettamente religiosa, in rapporto al fondatore della Chiesa universale.
E in quella cappella era presente il seggio del primicerio, l’officiante nominato dal doge, che predicava dal pulpito di sinistra, coronato da una cupoletta metallica su cui svetta un Ercole reggicroce fuso in bronzo.
Nella stessa epoca dei due pulpiti, forse in relazione con l’arricchimento duecentesco della Pala d’oro, venne eretto il ciborio, con le sue colonne istoriate di alabastro che ripropongono con ammirevole efficacia i canoni della scultura paleocristiana, in perfetto accordo con un ambiente che rende viva e presente la dimensione eroica della Chiesa dei primordi.
Sotto il dogado di Enrico Dandolo, Venezia partecipa alla IV Crociata (1202-1204). A seguito dell’accennata presa di Costantinopoli, la Serenissima assume una dignità imperiale, e riconfigura di conseguenza la «sua» basilica, facendovi affluire materiali pregiati, che vengono riutilizzati con grande sagacia. L’atrio frontale si prolunga sui fianchi dell’edificio, e tutta la facciata è rivestita di marmo.
Sotto la quadriga di bronzo dorato (presa all’ippodromo di Costantinopoli), le colonne di porfido rosso si concentrano sull’ingresso centrale, nobilitato da un tripudio di archi istoriati (1220-1265).
In assenza di una specifica tradizione locale, prendono spazio maestranze padane che introducono le conquiste tematiche e formali della terraferma, soprattutto nella raffigurazione dei Mestieri nell’intradosso del terzo arco, di grande energia plastica e compositiva.
Una nuova campagna decorativa, che si prolunga fin oltre la metà del Trecento, riveste di mosaici l’intero circuito dell’atrio, un tratto del quale, sul fianco destro, viene trasformato in battistero nei primi decenni del XIV secolo.
I maestri veneziani, in particolare nelle storie di Noè (1220-30) e di Mosè (1250-70), sviluppano una vena narrativa e un vivace senso dell’ambientazione che era già nelle loro corde.
Al tempo stesso, grazie anche al diretto intervento di maestri greci, si mantiene ben solida una fertile vicinanza alla grande tradizione bizantina, in tutte le sue accezioni, sia nei suoi severi risvolti monumentali che nel gusto del racconto.
Sull’onda di queste esperienze, in una vivace dialettica tra la cultura adriatica e la «rivoluzione» giottesca, si forma, in pieno Trecento, un artista locale come Paolo Veneziano, che nella solenne «coperta» destinata a occultare la Pala d’oro nei giorni feriali (1345; oggi al Museo Marciano), lascia un forte segno di sé nel cuore della basilica.
Alla fine del secolo, i fratelli veneziani Jacobello e Pierpaolo dalle Masegne, valenti scultori e architetti, chiudono l’area presbiteriale con la loro solenne iconostasi marmorea, decorata lungo l’architrave da vigorose statue di santi, in linea con il nuovo «classicismo» della scultura lombarda e toscana (foto).