Nello stretto di mare dell’isola di Salamina andò in scena una delle più improbabili battaglie navali della storia.
Poco più di trecento vascelli ellenici riuscirono a trionfare su una potente flotta persiana, condannando definitivamente il progetto di Serse di sottomettere l’intera Grecia.
Nessuno può dubitare dell’importanza della battaglia di Salamina. Una vittoria dei Persiani avrebbe significato la fine della Grecia che sarebbe diventata una provincia (satrapìa) dell’Impero persiano.
Anche in questo caso lo storico americano Victor Davis Hanson si è chiesto cosa sarebbe stato dell’Europa e dell’Occidente se i Persiani avessero vinto:
“Senza dubbio, se non ci fosse stato [Temistocle] o se avesse consigliato soluzioni diverse, i Greci o non avrebbero attaccato i Persiani o sarebbero stati sconfitti. Le guerre persiane sarebbero state rapidamente perdute e la cultura dell’Occidente nata in Grecia sarebbe scomparsa ancora agli albori dopo poco più di due secoli”.
Tutti gli storici indicano Salamina come il punto di svolta di tutta la storia europea, che portò l’Europa a diventare una civiltà basata sull’incommensurabile eredità che la cultura greca ha lasciato al mondo occidentale come noi lo conosciamo oggi, e non un vassallo degli imperatori orientali.
1. Preparativi
Nell'aprile del 480 a.C. scoppiava la Seconda guerra persiana, che fu breve ma che costituì una delle più gravi minacce mai patite dall'Ellade nel corso della sua gloriosa storia.
Un poderoso esercito orientale, allestito da Serse I nella prima primavera dell’anno precedente e supportato da una potente flotta, dopo aver attraversato l'Ellesponto su un ponte galleggiante, dilagò prima in Tracia, poi in Macedonia e infine nella Tessaglia.
Resistergli o provare a fermarlo in uno scontro in campo aperto sarebbe stata pura follia. I sovrani locali optarono, pertanto, per la sottomissione.
Diverso il discorso per la Grecia peninsulare. Raggiunto un faticoso accordo nell’autunno dell'anno precedente, si era riunito a Corinto il primo concilio che sanciva la nascita di un’alleanza tra le varie città-Stato, capitanata da Atene e Sparta. L'obiettivo era quello di cercare di fermare a ogni costo l'invasione.
Un primo concreto tentativo fu abbozzato in Tessaglia, inviando una forza di 10 mila opliti con il compito di sbarrare la strada al nemico nella stretta valle di Tempe. La soluzione fu poi abortita quando divenne chiaro che tale posizione era facilmente aggirabile. Fu pertanto ordinato un rapido sganciamento.
L'unico altro ostacolo in grado d’impedire che l'esercito achemenide dilagasse in Attica, e avesse quindi mano libera su Atene, erano le Termopili, presso il golfo Maliaco: uno stretto passaggio montano obbligato, posto lungo la direttrice nord-sud tra la Locride e la Tessaglia.
Gli strateghi greci, in primis l'ateniese Temistocle, capirono che per contenere il nemico sarebbe stato necessario affrontarlo sia a terra che sul mare, e ciò per impedire che la flotta persiana prendesse alle spalle il contingente greco e vanificasse il piano delle forze terrestri.
Per tale ragione il naviglio alleato si concentrò (secondo le stesso principio per cui ci si era arroccati alle Termopili) presso capo Artemisio, uno stretto braccio di mare in grado di annullare la forte inferiorità numerica e impedire fatali aggiramenti.
Nel corso di comandanti persiani tentarono un attacco frontale per forzare il blocco delle navi greche schierate tra l'Eubea e la piccola isola di Argironesi.
Con gravi perdite, i Greci sostennero il tremendo assalto fintantoché la notizia della caduta alle Termopili non modificò completamente la situazione strategica generale. Il giorno seguente, la flotta greca si allontanò dal nemico e, all'insaputa di questo, si ritirò.
Nella foto sotto, rilievo di Serse I, Re di Persia e Media, Gran Re, Re dei re, Re delle nazioni, Faraone d'Egitto, nella sua tomba a Naqsh-e Rustam.
2. Lo spettro della sottomissione
Nonostante le forti perdite, i Persiani avevano conseguito una vittoria strategica in grado di spalancare loro le porte della Grecia centrale.
Infatti, dopo le Termopili, l’esercito di Serse procedette a saccheggiare le città della Beozia che si erano rifiutate di arrendersi.
La conquista di Atene fu una mera formalità: nel giro di pochi giorni, mentre la popolazione era stata fatta evacuare, la modesta guarnigione a sua difesa venne sopraffatta.
Testimone di questo evento fu proprio la flotta che era appena rientrata da capo Artemisio. Il momento era molto grave. Ai Greci, consci di non poter opporre una valida difesa in campo aperto, non restò che ritirarsi oltre l’istmo di Corinto, nel Peloponneso, dove si pensava di poter organizzare l’ultima difesa.
Furono realizzate importanti opere di fortificazione, demolendo l'unica strada di attraversamento ed erigendo una cinta muraria a sua difesa.
Ma restava un problema: fintantoché la flotta persiana fosse stata libera di muoversi, nulla le avrebbe impedito di effettuare sbarchi a sud dell’istmo, vanificando gli sforzi appena messi in atto.
Nel corso di un concitato consiglio di guerra venne deciso che la flotta greca dovesse tentare il tutto per tutto per impedire quest'eventualità. D'altronde i comandanti ellenici erano certi che, in caso di scontro in spazi angusti, una battaglia in condizioni ravvicinate si sarebbe svolta a loro vantaggio.
Fu deciso, pertanto, che tutte le navi a disposizione si radunassero a Salamina, lo stretto di mare tra l’isola omonima e il porto di Atene, nell'attuale golfo Saronico, in attesa di nuove istruzioni.
Scrive Bengtson: «Mentre si lavorava alla fortificazione dell’istmo, la flotta ellenica, al comando dello spartano Euriabiade, venne concentrandosi nello stretto di Salamina.
Si trattava, nell'insieme di poco più di trecento navi, fornite per la maggior parte da Atene [180], ma anche da Corinto [40] ed Egina [30; Sparta contribuì con sole 16 navi].
Il luogo dello scontro venne scelto su consiglio di Temistocle; egli era stato il solo a non condividere l’idea del combattimento per terra, difendendo, primo tra i Greci, l’autonomia della flotta e la decisione della guerra sul mare».
Il compito era quanto mai improbo, visto che, se ci atteniamo alle fonti, Serse disponeva di qualcosa come 1.200 navi (gli studiosi moderni propendono per un numero tra 400 e 800).
3. Tutti i risvolti della battaglia
Gli autori antichi non spiegano bene come si sia arrivati a questo scontro. In particolar modo tacciono sul motivo per cui i Persiani decisero di dare battaglia in un luogo che era chiaramente troppo angusto per manovrare, annullando di fatto la loro superiorità.
È molto probabile che una serie di notizie false, fatte pervenire a Serse, ne abbia influenzato le decisioni: in particolare, il rapporto di gravi fratture all’interno del comando greco su una possibile evacuazione, su richiesta dalle forze peloponnesiache, delle forze dislocate a Salamina.
Naturalmente si trattava di una messa in scena orchestrata ad arte, e a quanto pare lo stratagemma funzionò: Serse diede ordine alle sue navi di uscire in perlustrazione al largo dell’isola per poi bloccarne gli sbocchi.
Era quanto sperato da Temistocle. Costui, inoltre, rincarando la dose, inviò un suo servo per avvisare il sovrano che la frattura all’interno del campo greco era ormai insanabile e che lui stesso si era ormai schierato dalla parte del Re dei Re.
In pratica, Serse fu messo sull’avviso che per ottenere una vittoria completa sarebbe bastato che le sue navi avessero bloccato lo stretto per far cadere in trappola le navi nemiche. Lo stratagemma riuscì alla perfezione.
Serse era certo della vittoria al punto da far allestire un trono sulle pendici del monte Aigaleo, che domina lo stretto, per osservare la battaglia e registrare il comportamento dei comandanti (foto sotto).
Dopodiché, la flotta persiana rimase in mare tutta la notte per impedire la fuga dei Greci, mentre costoro ebbero tutto il tempo per prepararsi allo scontro.
Alle prime luci del mattino del 23 settembre, per ragioni che non sono mai state chiarite, le navi di Serse, fino ad allora schierate nel braccio di mare a sud dell’isola di Psittalia, a oriente del porto di Atene, incominciarono a muoversi all’interno dello stretto di fronte al porto di Salamina.
Una scelta incomprensibile, che avrebbero pagato a caro prezzo. Era il segnale tanto atteso da Temistocle: a quel punto gli alleati non esitarono a dare battaglia. Sebbene le fonti non siano in grado di descrive nel dettaglio il corso degli eventi, siamo informati su com’erano schierate le due flotte.
La forza greca, disposta su due linee, tra la costa dell’odierna isola di San Giorgio e capo Vavari, era così costituita: le navi ateniesi a sinistra, le forze peloponnesiache a destra, mentre al centro stazionavano gli altri contingenti.
La forza persiana, invece, si dispose su tre linee, con la potente squadra fenicia sul fianco destro, accanto al monte Aigaleo, il contingente ionico sul fianco sinistro e gli altri contingenti al centro.
Qui sotto, l'isola di Salamina riportata da una foto satellitare.
4. Che lo scontro abbia inizio
Nonostante le dinamiche sull’inizio dei combattimenti siano dibattute tra gli storici, pare che le navi persiane siano avanzate a ridosso del nemico in modo disorganizzato.
La ragione che spinse i loro comandanti a procedere senza alcuna precauzione resta un mistero: forse erano male informati su possibili defezioni tra i Greci (in effetti alcune navi corinzie salparono verso nord, come diversivo), o addirittura confidavano che la flotta alleata si sarebbe sfaldata alla sola vista del nemico.
Ciò che è certo, è che a un dato momento i Persiani dovettero rendersi conto che le forze greche, invece di fuggire, risultavano ben schierate e pronte ad attaccare. A quel punto era troppo tardi per correggere gli errori, e la battaglia stava per entrare nel vivo.
Le triremi greche si lanciarono all’attacco della prima linea persiana, che era dotata di vascelli più grandi e lenti, riuscendo, in virtù della loro manovrabilità, a infilarli piuttosto facilmente con i rostri: se il vascello nemico veniva colpito in un punto nevralgico era destinato a un rapido affondamento, altrimenti rimaneva immobilizzato, visto che le triremi erano in grado di spezzare l’intera fila di remi su un lato della nave.
A quel punto, entravano in gioco i reparti di fanteria imbarcata. Grazie al loro armamento pesante, essi non avevano grosse difficoltà, una volta assaltato il vascello nemico, a eliminare la fanteria leggera imbarcata e a prendere possesso del legno. In questo modo, la prima linea di battaglia persiana fu messa in crisi e respinta con gravi perdite, dopodiché una sorte simile toccò alle navi della seconda e terza linea.
La situazione dev'essere stata caotica e lo scontro feroce. Sul lato sinistro dello schieramento greco, l'ammiraglio persiano e fratello di Serse, Ariabignes, fu uno dei primi a cadere, lasciando i suoi senza ordini diretti e in preda alla disorganizzazione. Molte navi fenice furono spinte verso la costa, finendo con l'arenarsi.
Un attonito Serse osservò l’andamento dello scontro che, minuto dopo minuto, sembrava sfuggirgli di mano. Le sue forze parevano incapaci di reagire di fronte alla determinazione dei Greci. Furioso per l’arrendevolezza dimostrata dai suoi, Serse finì per affermare: «I miei uomini sono diventati donne, e le mie donne uomini».
Non c'era più nulla da fare. Entrata in crisi totale, la flotta achcmenide superstite incominciò a ritirarsi lentamente verso il porto di Atene, subendo un'imboscata da parte di un contingente di navi di Egina, rimaste nascoste fino a quel momento.
Per i Greci si trattò di un vero trionfo. Secondo Erodoto, ben 300 navi persiane andarono perdute o danneggiate, contro poco più di 40 tra le file elleniche. I Persiani subirono, inoltre, molte più vittime dei Greci, perché la maggior parte di loro non sapeva nuotare.
Serse rimase scioccato dalla carneficina, come testimonia un episodio ricordato nelle fonti. Alcuni capitani fenici, naufragati proprio di fronte alla costa in cui il Gran Re era assiso, si presentarono al suo cospetto cercando d’incolpare e tacciare di vigliaccheria gli equipaggi delle navi ioniche, riversando sudi loro l’esito fallimentare dello scontro.
Serse, che aveva appena assistito alla cattura di una nave ionica che si era difesa validamente, fu disgustato dalle calunnie sul loro conto e fece decapitare seduta stante i levantini.
Secondo quanto riportato da Diodoro Siculo, il Gran Re «mise a morte quei Fenici che erano i principali responsabili dell’inizio della fuga e minacciò di infliggere agli altri la punizione che meritavano".
- FASE 1
Il 22 settembre 480 a.C. Serse decide di schierare la sua flotta a sud dell'isola Psittalia per chiudere qualsiasi via di fuga alle navi greche ancorate nello stretto di Salamina. Allo stesso tempo, un contingente minore staziona nel canale di Megara per evitare la fuga del nemico da occidente. Serse è certo di poter annichilire le forze avversarie, che ritiene, erroneamente, disunite e pronte alla resa.
- FASE 2
Il 23 settembre, all'alba, in modo incomprensibile la flotta persiana si muove all'interno dello stretto di Salamina, avvicinandosi al nemico. La decisione si dimostra un suicidio: le forze elleniche, pronte a dare battaglia, sono già schierate in attesa e si lanciano all'attacco. Favorite dalla loro manovrabilità, le triremi greche hanno la meglio sulle lente e mastodontiche navi persiane, ammassate in uno stretto di mare angusto. Per le forze di Serse è un disastro.
5. L’inizio della fine
All'indomani del disastro di Salamina, Serse cercò d'impiegare le forze di terra per riequilibrare il corso della guerra.
Fece gettare un ponte di barche sullo stretto per farvi passare l'esercito e attaccare le forze greche presenti sull’isola.
Ma fu tutto inutile: le navi elleniche, che ora pattugliavano costantemente quel braccio di mare, riuscirono a sventare il pericolo. Con la flotta decimata, anche l'esercito d'invasione sembrava in grosse difficoltà.
Temendo che i Greci attaccassero i ponti sull'Ellesponto e intrappolassero la sua armata sul suolo europeo, il sovrano decise di ritirarsi in Asia, portando con sé la maggior parte delle forze e affidando al suo braccio destro, Mardonio, il comando di un contingente (fanteria d'élite e cavalleria) che sarebbe rimasto in Grecia per cercare di completarne la conquista.
Tutte le forze persiane abbandonarono l’Attica, mentre Mardonio decise di svernare in Beozia e in Tessaglia. Così gli Ateniesi poterono rientrare nella loro devastata città. La guerra, però, non era ancora terminata.
L'anno successivo, Mardonio riconquistò Atene, mettendola a ferro e fuoco per la seconda volta, mentre l’esercito alleato continuava a difendere l'istmo di Corinto. Solo a quel punto le forze elleniche, sotto il comando spartano, decisero di marciare in Attica e costringere il nemico a una battaglia campale.
I due eserciti si incontrarono a Platea. Lo scontro che ne segui vide un’altra clamorosa vittoria ellenica, mentre nella quasi contemporanea battaglia navale di Micale venne annichilito ciò che restava della flotta del Gran Re. Terminava in questo modo la Seconda guerra persiana. La Grecia era salva.
- LE TRIREMI GRECHE
Le navi da battaglia greche furono le assolute protagoniste dello scontro di Salamina.
Si trattava d'imbarcazioni leggere (in epoca arcaica pesavano circa 70 tonnellate, più tardi arrivarono a 90), con un solo albero che, all'occorrenza, poteva essere affiancato dall'akateion, un albero di servizio più piccolo. In caso di battaglia l'albero maestro veniva smontato e lasciato a terra, mentre quello di servizio rimaneva a bordo: la forza propulsiva era garantita dai remi.
In base agli studi effettuati, queste imbarcazioni potevano raggiungere 36-41 m di lunghezza e 3-4 m di larghezza. Il pescaggio era poco più di un metro. A prua era collocato un potente rostro, uno sperone in legno con rivestimento in bronzo della lunghezza di 2 m, usato per sfondare il fasciame dei vascelli nemici.
A poppa erano alloggiati due timoni. Nei modelli più evoluti di triremi erano presenti murate, il cui scopo era quello di proteggere i rematori dai colpi provenienti dalle navi avversarie. Sulle triremi, specie in epoca più antica, poteva essere presente un contingente di fanti di marina (più raramente coadiuvati da arcieri), che all'occorrenza venivano impiegati come truppe da sbarco o durante gli arrembaggi.