Già nell’Antica Grecia, l’uomo stimava questi predatori marini per la loro giovialità e l’acume.
Ma sono davvero in grado di dare del filo da torcere agli esseri umani?
Nel momento in cui il celebre psicoanalista e neuroscienziato statunitense John Cunningham Lilly (1915 – 2001) scoperchiò la scatola cranica del delfino che stava studiando, ne affiorò una voluminosa massa rosacea: lo studioso seppe subito di aver fatto un’importante scoperta.
L’animale era dotato di un cervello enorme, ancora più grosso di quello umano.
L’anno era il 1955, e dopo aver esaminato le masse cerebrali appena estratte da mezza dozzina di delfini dal naso a bottiglia, o tursiopi, il neuroanatomista Lilly concluse che questi mammiferi acquatici pisciformi, in fatto di intelligenza, potevano darci del filo da torcere.
Quando Lilly fece la sua scoperta, il collegamento tra intelligenza e dimensioni del cervello sembrava lineare: più la massa cerebrale era abbondante, più l’animale era intelligente.
Noi umani, con i nostri giganteschi cervelli a stento contenuti all’ interno del cranio, non potevamo che essere la specie mentalmente più dotata, e anche i delfini dovevano essere piuttosto “ svegli” .
Da allora, però la ricerca ha fatto molti passi avanti, e oggi non è più così scontato che siano questi mammiferi marini la specie più intelligente dopo l’uomo.
I corvidi, i polpi, perfino certi insetti rivaleggiano con i delfini in fatto di facoltà mentali, senza però possedere altrettanta materia grigia.
I simpatici cetacei, dunque, sono davvero così intelligenti come pensiamo? Scopriamolo insieme!
1. La prova del QE e la materia grigia
Il Quoziente di Encefalizzazione (QE) è il rapporto tra le dimensioni effettive della massa cerebrale e quelle che ci si aspetterebbe in un animale di quella taglia.
In base a calcoli effettuati, è l’ uomo ad avere il QE più alto (pari a 7,8), poiché il suo cervello è sette volte più voluminoso di quanto sarebbe prevedibile, date le nostre dimensioni corporee.
I delfini occupano la seconda posizione in classifica; la varietà detta “dai denti rugosi” , in particolare, ha un QE di circa 5. Quando, però, si tenta di fare un parallelo tra QE e comportamento animale intelligente, si ottengono risultati eterogenei.
Un valore di QE elevato, infatti, è correlabile alla capacità di adattarsi a nuovi ambienti o di adottare comportamenti diversificati, ma non all’abilità nell’uso di strumenti né a competenze imitative.
Per complicare ulteriormente il quadro, la stessa modalità di calcolo del QE è stata criticata negli ultimi anni. In base ai dati inseriti nel modello, gli umani hanno cervelli di dimensioni commisurate al corpo, mentre gorilla e oranghi risultano troppo grandi per la misura standard dei loro cervelli.
Avere un cervello di un certo “ peso” è un QE di tutto rispetto non sono assolutamente una garanzia di comportamento animale intelligente. Non furono, però, soltanto le dimensioni di quella massa convoluta ad affascinare Lilly.
Nella scatola cranica del delfino, lo scienziato osservò uno strato esterno di tessuto cerebrale che, come nel cervello umano, appariva ripiegato su se stesso, come un foglio di carta accartocciato dentro una scatolina.
Questa parte dell’encefalo esterno dei mammiferi, detta corteccia, presiede a funzioni cognitive complesse negli umani, tra le quali spiccano le competenze verbali e l’autocoscienza. La corteccia cerebrale dei delfini appare tuttavia sovradimensionata rispetto a quella degli umani: che cosa può significare?
Molte specie che superano i test di autocoscienza (per esempio, quelli di autoriconoscimento allo specchio) presentano strutture corticali relativamente ampie nell’area frontale. È probabilmente questa “corteccia frontale" a consentire a scimpanzé, gorilla ed elefanti di riconoscere la propria immagine riflessa.
Anche i delfini affrontano con successo test di questo tipo, eppure, non dispongono di una corteccia frontale: questo strato encefalico, sovradimensionato, appare schiacciato all’interno di fasce craniche laterali, mentre la parte anteriore del cervello dei delfini è curiosamente concava.
Le gazze, addirittura, pur essendo anch’esse in grado di riconoscersi allo specchio, sono completamente prive di corteccia encefalica: quali parti del cervello di delfini e gazze, dunque, saranno coinvolte nelle funzioni di autoriconoscimento?
Forse i nostri cetacei, proprio come i citati volatili, ricorrono a strutture non corticali per identificarsi allo specchio. Perché, allora, la corteccia cerebrale dei delfini è così voluminosa, e qual è la sua funzione? Questo mistero resta tuttora insoluto.
2. Il fischio firma
L’intelligenza dei delfini suscita anche altri interrogativi.
Nel corso degli anni, il dibattito sul rapporto tra cervello e comportamento di questi cetacei si è fatto tanto animato da indurre l'esperto di mammiferi marini Lance Barrett-Lennard a replicare che “il delfino potrebbe anche avere il cervello delle dimensioni di una noce: resta il fatto che conduce un’esistenza complessa ed eminentemente sociale” .
Naturalmente, bastano le osservazioni di Lilly per smentire l'ipotesi della noce; ma la convinzione che questi animali abbiano una vita socialmente molto articolata sembra universalmente condivisa.
Lo stesso Lilly, mentre eseguiva inquietanti esperimenti invasivi sul cervello di delfini vivi, osservò che gli animali sembravano richiamarsi spesso l'un l'altro, utilizzando dei fischi, e si consolavano a vicenda.
Ritenne che ciò provasse che questi cetacei sono esseri socialmente avanzati, e che le loro tecniche comunicative potessero presentare un livello di complessità comparabile al linguaggio umano. A cinquant'anni di distanza, è dimostrato che Lilly si era avvicinato parecchio alla verità.
Sono state condotte prove sperimentali che rivelano che i delfini ottengono risultati molto simili a quelli dei grandi primati, quando viene loro richiesto di comprendere messaggi simbolici e di associare oggetti simbolici per creare frasi.
Se i tentativi di stabilire una comunicazione interattiva con i delfini non hanno avuto lo stesso successo rispetto ai test con i primati, l'abilità dei mammiferi marini di comprendere i simboli utilizzati in laboratorio è senz’altro notevole.
L'ipotesi, avanzata da Lilly , che i delfini dispongano di un sistema di comunicazione sofisticato quanto il nostro, però, probabilmente non è corretta.
E vero che gli scienziati hanno capito pochissimo delle tecniche comunicative di questi animali, ma hanno comunque accertato che sono dotati di una facoltà tipica degli umani, che non trova altri riscontri nel regno animale.
In alcune specie di delfini ogni individuo ha un suo esclusivo fischio firma, che l'esemplare utilizza per tutta la vita: in altre parole, un vero e proprio “ nome”.
Sappiamo che i delfini sono in grado di riconoscere i fischi firma di componenti della stessa famiglia e di compagni di gioco, anche senza sentirli per oltre 20 anni.
Le ricerche più recenti indicano inoltre che, quando sentono il proprio fischio firma, questi animali rispondono: è dunque possibile che i delfini si chiamino l'un l'altro per nome.
Lilly non poteva saperlo: ma è probabile che abbia assistito proprio a questo comportamento, durante gli esperimenti di ormai mezzo secolo fa.
3. L'apprendimento
Se questi cetacei cercano di attirare l'attenzione di altri esemplari chiamandosi reciprocamente per nome, ciò potrebbe significare che sono consapevoli, in una certa misura, delle facoltà mentali degli altri individui che incontrano.
A differenza della maggior parte dei grandi primati, inoltre, i delfini sembrano in grado di comprendere spontaneamente il significato del gesto utilizzato dall'uomo per indicare.
Questo suggerisce che potrebbero attribuire stati mentali (per esempio, l'azione del vedere o dell'intendere) all'umano che punta il dito. Come possa un animale non dotato di braccia capire il significato dell’azione di puntare l'indice è un vero mistero.
E, benché non esistano prove del fatto che i delfini comprendano pienamente i pensieri inespressi e le convinzioni di altri individui (la cosiddetta “teoria della mente”), è tuttavia vero che questi animali fanno cenno con il capo per dirigere l'attenzione degli umani verso determinati oggetti.
Forse, un certo grado di consapevolezza dei processi mentali propri e di altri animali è il segreto che li aiuta a formulare soluzioni a problemi complessi, come questi animali hanno dimostrato di fare in contesti sperimentali.
Nel suo ambiente naturale, inoltre, una femmina di tursiope dell'Indo-Pacifico è stata vista estrarre la conchiglia dorsale da una seppia per poterla mangiare più agevolmente: un processo lungo e che necessita di una certa pianificazione preliminare.
Espedienti altrettanto ingegnosi vengono utilizzati durante la caccia. I delfini dal naso a bottiglia di Shark Bay, in Australia, utilizzano spugne marine, "indossate” sul muso, come strumenti per smuovere il fondale e stanare i pesci, un'abilità che viene tramandata di generazione in generazione.
Diverse popolazioni di delfinidi apprendono le tecniche di caccia dai loro simili: i tursiopi si spiaggiano in massa sui banchi sabbiosi lungo le coste della Carolina del Sud per il tempo sufficiente a catturare i pesci che vi hanno radunato, mentre in Antartide le orche fanno gruppo per creare un movimento ondoso tale da far scivolare in acqua le foche dai banchi di ghiaccio dove stazionano.
Queste forme di apprendimento sociale fanno parte integrante del concetto di patrimonio culturale degli animali, definibile come sapere trasmesso da individuo a individuo. È forse questa la spiegazione più probabile del fenomeno secondo il quale le giovani orche riescono a imparare il “dialetto” di famiglia.
C'è un'ipotesi, relativa al motivo per il quale i delfini sono dotati di cervelli tanto grandi, che potrebbe dar ragione a Lilly e alle sue prime intuizioni, e riguarda il tipo di intelligenza sociale che rende possibile la risoluzione dei problemi, l'apprendimento culturale e la consapevolezza di sé.
Molti delfini vivono in sistemi sociali complessi: tra i tursiopi di Shark Bay, l'intreccio di alleanze tra individui maschi, estremamente articolato e in continua evoluzione, ricorda la trama di una soap opera.
Gestire un mondo dominato dagli intrighi “ politici” richiede capacità mentali molto avanzate, per ricordare chi ci deve un favore e quali sono gli amici veramente affidabili.
La spiegazione più verosimile del perché il cervello dei delfini sia cresciuto fino alle dimensioni attuali è la necessità di disporre di un “ surplus” di facoltà cognitive, necessario per tenere il bandolo di questa complicatissima matassa di interazioni: è l'ipotesi detta “ del cervello sociale” .
4. I "cervelloni"
Quest'idea spiegherebbe anche perché altre specie, caratterizzate da una socialità altrettanto complessa, hanno cervelli di dimensioni relativamente grandi (gli scimpanzé, i corvidi, gli esseri umani).
Non tutto, però, è a sfavore delle specie dalla massa cerebrale ridotta e dal QE minuscolo: tanti dei comportamenti evoluti osservabili nei delfini, infatti, si riscontrano anche in animali che non vivono in sistemi sociali articolati.
Una famosa femmina di Border Collie, Chaser, conosce oltre 1.000 simboli associabili a oggetti, un “ vocabolario” che fa impallidire quello dei delfinidi e dei grandi primati in condizioni sperimentali analoghe.
I polpi utilizzano gusci di noci di cocco come strumenti per proteggersi dai predatori: le capre sono in grado di seguire il gesto dell'indicare umano; i pesci riescono ad acquisire, tramite l'apprendimento sociale una lunga lista di competenze che comprendono la difesa dai predatori e il procacciamento del cibo.
Le formiche, infine, mettono in atto un comportamento noto come “ corsa in tandem” , forse il miglior esempio di tecnica di insegnamento applicabile ad animali non umani.
Lars Chittka, studioso del comportamento degli insetti e convinto sostenitore della teoria che questi animali, con i loro minuscoli cervellini, siano in realtà molto più intelligenti di quanto si creda, si chiede: "Se gli insetti riescono a fare cose simili pur disponendo di masse cerebrali molto ridotte, a che cosa serve un cervello grande?” .
Man mano che si compiono passi avanti nel campo della neurobiologia, si comprende che il collegamento tra dimensioni cerebrali e intelligenza è, in realtà, piuttosto labile.
Non c’è alcun dubbio che i delfini diano prova di un articolatissimo comportamento intelligente: ma che cosa ci faccia quella “noce" gigante all'interno della loro scatola cranica è ancora oggi un mistero ben lontano dall’essere risolto.
5. Che cos'è l'intelligenza e la genialità dei corvi
La maggioranza degli scienziati che si occupano di comportamento animale preferisce non fornire una definizione di intelligenza.
È infatti impossibile ricondurre la diversità tipica delle competenze cognitive animali a un unico standard, per poter poi effettuare confronti interspecie.
Insistendo, si ottiene da alcuni studiosi una sommaria descrizione dell’intelligenza come capacità di adottare comportamenti flessibili e adattivi quando insorgono problemi nuovi.
Ma se noi profani dovessimo citare esempi di comportamenti animali percepiti come intelligenti, indicheremmo facoltà che non rientrano invece in questa limitata definizione: per esempio, la coscienza di sé, il fatto di provare emozioni complesse, la comprensione del linguaggio, la capacità di usare strumenti, di contare o di giocare.
C’è un solo fattore che accomuna queste abilità: sono tutte competenze cognitive e comportamentali nelle quali l’essere umano eccelle. Questa visione umanocentrica dell’intelligenza è stata utilizzata per molto tempo per valutare le capacità di altre specie.
Per stabilire se i delfini fossero animali intelligenti, per esempio, i primi ricercatori passarono anni a tentare di insegnare loro a comporre e comprendere un linguaggio.
Molto di ciò che oggi sappiamo sulle funzioni cognitive di questi cetacei è stato appurato sottoponendoli a test che prevedevano l’uso di simboli in laboratorio, ma focalizzarsi eccessivamente su fattori quali la familiarità con elementi simbolici, tanto importante per l’intelligenza umana, non ci dice poi molto sul tipo di cognizione verosimilmente propria dei delfini.
Infatti, questi animali hanno sviluppato dimensioni cognitive proprie, finalizzate alla gestione della complessa natura delle loro società esclusive, e basate su sistemi sensoriali e percettivi come per esempio l'ecolocalizzazione, una facoltà totalmente estranea agli umani.
Per poter rispondere all'interrogativo sulla reale intelligenza dei delfini, dunque, bisognerebbe tentare di capire il percorso evolutivo compiuto dalla loro mente per arrivare alla risoluzione di problemi specifici per i delfini, e non tipici degli esseri umani.
In fatto di intelligenza, i corvidi - famiglia di uccelli passeriformi - non hanno nulla da invidiare ai delfini. Il corvo della Nuova Caledonia, per esempio, costruisce e usa, nel suo ambiente naturale, diversi strumenti, che prepara strappando foglie dai rami e dando loro la foggia di uncini per recuperare, manovrandoli, cibo altrimenti irraggiungibile.
Le taccole sono in grado di seguire lo sguardo e il gesto dell'indicare umano, fino a localizzare una ricompensa.
In cattività, invece, le ghiandaie occidentali sembrano capaci di pianificare il proprio comportamento, occultando strategicamente il cibo in modo da avere sempre accesso a qualche boccone prelibato, indipendentemente dal riparo nel quale vengono rinchiuse per la notte.
I corvi ricordano i tratti facciali degli umani che li hanno infastiditi in passato e riescono a passare queste informazioni ad altri membri del gruppo: le persone sgradite possono così essere attaccate all'improvviso anche da esemplari con i quali non hanno mai avuto alcun contatto diretto.
I corvi imperiali, infine, come i delfini, vivono in strutture sociali complesse e potrebbero essere una delle pochissime specie che ricorre alla gestualità (usando il becco) per attirare l'attenzione dei loro simili verso un oggetto specifico.
In laboratorio, i corvi imperiali sembrano utilizzare la logica per risolvere rompicapi che impongono di tirare specifiche cordicelle per ottenere una ricompensa sotto forma di cibo.