Secondo la ricerca farmacologica, gli antibiotici sono rimedi recenti, ma questo non è del tutto vero.
Più di 4000 anni fa, per esempio, in Cina si curavano infezioni cutanee con una pomata a base di soia su cui si erano fatte sviluppare delle muffe, e anche gli indiani d’America ottenevano una pasta per gli stessi scopi partendo da chicchi di mais lasciati ammuffire.
L’efficacia di questi preparati era garantita da millenni di esperienza, anche se adesso siamo in grado di spiegarne scientificamente il funzionamento. Pochi farmaci sono stati in grado di rivoluzionare la medicina moderna come gli antibiotici.
La scoperta della penicillina fu un evento inaspettato: i medici si trovarono tra le mani una sostanza di rapido e sicuro effetto, che poteva essere utilizzata per combattere le malattie infettive di origine batterica.
Solo settant’anni fa le patologie infettive rappresentavano ancora la maggior causa di morte.
Grazie alla scoperta di Alexander Fleming, malattie quali polmoniti, tubercolosi, meningiti e tifo hanno smesso di terrorizzare l’umanità perché curabili in poche ore, o almeno così si credeva.
Cerchiamo allora di capire in quale modo, scoprendo una sostanza in grado di annientare i batteri, nel 1928 Alexander Fleming sia stato l’artefice del cammino trionfale di un farmaco nuovo e rivoluzionario: la penicillina!
1. La scoperta di microrganismi che causano malattie
Facciamo un salto nel passato, fino alla seconda metà dell’Ottocento.
Nel 1867, il chirurgo inglese Joseph Lister decise spontaneamente e autonomamente di stabilire precise regole igieniche nel corso dei suoi interventi, cominciando per esempio a pulire gli strumenti con lo spray di acido carbolico, dal forte potere disinfettante, e ad indossare camici puliti prima di ogni operazione.
L’accoglienza che i colleghi riservarono al suo comportamento fu piuttosto tiepida perché, a quei tempi, un bravo chirurgo si riconosceva anche dall’abbigliamento: più le macchie sul camice erano numerose, maggiori erano gli interventi complicati che chi lo indossava aveva sicuramente svolto. Inoltre, tra un’operazione e l’altra gli strumenti chirurgici non venivano disinfettati e sterilizzati, ma solo sciacquati!
Lister aveva però notato che, tra i pazienti dei colleghi incuranti delle norme igieniche, il numero dei decessi post-operatori era molto alto.
Dopo innumerevoli discussioni e inutili morti, l’ospedale in cui lavorava decise di adottare i suoi metodi, soprattutto in considerazione del fatto che, tra i pazienti a lui affidati, erano sempre meno quelli che morivano.
Nessuno però poteva ancora spiegare il nesso tra la pulizia e l’igiene e un miglior decorso post-operatorio: era evidente che i processi di guarigione erano più rapidi e che le ferite si chiudevano con meno problemi, ma non era altrettanto chiara la ragione.
In linea di principio, Louis Pasteur (nella foto accanto) e Robert Koch avevano intuito che doveva esserci una correlazione tra le malattie e quei piccolissimi organismi che, per mancanza di strumenti idonei, a quel tempo non erano ancora visibili.
Anche i primi vaccini contro la varicella di Edward Jenner (nel XIX secolo) si basavano sul concetto che dovesse esistere ‘qualcosa’, sostanze o particelle, responsabile della malattia.
Già nel 1674 inoltre il commerciante olandese Leeuwenhoek aveva comunicato alla Royal Society di Londra di aver osservato in una goccia d’acqua, con un apparecchio di sua invenzione (il primo microscopio), dei ‘minuscoli animaletti’.
Gli accademici ignorarono la scoperta e archiviarono la cosa senza darle seguito, ma Leeuwenhoek aveva visto esattamente i batteri! Si dovettero attendere ancora due secoli prima che i microrganismi tornassero alla ribalta.
Lo studioso più noto tra coloro che si dedicarono intensamente allo studio dei batteri, della loro riproduzione e della loro diffusione fu Louis Pasteur , chimico e biologo francese vissuto tra il 1822 e il 1895.
Egli riuscì a dimostrare che i responsabili della putrefazione della carne erano microrganismi presenti nell’aria; i suoi studi permisero di spiegare inoltre i processi di fermentazione e decomposizione.
Il suo maggior contributo fu quello di introdurre il concetto di infettività, osservando che gli agenti patogeni penetrano nell’organismo attraverso molte strade e che le infezioni sono le maggiori responsabili delle malattie.
2. La classificazione dei microrganismi e l'idea di uccidere i batteri
- La classificazione dei microrganismi
Robert Koch (nella foto accanto) contribuì a far progredire gli studi sui batteri e spianò la strada verso la scoperta della penicillina.
A lui va infatti il merito di aver messo a punto in laboratorio il famoso terreno di coltura costituito da agar-agar, una sostanza ricca di amido ricavata da alghe marine: si tratta di un ambiente ad hoc nel quale i batteri riescono a riprodursi con estrema rapidità.
La pratica di ‘coltivare i batteri’, ancora in uso negli odierni laboratori di analisi, permise di studiare meglio i microrganismi prelevati in piccole quantità da sangue, urina, saliva, secrezioni o tessuti dei malati.
Il lavoro di Koch consentì inoltre di classificare i vari tipi di batteri. Importante fu anche il contributo del danese Hans Christian Gram, che nel 1881 sviluppò alcuni metodi per evidenziare i batteri in fase di studio: scoprì che alcune sostanze coloranti agivano in modo diverso a seconda del tipo di microrganismo, cosa che permetteva di capire velocemente quale popolazione si fosse sviluppata nella coltura.
Anche questa metodologia, seppure affinata nel corso degli anni, è tuttora in uso e agli inizi del XX secolo fu di notevole aiuto per verificare l’efficacia degli antibiotici sui vari ceppi di batteri.
- Un’idea rivoluzionaria: uccidere i batteri
Nello stesso periodo, anche il tedesco Paul Ehrlich mise a punto, presso l’ospedale Charité di Parigi, un procedimento di colorazione dei batteri mediante il blu di metilene.
Questa sostanza però, al contrario dei coloranti di Gram, uccideva i batteri all’istante, e la scoperta portò Ehrlich a una geniale intuizione: trovare sostanze la cui affinità con i batteri fosse elevata, che fossero in grado di ucciderli ma che, al tempo stesso, non danneggiassero l’organismo del paziente.
Nel 1881, quando pubblicò le sue considerazioni sul blu di metilene, l’idea era davvero rivoluzionaria e diede una svolta alla ricerca medica.
Ehrlich è oggi considerato il padre della chemioterapia.
3. Una muffa all’attacco dei batteri
Quindici anni dopo l'intuizione di Ehrlich, nel 1896, lo studente francese di Medicina Ernest Duchesne osservò che alcune muffe producevano una sostanza in grado di uccidere i batteri, ma il suo lavoro non venne sviluppato e finì presto nel dimenticatoio.
Durante la prima guerra mondiale, il medico scozzese Alexander Fleming lavorava come assistente di Almroth Wright presso l’ospedale St. Mary di Londra (nella foto accanto).
Quest’ultimo era alla ricerca di metodi che evitassero l’infezione delle ferite dei soldati e la conseguente setticemia, una delle principali cause di mortalità durante le guerre del passato.
Prelievi effettuati dalle ferite vennero trasferiti nelle colture di agar-agar, dove i batteri all’origine dell’infezione proliferavano e potevano essere identificati e studiati.
Inoltre era possibile testare su di essi l’effetto di varie sostanze in grado di renderli inoffensivi, ma era necessario verificare che queste non danneggiassero il paziente.
Il disinfettante utilizzato da Lister nelle operazioni chirurgiche, per esempio, non può essere usato a scopo terapeutico a causa della sua tossicità, senza contare che uccide più rapidamente i leucociti (i globuli bianchi, cellule del sangue fondamentali nella difesa immunitaria) dei batteri, causando la distruzione del nostro sistema di ‘autodifesa’.
4. Armi contro gli intrusi
Nel 1921 Fleming fece una scoperta che accelerò la ricerca: isolò infatti il lisozima, un enzima presente nei liquidi corporei (muco nasale, lacrime, saliva) in grado di aggredire e lacerare la parete cellulare dei batteri.
Analizzando un campione della propria mucosa nasale prelevato durante un raffreddore, si accorse della presenza di qualcosa che riusciva ad arginare la proliferazione dei batteri. Inizialmente credette di aver individuato i macrofagi, le cellule del sistema immunitario deputate alla ‘cattura’ dei corpuscoli estranei, ma dopo alcuni test appurò che si trattava di una proteina, e più precisamente di un enzima.
In una persona sana il lisozima impedisce di annidarsi e proliferare ai batteri che penetrano nell’organismo attraverso occhi, bocca, gola o naso.
La concentrazione di lisozima presente nel campione studiato da Fleming era comunque troppo bassa per riuscire a combattere batteri pericolosi e iperprolifici.
Ciò nonostante, l'individuazione di una sostanza prodotta dall’organismo in grado di colpire i microrganismi fu, da un lato, di sostegno alle teorie di Wright sull’importanza del sistema immunitario nella lotta contro le infezioni, e dall’altro indicò che la natura aveva già messo a disposizione dell’uomo sostanze battericide, si trattava solo di scoprire quali.
Come spesso accade, una scoperta rivoluzionaria arriva in modo casuale, grazie ad una serie di fortuite coincidenze.
Fleming (nella foto sotto) probabilmente dimenticò in un angolo del laboratorio una delle colture, e fu proprio questa sua ‘sbadataggine’ a permettere di giungere alla scoperta decisiva.
5. L’attimo decisivo e la riscoperta della penicillina
- L’attimo decisivo
La curiosità spinse Fleming ad analizzare la coltura dimenticata, e in questo modo si accorse che nell’area attorno alla zona colonizzata dal microrganismo intruso gli stafilococchi erano morti, mentre in altre crescevano e si moltiplicavano.
Ne dedusse che la morte dei batteri in quell’area andava attribuita al microrganismo, che cercava di sopravvivere diffondendo un antibatterico attorno a sé.
Fleming scoprì che il sorprendente intruso era il Penicillinum notatum, una comunissima muffa che cresce, per esempio, anche sul pane: isolò la sostanza responsabile della morte degli stafilococchi e la chiamò penicillina.
Nel corso di ulteriori esperimenti scoprì che la penicillina era micidiale per alcuni batteri e assolutamente innocua per altri; capitava inoltre che lo stesso tipo di batterio a volte sopravvivesse, perché la quantità di penicillina non era sempre sufficientemente elevata.
Nel 1931 pubblicò il suo ultimo lavoro, perché questo campo di studi non lo convinceva del tutto, e le scoperte segnarono una battuta d’arresto.
- La riscoperta della penicillina
Nel 1939 il lavoro di Fleming venne ripreso dai ricercatori di Oxford Howard Florey, Ernst Chain e Norman Heatly, che nel giro di un paio di anni svilupparono metodi per isolare la penicillina e produrla in quantità significative.
La seconda guerra mondiale fece concentrare gli sforzi dei ricercatori e dal 1942 circa negli Stati Uniti cominciò la produzione vera e propria della penicillina.
Nel 1945 venne assegnato il premio Nobel per la medicina a Fleming, Florey e Chain (nella foto sopra).
Alexander Fleming nacque nell 1881 a Darvel nell'Ayrshire, in Scozia. Frequentò insieme con il fratello Robert la facoltà di Medicina dell’Università di Londra, facendo il tirocinio all'ospedale St. Mary, dove lavorò dal 1928 al 1948.
Mentre il fratello divenne specialista in Oculistica, i suoi interessi si rivolsero alla Batteriologia, di cui divenne docente nel 1938.
Nel 1943 entrò a far parte della Royal Society per le Scienze naturali e nel 1944 venne insignito del titolo di baronetto; ricevette il premio Nobel per la medicina nel 1945. Mori nel 1955.