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La storia della birra: da 5 mila anni ancora in cima ai gusti di mezzo mondo

Bionda o bruna? Questo è il problema; o almeno lo era negli Anni ’60, quando sullo schermo della neonata tv, una sera sì e una sera no, all’ora di Carosello apparivano insieme due donne cariche di sex appeal; Anita Ekberg, biondissima attrice svedese, e Mina, brunissima cantante padana.

Quale delle due preferire? Una voce fuori campo suggeriva: “Bionda o bruna, purché sia birra”. E l’inquadratura passava lentamente dalla coppia di star a due boccali bicolori, traboccanti di spuma.

Ai (lontani) tempi dei boom economico, Carosello ce la metteva tutta per spostare i gusti nazionali dal tradizionale vino all’esotica birra. Dopo la coppia Mina-Anita venne la tedesca Solvi Stubing, prorompente mezzobusto esente da spigoli e linee rette, col suo “Chiamami Peroni, sarò la tua birra”.

E circa negli stessi anni altri spot incalzavano con “Per la birra non serve la sete”, ma soprattutto con “Chi beve birra ha sempre vent’anni”, variante di “Chi beve birra campa cent’anni”, fortunatissimo slogan coniato nell’epoca fascista.

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Mezzo secolo dopo quel bombardamento promozionale, oggi possiamo dire che Mina e compagne hanno vinto la loro battaglia, perché in Italia la birra è vicina a uno storico sorpasso: ormai il 40,1% dei clienti dei ristoranti la preferisce al vino, che mantiene il primato solo di misura (43,6%).

E fuori dai ristoranti il consumo sfiora i 30 litri pro capite l’anno, un dato che resta basso rispetto al resto d’Europa (72) e infimo rispetto alla Germania (130), ma comunque surclassa il consumo nazionale di inizio ‘900 (vicino a zero).

Nessuno l’avrebbe detto fino a qualche anno fa: vino e birra hanno sempre avuto aree di diffusione separate e la nostra Penisola era in quella del primo. Ma ormai tutte le carte si rimescolano: mentre l’Italia, millenaria roccaforte della vite, cambia fronte, vari Paesi anglosassoni (Usa, Sudafrica. Nuova Zelanda), nati birrofili, oggi bevono ottimi vini.

Dunque il boom della birra a sud delle Alpi non è segno di una moda locale ma di una svolta epocale come la globalizzazione. In fondo perché stupirsi? La birra fu un segnavia della storia fin dal suo “c’era una volta”.

La birra ha 5 mila anni eppure ancora in cima ai gusti di mezzo mondo. Ecco la sua storia, dai Sumeri ai segreti dei monaci-birrai.

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1. Millenaria

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Nel caso specifico, “una volta" vuol dire almeno nel 5000 "avanti Solvi Stubing", cioè circa nel 3000 a. C.

Fu allora, pare, che l'uomo fece una scoperta-chiave: notò che usando a dosi variate gli stessi ingredienti del pane (acqua, cereali e lievito) si otteneva una bevanda dissetante, gradevole e "magica", cioè leggermente inebriante.

Il “miracolo" ebbe luogo in Medio Oriente. forse presso i Sumeri, che di birre ne producevano addirittura due: la kurunnu (di farro) e la ukaru (d'orzo, antenata delle nostre).

In realtà, che a inventare la rivale del vino siano stati davvero i Sumeri, non è detto: la più antica citazione della bevanda è nel loro poema epico Gilgamesh, ma un’ipotesi alternativa colloca l'invenzione della birra molto prima, a circa 10 mila anni fa.

Se ciò fosse vero, la nascita della "pozione magica’ coinciderebbe con quella delle prime tribù sedentarie. E poiché si sa che l’umanità abbandonò il nomadismo per coltivare cereali, paradossalmente ci si dovrebbe chiedere se lo fece per garantirsi il pane o la birra.

Ma restiamo ai dati certi. Uno di questi è che la birra, anche se (forse) non consegnò all’uomo il diploma di agricoltore, segnò almeno la sua laurea in giurisprudenza.

Infatti la più antica raccolta di leggi scritte che si conosca, scolpita su una stele di diorite quasi 38 secoli fa, comprende un sintetico disciplinare per la produzione della se-bar-bi-sag, l’alcol da cereali (letteralmente: "acqua-che-fa-vedere-chiaro"), con tanto di sanzioni severissime per chi sgarrava.

Trovata a fine '800 tra le rovine di Susa (oggi Shush, in Iran) e conservata al Louvre, la stele è nota come Codice di Hammurabi, dal nome del suo compilatore: Hammurabi (che regnò fra il 1792 e il 1750 a. C.), sesto re di Babilonia, noto fra l'altro per aver coniato il motto "Occhio per occhio, dente per dente".

Fra i 282 “occhi" (cioè articoli) della raccolta, due toccavano il tema alcolici: uno stabiliva la pena di morte per chi avesse annacquato la se-bar-bi-sag, un altro per chi avesse aperto mescite senza l’autorizzazione reale. Tanto rigore si giustificava solo presupponendo che l'alcol da cereali avesse un profondo significato culturale e religioso.

E, infatti, quella birra primordiale aveva una sua divinità (Nidaba, dea del grano), un suo eroe leggendario (il gigante Enkidu, che "ne bevve sette volte e il suo spirito si sciolse”) e suoi rituali, talvolta atroci, destinati a toccare il culmine secoli dopo col re Nabucodonosor (605 - 562 a. C.), che aveva il vizio di affogare nella se-bar-bi-sag le amanti di cui si stufava, dopo averle caricate di gioielli per farle andare a fondo.

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2. Biblica

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Per quali vie quella bevanda divina e crudele si sia diffusa dalla Mesopotamia ad altri Paesi, non è noto.

Ma si sa che ciò avvenne presto: ricerche condotte da archeologi dell'Università di Gerusalemme hanno trovato tracce di birra in reperti dell'Età del Bronzo riconducibili ai Filistei, il popolo del biblico gigante Golia che abitava fra l'attuale Striscia di Caza e Askelon (nel Negev israeliano).

E vari testi ebraici, scritti dopo l’esodo dall'Egitto, citano la birra come bevanda rituale per alcune feste.

Nell'antichità, più bevitore di Israele fu però l'Egitto, dove la diffusione di zythum (birra chiara) e curmy (scura) risulta cosi antica da far pensare non a un uso importato, ma a una genesi autonoma e parallela rispetto alla Mesopotamia.

«Lungo il Nilo si beveva birra già sotto i re della quarta dinastia, cioè più di 45 secoli fa» conferma l’archeologo Zahi Hawass, segretario del Consiglio supremo delle antichità, la sovrintendenza egiziana. «Ne abbiamo trovato i resti in alcune tombe di operai, intorno alle piramidi di Giza».

Dettaglio curioso: la scoperta di quella birra ha permesso di correggere certe notizie distorte sulla storia egizia, care alla tradizione.

«Il greco Erodoto» spiega Hawass «scrisse che le piramidi erano state costruite da folle di schiavi.
Non è vero: a degli schiavi non si passa di certo una bevanda voluttuaria, né da vivi, né tanto meno da morti. Se chi morì sui cantieri di Ciza fu sepolto con provviste di birra per l’Aldilà, vuol dire che il suo stato sociale era più che dignitoso: una prova che alle piramidi lavorarono operai salariati o artigiani».

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3. Rimedio per tutti

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Va detto che, quanto a birra, gli Egizi non erano prodighi solo coi loro caduti sul lavoro, ma anche con malati, lattanti e persino con alcuni dèi.

Ai primi la somministravano come ricostituente; ai secondi come succedaneo del latte materno, mescolata al miele; ai terzi come ex-voto.

Un faraone del XII secolo a. C., Ramses III, che con i suoi operai fu così tirchio da provocare il primo sciopero della Storia, poco prima di morire (assassinato) si vantò di aver offerto
in un tempio ben 463 mila vasi di zythum.

Una boutade a scopo propaganda? Forse. Ma anche senza le mega-offerte di Ramses, la domanda del mercato era fortissima, perché nessun egizio voleva trovarsi nella situazione descritta dal Papiro di Plisse, conservato al Museo Egizio di Torino:
“É triste salire sulla barca di Ria (la divinità della birra) senza speranza di trovare zythum e curmy in abbondanza".

Fu in questo clima che verso il 2000 a. C. sul Nilo sorsero i primi birrifici "industriali", abbinati ai panifici: al Louvre ci sono statuine d’epoca, trovate a Luxor, che raffigurano un team di birrai-fornai al lavoro.

Nel mondo greco ­romano la zythum ebbe molto meno successo che in Egitto. In Crecia veniva usata quasi solo come surrogato del vino, quando vendere quest’ultimo era vietato per motivi di ordine pubblico (durante le Olimpiadi, per esempio).

E a Roma, scrive Plinio (I secolo) nella Storia naturale, era conosciuta ma non apprezzata: in controtendenza fu solo un governatore della Britannia, Gneo Giulio Agricola, suocero dello storico Tacito, che nell'83 d. C. tornò in Italia con tre birrai di Gloucester e tentò di abbinare un pub alle serate trasteverine.

Era un’ardua impresa, perché Roma era allergica a tutto ciò che veniva dal rude mondo transalpino: botti, pantaloni, salumi e materassi. La birra rientrava nella stessa categoria, se non altro perché piaceva a Celti e Germani (Tacito la chiamava "barbaro vino d'orzo”).

Ed è curioso notare che dai tempi di Agricola fino a pochi decenni fa il modo di bere dell’Europa sia rimasto immutato: vino prevalente in Italia, birra dilagante in Germania e Irlanda (Paese celtico per eccellenza), quadro ibrido in Francia (Paese ex celtico latinizzato).

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4. Santo luppolo

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Il ruolo di Germania e Irlanda come "birrifici d'Europa" si consolidò nel Medioevo, soprattutto grazie ai monasteri locali.

L’Irlanda, patria della celebre Guinness, vive tuttora sulla scia del monaco-viaggiatore san Colombano (50-615), che fondò conventi in mezza Europa e nella sua Regula monachorum suggerì ai confratelli di coltivare l'orzo, il cereale che trasformato in malto (cioè fatto germogliare) è alla base di quasi tutte le birre moderne.

Un suo seguace, san Gallo (550-645), seguì il consiglio e fondò tre birrifìci in Svizzera. 

Anche in Germania la birra ha dei santi in paradiso, o almeno dei monaci in cantina. Furono infatti alcuni benedettini tedeschi a fondare l'Abbazia di Weihenstephan, presso Freising (Baviera), che dal 1040 ospita il birrifìcio più anticodel mondo tuttora attivo e una Facoltà di ingegneria binaria del Politecnico di Monaco.

E fu poi una loro connazionale, santa Ildegarda di Bingen (1096- 1179), badessa a Rupetsberg (presso Magonza), a codificare l'uso del luppolo, un vegetale amaro che corregge il gusto dolciastro del malto d’orzo.

Che nella birra, oltre al malto, ci vadano messi dei fiori femminili di luppolo, oggi è dato quasi per scontato, ma fino a tutto l'Alto Medioevo non era cosi. In origine questa pianta era usata solo a scopo medicinale, per infusi antinfiammatori.

Per aromatizzare la bina si usava tutt'altro, dal rosmarino alle ciliegie, fino a una gettonatissima miscela di erbe chiamata guit. Chi abbia abbinato per primo birra e fiori amari, è incerto: la ricetta codificata da Ildegarda forse ebbe inventori boemi.

Nella foto sotto, Un enorme tino di fermentazione destinato al birrificio Guinness di Dublino (Irtanda), in una foto del 1949.
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A questo punto occorre ricordare il proverbio secondo cui non c'è due senza tre. Infatti, accanto a Irlanda e Germania, l'Europa medioevale ebbe almeno un terzo importante polo birrario, l'attuale Repubblica Ceca, storicamente nota come Boemia e Moravia.

Due i centri coinvolti: Plzen e Ceské Budéjovice (alias Budweis). A Plzen i birrifici entrarono in funzione fin dal XIII secolo, ma la città diventò famosa solo a metà '800, quando cominciò a esportare un tipo di birra chiaro, leggero e bevibilissimo, tuttora detto ovunque pilsner.

Ma già prima di inventare la pilsner i cechi erano famosi per il loro luppolo, pregiatissimo, dei campi di Ustek e Žatec (alias Saaz), che finiva in gran parte sui mercati della tedesca Amburgo.

Per tutelare quel florido commercio, Venceslao IV(1361-1419), re di Boemia, ricorse ai metodi di Hammurabi: minacciò di morte chi avesse esportato sementi del prezioso vegetale. Ma il diktat servì solo a trasformare l’Elba, che nasce in Boemia e scorre in Cermania, nell'unico fiume usato per il contrabbando di semi.

Così, tra monaci (cui si aggiunsero dal ’600 i trappisti francesi, che ancora oggi "marchiano” sette birre tra Belgio e Francia), santi e contrabbandieri, il “barbaro vino d'orzo” di Tacito si avviò a entrare trionfante nell’era moderna, rivale sempre più agguerrito del vino d’uva e di altri conconenti minori come lo scandinavo idromele e il normanno sidro, ricavati rispettivamente dal miele e dalle mele.

I birrifici monastici aumentarono via via di numero: quando Napoleone portò in tutta Europa il vento laico della rivoluzione francese, ne espropriò circa 500, che però riaprirono tutti dopo il Congresso di Vienna (1815). Poi venne l’ora di Solvi Stubing (foto sotto).

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5. Tre curiosità sulla birra

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- Gambrinus, il re fiammingo della birra
Da vivo fu chiamato Gambrinus,/
regnò sulle Fiandre e sul Brabante,/
prima estrasse il malto dall'orzo, /
poi inventò la nobile arte...
Una ballata popolare tedesca racconta tutto così, riassumendo l'origine della birra in una favola in stile "c’era una volta un re". Ovvio che l'attendibilità storica del protagonista è pari a zero: un re di nome Gambrinus non è mai esistito, né nelle Fiandre né altrove.
Sembra però che il nome sia una corruzione di Jan Primus, un duca fiammingo realmente vissuto a cavallo fra il '300 e il '400, che si dice fosse un bevitore di birra esagerato, tanto da diventarne - nella fantasia popolare - l'inventore.
Quella di Gambrinus non è l’unica leggenda nata sull'origine della birra: un'altra, in voga in Irlanda, parla di un popolo di semidei, i Fomoriani, che all'alba dei tempi sarebbero stati depositari del segreto della produzione della birra, chiave per garantirsi l'immortalità.
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- Il mistero dei gradi della birra
Come si misurano i gradi della birra? A volte il consumatore resta perplesso, perché sull'etichetta della bottiglia trova un'indicazione che sembra sproporzionatamente alta, come se un'innocua pilsner contenesse più alcol di un vino rosso da arrosti.
Non è così: per capire quanto è forte una birra occorre verificare anzitutto se l'etichetta indica i gradi alcolici del contenuto o quelli "balling", cioè se viene presa in considerazione la percentuale di alcol a prodotto finito o quella degli estratti di malto a inizio lavorazione.
Tra i due indici c'è una relazione, ma il secondo è circa due volte e mezza più alto del primo.
A inventare la scala ‘anomala’ fu un tecnico praghese di due secoli fa, Carl Joseph Napoleon Balling (1805-1868), che per un lungo periodo ottenne i favori delle industrie del settore.
Oggi però i "gradi balling" sono rimasti in auge quasi solo tra le birre ceche e slovacche: una mera curiosità di archeologia alimentare.
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- Vietato il grano all'Oktoberfest
Oltre alle prevalenti birre di malto d'orzo oggi esistono sul mercato anche le "birre bianche" (weissbier in tedesco), più dolci delle altre, ricavate dalla fermentazione del frumento.
Curiosamente, benché siano ampiamente diffuse soprattutto in Baviera, queste birre non sono affatto utilizzate per la festa per eccellenza del settore, l'Oktoberfest di Monaco.
Il motivo di tale esclusione risale a un editto emanato nel 1516 dal duca Guglielmo IV, noto come Reinheitsgebot (Editto sulla purezza) che fissava in acqua, luppolo e malto d'orzo gli ingredienti obbligatori ed esclusivi per la produzione della birra.
A provocare il provvedimento era stato il concreto rischio di carestie provocato dai birrifici, che facevano incetta digrano, sottraendolo ai fornai, con conseguente rincaro della farina.
La legge fu abrogata nel primo '800, ma l'esclusione della weissbier dalla kermesse di Monaco resiste ancora.
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