L’amore: la cosa che conta di più nella vita

Per essere felici l’amore è la cosa più importante.

Lo dice uno studio dell’Università di Harvard, secondo il quale quello che abbiamo ricevuto da bambini dalla mamma ci dà una marcia in più!

 

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1. L’eccezionale studio scientifico noto come Grant Study

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75 anni e 20 milioni di dollari, pari a oltre 16 milioni di euro: tanto è durato e costato l’eccezionale studio scientifico noto come Grant Study, dal nome del finanziatore, l’imprenditore americano William T. Grant.

Condotto da un’équipe dell’Università di Harvard (Usa), è iniziato nel 1938 e si è chiuso nel 2013; dal 1966 sino alla fine è stato diretto dallo psichiatra George Vaillant.

Obiettivo dell’imponente ricerca era scoprire che cosa ci rende felici, che cosa conta davvero nella vita e se esiste una formula o una ricetta che ne elenchi gli ingredienti.

I ricercatori di Harvard si sono posti queste domande a metà degli anni Trenta del Novecento e per trovare le risposte hanno avviato un progetto ambizioso: seguire le vite di 268 studenti maschi.

Tutti i ragazzi sono stati osservati e analizzati come cavie dalla gioventù alla vecchiaia e, in molti casi, alla morte. Alcuni di loro hanno avuto una vita piena e soddisfacente, altri sono morti anzitempo depressi o alcolizzati.

C’è chi è nato povero ed è morto ricco, e chi, dopo un’infanzia e un’adolescenza dorate, ha vissuto anni bui o si è suicidato. Alcuni degli uomini sotto osservazione hanno avuto successo nel lavoro e altri no

Diversi si sono dati alla carriera politica: quattro sono diventati senatori, uno governatore e uno, addirittura, presidente (tra i ragazzi dello studio, infatti, fu inserito anche John Fitzgerald Kennedy, che nel 1961 diventò il 35° presidente degli Usa. I file che lo riguardano, tuttavia, sono top secret e lo rimarranno sino al 2040).

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Perché alcuni sono vissuti felici e altri no? Perché alcuni hanno avuto successo e altri no? Che cosa ha fatto la differenza? Ci vuole davvero “un fisico bestiale per resistere agli urti della vita”, come cantava Luca Carboni?

Le conclusioni emerse dal Grant Study sono state presentate da George Vaillant in due libri, l’ultimo dei quali, Triumphs of Experience (Il trionfo dell’esperienza), è stato pubblicato nel 2012.

Alcuni dei risultati emersi sono abbastanza prevedibili. Tutti gli uomini, ad esempio, sono stati seguiti nella II guerra mondiale; quelli che hanno combattuto in prima linea e sono tornati a casa hanno avuto una vita meno serena, meno sana e meno lunga di chi al fronte non è andato.

La guerra lascia cicatrici indelebili in chi sopravvive: niente di sorprendente. Lo studio ha dato, però, anche risultati imprevedibili e ha sfatato alcune credenze; ci rivela inoltre molte cose utili sulla vera felicità.

 

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2. Le dipendenze, l’intelligenza, la politica e la mamma

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- No alle dipendenze
«L’alcolismo», spiega George Vaillant, «ha un enorme potere distruttivo: è stata la prima causa di divorzio nel campione da noi studiato, ha condotto molti alla depressione (che sovente non precede ma segue l’abuso di alcol) e, associato al vizio del fumo, ha provocato malattie e morti premature».
In conclusione, gli uomini che si sono presi cura della propria salute evitando pericolose dipendenze e mantenendosi in forma grazie a una regolare attività, sono invecchiati più lucidi e contenti.

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- Quanto conta l’intelligenza
Avere un quoziente intellettivo troppo basso non aiuta nella vita, ma neppure averlo troppo alto: il fatto di avere un’intelligenza sopra la media conta veramente poco.
Nel campione di uomini analizzati, Vaillant non ha notato alcuna differenza di reddito e di benessere economico tra coloro che avevano un quoziente compreso tra 110 e 115 (leggermente superiore alla media) e coloro che superavano 150 (un quoziente decisamente da cervelloni).
Ciò non significa, ovviamente, che essere stupidi sia un vantaggio! Il Grant Study dimostra semplicemente che per essere felici non è necessario essere dei geni.

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- La politica? È legata al sesso
Le opinioni politiche contano nella vita, ma non nel modo in cui si crede: non condizionano la soddisfazione o l’insoddisfazione circa la propria vita, ma, stando ai dati raccolti dallo studio, hanno a che fare con il sesso.
Vaillant ha infatti scoperto che gli uomini con idee aperte, in genere simpatizzanti del partito democratico, tendevano a far sesso anche nella terza e quarta età (oltre gli 80 anni), mentre i conservatori e gli ultratradizionalisti, più inclini a votare il partito repubblicano, cessavano l’attività sessuale attorno ai 68 anni.
«Ho consultato diversi urologi e andrologi in proposito», ha scritto Vaillant, «ma nessuno di loro ha saputo darmi una spiegazione scientifica».

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- La mamma c’entra eccome
Vaillant ha osservato che gli uomini professionalmente più appagati erano anche quelli che da bambini erano stati molto amati dalla propria madre: «Gli uomini che a 70 anni esprimevano un profondo appagamento non erano quelli che avevano guadagnato di più e neppure quelli che godevano di un più elevato status sociale, ma coloro che da bambini avevano conosciuto il calore e l’affetto materno».
Essere amati sin da piccoli regala a tutti una marcia in più nella vita.
Vaillant ne ha avuto spesso la riprova: i dati confermano che chi è stato trascurato dalla propria madre o addirittura maltrattato da bambino corre più rischi di ammalarsi di demenza senile da vecchio.
Il Grant Study, inoltre, ha rivelato che gli uomini che hanno avuto da bambini un buon rapporto col padre, sono diventati in genere adulti meno ansiosi.

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3. Mai perdere le speranze. Dare e ricevere amore

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Il proverbio dice che “la speranza è l’ultima a morire” e alcune storie raccolte dal Grant Study lo confermano.

Uno studente di Harvard di famiglia modesta fece una vita ingrata all’università: per pagarsi gli studi, trovò un impiego come assistente di un medico in un ospedale psichiatrico.

Ogni giorno per diversi anni coprì il turno di notte: dalle 6 del pomeriggio a mezzanotte dormiva, poi si alzava, andava a lavorare in ospedale, smontava alle 8 di mattina e correva dritto a lezione.

Una volta laureato, tentò la carriera di attore teatrale, ma gli andò male. Si sposò senza amore e si accontentò di un lavoro impiegatizio; a 40 anni, confessò a Vaillant: «Sono un uomo mediocre e senza immaginazione».

Gli anni della maturità furono per lui un deserto emotivo, poi qualcosa cambiò. Una volta in pensione, riprese l’antica passione per il teatro e iniziò a recitare in ruoli scespiriani con sempre maggiore successo; a 78 anni si risposò, questa volta con trasporto.

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A 86 anni, disse a Vaillant: «Sono contento, ho una salute di ferro e l’unica medicina che prendo regolarmente è il Viagra». A 96 anni morì sereno e soddisfatto. Morale della favola: tutto può cambiare. A qualsiasi età.

Nel marzo del 2008, un giornalista chiese a George Vaillant: «Che cosa ha imparato dirigendo questo lunghissimo studio?». Lo psichiatra gli rispose: «Che quel che conta nella vita è la qualità delle nostre relazioni con gli altri. Un uomo può avere una carriera di successo, molto denaro e una buona salute, ma senza amore e senza supporto sociale non sarà mai davvero felice».

Nel suo libro Triumphs of Experience, Vaillant ha scritto: «75 anni di studi e ricerche mi conducono a una sola, sintetica conclusione: la felicità è amore. Punto e basta». All you need is love, tutto ciò di cui hai bisogno è l’amore: lo cantavano i Beatles già cinquant’anni fa.

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4. La solitudine ci fa ammalare davvero

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Vivere in solitudine o in una condizione di isolamento sociale dopo i 60 anni aumenta i rischi di declino funzionale e morte prematura.

E' questo il risultato di una ricerca durata 6 anni, effettuata da un’équipe dell’Università della California, a San Francisco (Usa), e diretta da un’italo-americana, Carla Perissinotto.

Il 62,5 per cento delle persone sofferenti di solitudine era tuttavia sposato o conviveva con alcuni familiari.

«Possiamo sentirci soli anche se viviamo con qualcuno e possiamo sentirci connessi agli altri anche se viviamo soli», ha commentato Perissinotto. «Ciò significa che a contare non è la quantità, ma la qualità delle nostre relazioni umane».

Questo non è il primo studio sul tema: altre ricerche hanno dimostrato che la solitudine cronica è associata a ipertensione (pressione sanguigna troppo alta), patologie a carico delle coronarie (le arterie del cuore), indebolimento della risposta immunitaria, depressione, disturbi del sonno, declino cognitivo e demenza senile.

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Vuoi invecchiare bene? Investi nelle relazioni affettive e fai volontariato! Uno dei risultati più eclatanti ottenuti dal Grant Study è quello che correla la ricchezza materiale alla ricchezza delle relazioni sociali: gli uomini che in genere guadagnavano di più erano anche quelli con le relazioni affettive e sociali più stabili e intense.

«Inoltre, il Grant Study dimostra quanto le relazioni sociali siano importanti per invecchiare bene», aggiunge lo psichiatra George Vaillant.

«Per mantenersi vivi nella terza età, non basta fare le parole crociate, coltivare i propri hobby o investire il proprio denaro nelle azioni giuste: bisogna avere amici e affetti in carne e ossa, questa è la verità. Dedicare il proprio tempo e le proprie energie a qualche attività di volontariato è un ottimo modo di aiutare se stessi aiutando gli altri».

Abbiamo bisogno di amici veri, non virtuali! Non è facile dimostrare sperimentalmente quanto una vita ricca di stimoli possa far bene al cervello ma esistono evidenze indirette che mostrano una minor incidenza delle patologie neurodegenerative (come l’Alzheimer) in chi ha svolto un’esistenza vivace dal punto di vista sociale, segno che quest’ultima protegge le nostre funzioni cognitive dal normale decadimento.

Coltivare amici e contatti attraverso i social network non basta. Claudia Kawas, esperta di invecchiamento cerebrale e docente dell’Università della California-Irvine (Usa), ha studiato l’invecchiamento di migliaia di persone sin dal 1981; dai suoi studi emerge che le persone che escono di casa, interagiscono con altri, coltivano legami di amicizia e si aprono a nuove esperienze sociali arrivano a 90 anni con buone facoltà cognitive.

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5. Come essere felici in 5 mosse

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1. Dedicati regolarmente a un’attività fisica, soprattutto in compagnia di altri: è il modo migliore per vincere depressione e malumori.
Molti studi oltre al Grant lo hanno confermato: la pratica sportiva migliora la salute e l’autostima, riduce l’ansia e alza il tasso di felicità.
attività fisica

 

2. Coltiva l’ottimismo anche nelle piccole cose.
I pessimisti in genere si ammalano di più, mentre gli ottimisti se la cavano nettamente meglio.
Bisognerebbe far propria la massima di Winston Churchill: «Un pessimista vede difficoltà in ogni opportunità, un ottimista opportunità in ogni difficoltà».
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3. Coltiva la gentilezza, la speranza, il rispetto per gli altri, la sicurezza in te stesso e soprattutto la gratitudine.
Alla fine di ogni giornata, non pensare solo alle grane o ai problemi: pensa alle piccole cose belle, ai brevi momenti di luce, agli sprazzi di positività.
Non lasciarti sommergere passivamente dalle emozioni negative.
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4. Non occuparti solo di te stesso: far qualcosa al di là del tuo personale interesse ti farà sentire meglio.
Lo psicologo americano Martin Seligman ha scoperto che le persone felici sono quelle che valorizzano i propri punti di forza e le proprie abilità mettendole al servizio di obiettivi non egoistici (solidarietà, utilità sociale, volontariato ecc.).
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5. Nutri la tua anima e se puoi apriti alla dimensione spirituale: i soldi sono importanti, ma non rinchiuderti in un’ottica puramente materialistica.
Le persone che frequentano un gruppo religioso godono di maggiore supporto sociale e psicologico; la preghiera e la fede, inoltre, hanno effetti positivi sull’anima e sul corpo al pari della meditazione.
Le persone con una profonda dimensione spirituale, infine, hanno più risorse per combattere lo stress e affrontare le difficoltà della vita.

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