Il suicidio dell’Europa comincia il 28 luglio 1914, con l’attacco dell’Austria-Ungheria alla Serbia, e termina all’undicesima ora, dell’undicesimo giorno, dell’undicesimo mese del 1918.
Con un bilancio finale terrificante: 20 milioni di morti, dieci milioni di feriti, mutilati, invalidi.
Per quanto riguarda l’Italia gli ultimi consuntivi portano il numero delle vittime a sfiorare quota un milione, abbandonando la cifra iniziale, divulgata per decenni, dei 600mila caduti per la Patria.
Per noi il conflitto finisce sette giorni prima, il 4 novembre, alle 15, perché così stabilisce l’armistizio firmato a Villa Giusti di Abano Terme con gli austriaci. È stata la prima vera guerra moderna, la prima vera guerra industriale, con l’utilizzo di armi mai sperimentate prima di allora.
La mitragliatrice e la vera regina, rapidissima nel trasmettere i suoi messaggi di morte. Il gas è subdolo, silenzioso, ma non meno atroce. Lo usano per primi i tedeschi nella seconda battaglia di Ypres (22 aprile 1915) e poi lo adotteranno tutti gli altri eserciti.
Il carro armato debutta il 15 settembre nella battaglia della Somme. Anche gli aerei, inizialmente utilizzati solo per voli di ricognizione, diventano una micidiale arma offensiva.
Ma sono vulnerabili, specie nei voli radenti sulle trincee: è una mitragliatrice, sul Montello, a provocare la morte di Francesco Baracca, uno degli assi dell’aviazione italiana. È stata anche una guerra di logoramento vissuta in trincea, dove centinaia di migliaia di uomini persero la vita per difendere pochi metri di terreno.
Gli assalti con la baionetta inastata diventano tristemente necessari per avere ragione del nemico, sulle colline della Somme come nei boschi di Verdun, sul Carso come sull’Isonzo e nei tremendi corpo a corpo per la conquista del Sabotino e del Vodice.
I soldati costretti a convivere con i topi e i pidocchi, nel fango delle trincee. Oppure, ed è una caratteristica del fronte italo-austriaco, a dover combattere in alta quota, a due-tremila metri, dove l’avversario numero uno e il freddo.
Le battaglie che abbiamo deciso di raccontarvi rappresentano tutte una svolta, nel bene e nel male. L hanno segnato per sempre la storia di quel periodo. Sul fronte occidentale sono sempre più lunghe.
E con bilanci tremendi, Verdun e Somme in testa. Sul fronte italo- austriaco sono le condizioni ambientali a dettare le regole. Ma cominciamo dall’inizio…
1. LA BATTAGLIA DELLA MARNA, 5-11 settembre 1914
Quarantacinque giorni. Non uno di più.
Deve essere questo il tempo necessario per invadere la Francia, conquistarla e sconfiggere l'unico serio nemico dal punto di vista militare.
Altrimenti che guerra lampo sarebbe? Il piano tedesco del feldmaresciallo Alfred von Schlieffen sembra perfetto. Ma non doveva essere modificato.
Sul letto di morte, nel 1913, un anno prima dello scoppio della Prima guerra mondiale, le sue ultime parole, appena mormorate, furono: “ L’ala destra, mi raccomando l’ala destra... Mai indebolire l’ala destra”.
Nella battaglia della Marna l’ambizioso disegno dello stratega di Berlino crolla impietosamente. Più per demerito dei tedeschi che per la reazione anglo-francese.
Intanto perché il nuovo capo di Stato Maggiore dell’esercito imperiale germanico, l’ondivago e indeciso Helmuth Johann von Moltke, successore di Alfred von Schlieffen e nipote del feldmaresciallo vincitore a Sedan nel 1871 (Helmuth Karl Bernhard von Moltke), non solo indebolisce l’ala destra ma segue l’invasione della Francia stando sempre distante, molto distante, dalle prime linee.
Non ha il polso della situazione, non segue l’evolversi dell’avanzata. Di fronte ha un generalissimo dal nome altisonante: Joseph Jacques Cesaire Joffre. E lui il leader dell’Armée.
Ha commesso molti errori, attaccando in Alsazia e Lorena con il suo famigerato piano XVII ignorando i tedeschi che si avvicinavano sempre più a Parigi. Ma poi si riprende, è sempre in mezzo ai suoi uomini, li galvanizza, li incita.
E ha la fortuna di avere un generale come Joseph Gallieni (i cui genitori erano di origine italiana) che nel momento decisivo capisce l'errore commesso dai tedeschi nel corso dell’avanzata (quando accorciando la linea fecero proprio l'errore di scoprire l’ala destra) e convince Joffre ad attaccare il loro fianco sull'Ourcq e sulla Marna.
La battaglia della Marna (5-11 settembre 1914) sancisce la fine della guerra di movimento e spegne il sogno tedesco della guerra breve, la Blitzkrieg. Così viene decisa la ritirata.
Gli eserciti si posizionano dietro linee difensive che attraversano l’Europa per 650 chilometri: dalla Svizzera al Mar del Nord. Incomincia la lunga, terribile, sanguinosa guerra di trincea.
LA BATTAGLIA IN NUMERI:
TRUPPE | UOMINI | PERDITE |
Tedesche | 1.000.275 | 67.700 tra morti/feriti/dispersi |
Francesi | 1 milione | 85mila tra morti/feriti/dispersi |
Inglesi | 125mila | 1701 tra morti/feriti/dispersi |
2. LE BATTAGLIE DI TANNENBERG, 26-29 agosto 1914 E DEI LAGHI MASURI, 7-14 settembre 1914
La sconfitta subita il 20 agosto 1914 a Gumbinnen, nella Prussia orientale, costa molto cara ai tedeschi.
I russi sono avanzati per ben 90 chilometri gettando nel panico la popolazione.
Se le due armate russe, comandate dai generali Pavel Rennenkampf e Aleksandr Samsonov, riuscissero a congiungersi a occidente dei Laghi Masuri tutta la Prussia orientale sarebbe persa.
Ed è quello che Helmuth von Moltke, capo dello Stato Maggiore dell’esercito imperiale, vuole evitare. Ma prima liquida i responsabili di quel disastro, il comandante dell’8a Armata, Maximilian von Prittwitz, e il suo capo di Stato Maggiore, Alfred von Waldersee.
Vengono sostituiti da Paul von Hindenburg ed Erich Ludendorff. E le scelte di Von Moltke si riveleranno molto azzeccate. Hindenburg e Ludendorff hanno già alle spalle una brillante carriera.
Il primo viene richiamato dalla patria a 67 anni mentre già si godeva la pensione. Ludendorff di anni ne ha 49 ed è stato tra i protagonisti, pochi giorni prima, della conquista di Liegi.
L’inedita coppia vara una manovra concepita e attuata con grande genialità strategica. I russi danno una mano: Rennenkampf e Samsonov non sono collegati telefonicamente e i due generali comunicano tra loro, e con il comando supremo, tramite telegrafo, per di più in chiaro.
Tutti i loro messaggi vengono intercettati. In tre giorni, dal 26 al 29 agosto, l’annata di Samsonov è accerchiata e distrutta. La grande vittoria prende il nome dal villaggio di Tannenberg, località simbolo per i tedeschi che volevano così vendicare l'umiliazione subita nel lontano 15 luglio 1410.
Vendetta tremenda vendetta. Consumata anche rapidamente, in appena 96 ore. Dopo la grandiosa vittoria di Tannenberg, che ha una grande eco in Germania, Hindenburg rivolge l’attenzione sull’altra armata nemica e la frantuma.
Dal 7 al 14 settembre, nella battaglia dei Laghi Masuri, i russi perdono 70mila uomini tra morti e feriti, oltre a 45mila prigionieri. Per l’esercito dello zar Nicola è l’inizio della fine.
LA BATTAGLIA IN NUMERI:
TRUPPE | UOMINI | PERDITE TANNENBERG | PERDITE LAGHI MASURI |
Tedesche | 165mila | 37mila tra morti/feriti/dispersi | 9mila tra morti/feriti/dispersi |
Russe | 192mila | 50mila tra morti/feriti/dispersi, 90mila prigionieri | 70mila tra morti/feriti/dispersi, 45mila prigionieri |
3. LA BATTAGLIA DI VERDUN, 21 febbraio -15 dicembre 1916
E' stata la più lunga, una delle più sanguinose e forse la più inutile. Basta il nome, Verdun, per far venire i brividi.
Una battaglia costata 700mila uomini, tra morti e feriti. La Germania attacca, la Francia si difende.
La Germania pianifica tutto perché l’obiettivo è uno solo. E non va fallito: dissanguare l’esercito francese. Parole del generale Erich von Falkenhayn, nuovo capo di Stato Maggiore al posto dell'esonerato (e inetto) von Moltke.
Così dal 21 febbraio 1916 sino al dicembre successivo avviene il massacro sulle colline che circondano questa incantevole cittadina della Lorena, a nord-est della Francia, attraversata dalla Mosa.
I francesi ci mettono del loro: mai e poi mai avrebbero pensato che i “boches” (i tedeschi) osassero attaccare da quellaparte. Il settore, dall’ottobre del 1914 fino al febbraio del 1916, era stato uno dei più calmi dell’intero fronte.
E così avevano ridotto le guarnigioni e il potenziale di fuoco dei forti che avrebbero dovuto rendere inespugnabile la cittadina. In totale erano stati portati via 43 cannoni di grosso calibro, 128mila proiettili e 11 batterie campali.
Gli alti ufficiali francesi, per un anno e mezzo, avevano alloggiato, inoperosi, nel grazioso hotel-restaurant “Le coq hardi”, oggi molto rinomato. Al temine della battaglia, la collina di Verdun non esisteva più.
Come non c’erano più i villaggi sui due versanti. Gli alberi, grazie a una vasta operazione di rimboschimento, sono tornati. Ma il terreno, devastato da 21 milioni di granate, è rimasto gibboso, pieno di crateri, quasi lunare. I paesini non sono stati ricostruiti.
La Francia però non li ha cancellali. I loro nomi sono rimasti negli elenchi delle prefetture e nella toponomastica. Sono diventati un ricordo, un souvenir, da trasmettere alle future generazioni.
Così come il colombo viaggiatore che ha esalato l'ultimo respiro, colpa dei gas tedeschi, dopo aver consegnato l'ultimo appello partito da Fort Vaux circondato dal nemico. A Verdun vince la pazzia dell'uomo.
Non vincono i tedeschi, che falliscono l’obiettivo e non si aprono la strada in direzione di Parigi. Non vincono i francesi, che commettono un errore dopo l’altro. G’è un solo vincitore: Henri Philippe Pétain, l’inventore della Via Sacra.
Il vincitore della battaglia di Verdun è lui, il generale Henri Philippe Pétain (1856-1951). Baffoni grandi così, capelli pochi, sguardo magnetico. A lui si affida Joffre, il 25 febbraio 1916, per impedire lo sfondamento tedesco.
È lui che consente ai difensori di Verdun di ricevere continui rifornimenti (viveri, soldati e munizioni) tramite l’unico collegamento rimasto, la stradina che da Bar-le-Duc sale verso la Mosa. Pétain la fa sistemare e allargare.
Per 10 mesi assolve il suo fondamentale compito. Tanto che i francesi la definiscono Via Sacra. È il nazionalista Maurice Barrès (romanziere, giornalista e uomo politico) a creare quel nome solenne: Route Sacrée.
Eroe alla fine della Prima guerra mondiale, traditore al termine della Seconda. Stringe la mano di Hitler e collabora con i nazisti, a capo della Repubblica di Vichy, nella cattura degli ebrei francesi da avviare nei campi di sterminio.
Pétain nel dopoguerra è condannato a morte, è salvato da un suo ex capitano, Charles De Gaulle, che fa commutare la sentenza capitale in ergastolo. Il salvatore di Verdun muore a Yeu, isoletta dell’Atlantico, dove scontava la pena, nel 1951 all’età di 95 anni.
LA BATTAGLIA IN NUMERI:
TRUPPE | UOMINI | PERDITE |
Tedesche | 300mila iniziali in rapido aumento | 330mila tra morti/feriti/dispersi |
Francesi | 350mila iniziali in rapido aumento | 378.777 tra morti/feriti/dispersi |
4. LA BATTAGLIA DI CAPORETTO, 24 ottobre - 26 novembre 1917
E' l'anno zero del Regio Esercito italiano.
Si sapeva tutto: ora d’inizio del bombardamento, direzione dell’attacco, uso del gas e la conferma del soccorso tedesco all’alleato austriaco.
Sono venuti a dirlo, nelle lince italiane, alcuni disertori cechi e romeni. E non sono stati creduti. Cadorna continuava a pensare che quel periodo dell'anno, autunno inoltrato, non fosse il più indicato per un attacco nella valle dell’lsonzo.
Temeva, piuttosto, come sempre, che gli austriaci ripetessero il blitz dal Trentino come aveva già fatto Conrad nella primavera del 1916. Eppure Cadorna dà disposizioni che dovrebbero consentire di affrontare adeguatamente la minaccia.
Il 18 settembre rinuncia all'ennesima “spallata” che sarebbe partita dalle basi conquistate sulla Bainsizza dal generale Enrico Caviglia. E ordina l’arretramento della prima linea con precise disposizioni, sono parole sue, “di concentrare ogni attività nelle predisposizioni per la difesa a oltranza”. Ma poi commette gli errori di sempre.
Ovvero non controlla che i suoi ordini vengano attuati. E mentre lui, il 4 ottobre, si concede una licenza di due settimane da trascorrere sugli Altipiani (visita Bassano, Thiene, i monti Borico e Grappa, tenendosi ovviamente in contatto con il quartier generale di Udine) l’esercito italiano continua a essere schierato in posizione offensiva.
Lo tradiscono quelli che ritiene i suoi due migliori generali: Luigi Capello e Pietro Badoglio. Il primo progetta una serie di contrattacchi immediati “per portare forze in avanti a dare il colpo di clava”. Il secondo fa ancora peggio. Vagheggia altri allori, dopo quelli già ottenuti, alcuni decisamente discutibili.
E vorrebbe far scattare una gigantesca trappola nella stretta di Volzana dopo aver fatto avanzare il nemico senza contrastarlo. Ordina al comandante della sua artiglieria, il colonnello Alfredo Cannoniere, di non sparare un colpo fino a un suo preciso ordine.
Badoglio quell’ordine non lo darà mai perché bloccato dal bombardamento nemico nelle retrovie e perché le prime a saltare sono le centraline telefoniche. Le 800 bocche da fuoco del XXVII Corpo d’armata comandato dal generale Badoglio resteranno in silenzio all’alba del 24 ottobre 1917.
Tutto questo ci costa un arretramento di 150 chilometri, sino al Piave. Ma di che è la colpa? Dei soldati, ovviamente, spiega vigliaccamente nel suo bollettino il generalissimo.
Che si autoassolve e accusa quei poveri ragazzi (14mila morti, 100mila prigionieri, 300mila sbandati) di non aver combattuto, di essersi arresi, di aver gettato i fucili. Travolti da un nemico che aveva escogitato una nuova tattica: salire sulle vette con piccole pattuglie soltanto dopo aver occupato le valli.
LA BATTAGLIA IN NUMERI:
TRUPPE | UOMINI | PERDITE |
Austro-ungariche-tedesche | 1.353.000 | 50mila tra morti/feriti/dispersi |
Italiane | 1.844.000 | 40mila tra morti/feriti/dispersi, 293mila prigionieri e 300mila sbandati |
5. LA BATTAGLIA DEL SOLSTIZIO, 15-23 giugno 1918
L'ha chiamata così Gabriele D ’Annunzio.
E ha ispirato anche l'autore dell’Inno del Piave che scrive il famoso ritornello subito dopo la coraggiosa resistenza dei nostri soldati tra il Montello e il fiume sacro alla Patria.
Per gli austriaci si tratta dell’ultimo assalto. Ma lo fanno senza convinzione e, soprattutto, con un dissidio tra due Signori della guerra, irriducibili nemici degli italiani: Franz Conrad von Hoetzendorf e Svetozar Borojević von Bojna, il "Leone dell’Isonzo”.
Conrad, come sosteneva da anni, vuole un attacco tra Adige e Piave partendo dalle zone del Veneto già occupate. Borojević, di offensiva, non voleva neppure sentirne parlare. E' decisamente contrario. Sia per le condizioni dei suoi uomini, sia perché bisognava pensare alla pace e arrivarci nelle migliori condizioni possibili.
Quando poi Conrad, con tutto il suo prestigio e i suoi appoggi, riesce a convincere della bontà della sua linea sia il comando supremo a Baden sia l’imperatore Carlo, Borojević chiede almeno un attacco più limitato, ed esclusivamente in pianura, con partenza dal Piave. Ma senza esito.
Il 28 maggio il "Leone dell'Isonzo” scrive a Baden: “Nessuno può assumersi la responsabilità di dar inizio a un’operazione bellica con supporti materiali insufficienti e con uomini malnutriti e pertanto inabili al combattimento”.
Niente da fare. Si attacca il 15 giugno, sia sul Piave sia sul Grappa. Un errore fatale. Anche perché l’esercito di Armando Diaz non è più quello di Luigi Cadorna. Rinfrancate nel morale, decise a non cedere, le divisioni italiane stroncano l’attacco austriaco già nei primi giorni della battaglia del Solstizio.
Dal campanile della chiesa di Oderzo il generale Borojević osserva gli sviluppi dell’assalto e si rende conto della supremazia dell’artiglieria e dell’aviazione tricolore. Nella notte tra il 16 e il 17 giugno Diaz autorizza i primi trasferimenti di reparti dalla montagna alla pianura, perché è sul corso del fiume che possono arrivare i pericoli.
L ’imperatore, spostandosi in treno, consulta tutti i comandanti delle sue armate: il 17 è a Bolzano e vede Conrad; il 18 a Trento parla con i generali Alexander von Krobatin e Viktor von Scheuchenstuel; la mattina del 19 il treno imperiale è a Spilimbergo. Qui incontra Borojević.
Il 20, a Vittorio, il sovrano si sente ripetere le stesse cose da altri generali (nell’ordine l’Arciduca Giuseppe, Goiginger, Wurm) ma prima di prendere la decisione si consulta con i suoi consiglieri Arz e Waldastatten.
Alle 19.16 di quel giorno parte l’ordine di ritirata. L’esercito italiano, messo a dura prova dopo il disastro di Caporetto e dopo il primo scontro sul Piave, supera brillantemente l’esame.
E qui, nella battaglia del Solstizio, che si gettano le basi per la vittoria finale. Dal Grappa a San Donà il nemico conta oltre 100mila tra morti e feriti e circa 20mila prigionieri di guerra.
Ernest Hemingway, in forza alla Croce Rossa sul fronte del Piave, ha scritto: “E stata una grande vittoria che dimostra al mondo intero quali meravigliosi combattenti siano gli italiani”
LA BATTAGLIA IN NUMERI:
TRUPPE | UOMINI | PERDITE |
Austro-ungariche | 855mila | 118.042 morti/feriti/dispersi |
Italiane, franco-inglesi e cecoslovacche | 200mila | 85.620 morti/feriti/dispersi |