Maschio, celibe, tra i 19 e i 30 anni, cattolico praticante, soprattutto svizzero di nascita come pretende la tradizione.
Ecco le condizioni necessarie ma non sufficienti per ambire ad un posto tra le guardie del papa.
I candidati, infatti, a parte la fedina penale pulita e la buona salute, devono seguire un addestramento di due mesi suddiviso tra Svizzera e Roma.
Il primo mese nel Centro addestramento della polizia elvetica di Isone (Canton Ticino) è dedicato all’addestramento intensivo in autodifesa e tecniche restrittive e di contenimento, tiro, comportamento tattico e soccorso e misure salvavita.
Successivamente si spostano a Roma per acquisire la formazione militare tipica delle Guardie Svizzere, prendere confidenza con i luoghi e le persone, studiare la lingua italiana.
Durante il servizio, non meno di 26 mesi, continueranno ad esercitarsi e ad essere sottoposti a test e verifiche.
Le Guardie Svizzere vegliano sul Pontefice e i palazzi Vaticani da più di 500 anni, eredi di quei mercenari elvetici che furono i soldati più apprezzati tra Medioevo e Rinascimento.
1. Il più piccolo esercito al mondo
Composto da soli 135 uomini, il corpo delle Guardie Svizzere costituisce il più piccolo esercito al mondo, ma anche il più antico, visto che attende alla figura del pontefice e alla sicurezza vaticana da oltre mezzo millennio.
Sicuramente è quello con l’uniforme più sgargiante, affascinante rimando alla sua origine rinascimentale, sebbene sia solo una leggenda quella che indica in Michelangelo lo “stilista” che l’avrebbe disegnata.
Malgrado l’uniforme retrò e le armi da cerimonia irrimediabilmente datate, gli svizzeri non sono mai stati un esercito da operetta, buono solo per i selfie dei turisti, avendo dimostrato nei secoli di sapere versare il proprio sangue per difendere l’incolumità del Santo Padre.
A spada e alabarda della tradizione, accoppiano oggi gli strumenti di difesa ultimo modello, quelli in dotazione alla moderna milizia svizzera, anche se in servizio le portano solo ufficiali e sottufficiali e a scopo di deterrenza, senza abdicare quindi all’immagine di esercito pacifico.
La genesi del corpo affonda nel Medioevo quando, a partire dal XIII secolo, in campo militare gli svizzeri cominciarono a distinguersi come valenti mercenari, feroci, coraggiosi e capaci di attacchi così impetuosi da sbaragliare qualunque avversario si fosse trovato a incrociarne le armi sui campi di battaglia europei.
Per ritrovare il germe di questa poderosa vis pugnandi, cresciuta a sorpresa in un popolo di montanari dediti a pastorizia e agricoltura, occorre risalire all’embrione della Svizzera moderna, a quel Patto Eterno Confederale, siglato il primo agosto 1291 dai tre Cantoni centrali dell’odierna Confederazione, che vincolava le rispettive popolazioni a fornirsi mutua assistenza militare in caso di aggressione esterna.
La divisa delle Guardie Svizzere: spada e alabarda nel ricordo dei primi mercenari arruolati nel 1506 da papa Giulio II, farsetto e pantaloni a bande verticali sgargianti a richiamare i colori della famiglia Della Rovere (giallo e blu) con l’aggiunta del rosso a comporre quelli dei Medici.
Nel rimettere mano ad armamento e divise delle Guardie Svizzere per riportare il corpo all’iniziale prestigio, l’ufficiale svizzero Jules Repond, comandante dal 1910 al 1921, si rifece a canoni estetici rinascimentali e alla foggia dei vestiti di quel drappello di guardie immortalate da Raffaello nella sua “Cacciata di Eliodoro”.
La divisa disegnata da Repond è ancora oggi quella del corpo: quella di gala prevede la gorgiera, guanti bianchi e il morione, elmo di metallo chiaro con piume di struzzo di colore diverso a seconda del grado: bianca per Comandante e Sergente Maggiore, viola scuro per gli Ufficiali, rosso per Alabardieri e Sottufficiali.
Sull’elmo, a destra e a sinistra, è raffigurata a sbalzo la quercia, stemma araldico dei Della Rovere. Il morione viene indossato in combinazione con il pettorale di una corazza del XVII secolo. L’uniforme dei due Tamburi, che fanno parte della banda, è gialla e nera come la piuma del loro casco.
La divisa del Comandante è, invece, costituita da giubba e pantaloni bordeaux. Durante il normale servizio, un basco nero sostituisce il morione e un semplice colletto bianco la gorgiera più o meno increspata.
2. Il mestiere delle armi
Siglata per contenere le mire territoriali degli Asburgo, l’alleanza connotò subito la nascente Svizzera come un’anomalia europea: l’unico stato a non delegare la propria difesa a forze esterne o espressione di un solo ceto (la cavalleria medievale), preferendo tradurla in un’esperienza collettiva.
La chiamata alle armi nei Cantoni fu sempre generalizzata e portò alla formazione di eserciti numerosi, composti da uomini votati al sacrificio, abituati a combattere tanto per la patria in battaglia, quanto per la sopravvivenza nel quotidiano, in un clima ostile, avaro di risorse naturali.
Soldati e comandanti provenivano spesso dagli stessi villaggi, il che garantiva spirito di corpo, dedizione e mutuo soccorso, qualità non riscontrabili in altri eserciti del periodo.
Questi eserciti cantonali scoprirono ben presto come il mestiere delle armi fosse l’unica alternativa alla vita di stenti cui erano costretti nei loro villaggi alpini dove pastorizia e agricoltura non bastavano mai a sbarcare il lunario.
Molto meglio affittare le proprie capacità guerriere al miglior offerente e trasformarsi in mercenari stagionali: d’estate in giro per l’Europa a guerreggiare e d’inverno il ritorno a casa con il soldo della pugna. Gli svizzeri combattevano per vivere e la loro efficacia in battaglia divenne proverbiale.
Parallelamente al conseguimento dei primi grandi successi, crebbe la loro fama di soldati invincibili e fedeli – almeno fino a quando il committente continuava ad elargire loro il compenso pattuito – tanto che nessun signore o potentato volle più farne a meno.
La tattica che adottarono in battaglia fu talmente innovativa da cambiare radicalmente il modo di combattere, segnando insieme alle comparsa delle armi da fuoco il tramonto della cavalleria e la rivincita della fanteria, e archiviando di fatto la guerra medievale.
Armati di picche che superavano i cinque metri, ordinati in formazione compatte simili alla falange greca, gli svizzeri avanzavano in quadrati massicci, foreste di lance che irretivano i cavalli.
Col tempo acquisirono anche una notevole capacità di manovra e furono in grado di compiere veloci accerchiamenti dei nemici e marciare in modo da sottrarsi al fuoco dell’artiglieria.
Tale fu il successo di queste formazioni mercenarie che a partire dal XV secolo il loro arruolamento divenne un affare di stato, gestito dai Cantoni, che ne trassero benefici economici e politici, potendo “affittare” le milizie a quegli stati con i quali avevano stabilito accordi diplomatici.
Nemmeno il papato, impegnato sul finire del turbolento Quattrocento in più di un conflitto, volle privarsi dei prodi contadini-guerrieri d’Oltralpe. Cominciò Sisto IV nel 1478, siglando un accordo con la Confederazione elvetica, poi rinnovato dal suo successore Innocenzo VIII, che si servì dei mercenari svizzeri contro Milano.
Le milizie servirono anche sotto papa Borgia, Alessandro VI, durante le Guerre d’Italia, un periodo che vide gli svizzeri militare sotto diverse bandiere, dalla Francia alla Santa Sede, fino all’Impero.
Quando i mercenari vennero a sapere che il re francese Carlo VIII stava organizzando una spedizione contro il Regno di Napoli, corsero in massa ad arruolarsi. Testimone in prima fila delle loro doti militari fu l’allora Giuliano Della Rovere, futuro papa Giulio II, anch’egli coinvolto nella spedizione.
3. Il papa guerriero
Giulio II fu talmente affascinato da quei magnifici soldati che una volta salito al soglio di Pietro, nel 1503, chiese alla Dieta Svizzera di fornirgli un corpo di mercenari da tenere a suo servizio.
Quale miglior patrono per le future Guardie della figura di un pontefice che verrà poi definito “il papa guerriero”? Il 22 gennaio 1506 segna la data ufficiale di costituzione della Guardia Svizzera Vaticana.
All’imbrunire di quel giorno i primi 150 svizzeri richiesti dal papa, al comando del capitano Kaspar von Silenen attraversarono Porta del Popolo ed entrarono per la prima volta in Vaticano dove furono benedetti dal pontefice.
Negli anni a seguire non si sarebbero limitati a svolgere il compito di guardie del corpo del Santo Padre ma avrebbero partecipato a numerose battaglie.
All’inizio del Cinquecento l’Europa era scossa dal conflitto tra gli Asburgo e i Valois, nelle figure di Carlo V, imperatore del Sacro Romano Impero e di Francesco I re di Francia, quest’ultimo sconfitto una prima volta dagli imperiali nel 1525 a Pavia e costretto a firmare una pace umiliante che gli impediva ogni mira sull’Italia.
Clemente VII, papa di casa Medici, temendo il saldarsi del dominio imperiale su tutta la penisola compreso lo Stato Pontificio – Carlo V controllava già il Settentrione e il Meridione gli spettava come eredità spagnola – sfruttò il risentimento francese e promosse una lega antimperiale (Lega di Cognac) cui si iscrissero oltre a Parigi, anche Milano, Venezia, Genova e ovviamente Firenze dove regnavano i Medici.
Un’alleanza ostile che indusse Carlo V all’intervento armato in Italia. Impegnato sul fronte interno con i Luterani, e minacciato ai confini dell’Impero dagli Ottomani, l’imperatore non prese parte alla spedizione che delegò a Carlo di Borbone e ad un esercito di lanzichenecchi arruolati soprattutto tra Merano e Bolzano, capitanati dal famoso condottiero tirolese Georg von Frundsberg, celebre anche per la sua viscerale ostilità contro il papa.
I mercenari tirolesi cominciarono la loro calata in Italia nel novembre del 1526. Mossero da Trento in dodicimila e, complice il tradimento di alcuni principi italiani e la scarsa efficienza dell’esercito della Lega di Cognac, raggiunsero il territorio emiliano.
Non fu però una passeggiata di piacere. Costretti a marciare nel fango e a sopportare temperature molto rigide, tormentati dalle continue incursioni nemiche, falcidiati dalle malattie, versavano in condizioni allarmanti.
A ciò si aggiunga che la mancanza del versamento del soldo pattuito al momento dell’ingaggio aveva già dato luogo a preoccupanti atti di insubordinazione. Frundsberg chiamò in aiuto il Borbone e le sue truppe imperiali di stanza a Milano che si ricongiunsero con i lanzi nel febbraio del 1527 nel Piacentino.
Avidi di bottino, accecati dall’odio contro il papa, furenti per una guerra che non stava andando come previsto, lanzichenecchi e spagnoli continuarono a rendersi protagonisti di gravi sedizioni.
Divennero una soldataglia non più governabile e costrinsero il Borbone a rifiutare la tregua proposta dal papa: niente e nessuno avrebbe potuto fermare quell’esercito convinto che soltanto il saccheggio della Città santa avrebbe potuto ripagarli delle privazioni che avevano sopportato.
4. Il sacco di Roma
In aprile l’assedio si strinse attorno all’Urbe, difesa da non più di cinquemila soldati, asserragliati però dentro solide mura e dotati di alcuni pezzi d’artiglieria.
Fu lo stesso Carlo Borbone la mattina del 6 maggio 1527, muovendo dal suo quartiere generale nel convento di S. Onofrio sul Gianicolo, a dare il via agli assalti.
In uno di questi, alla Porta del Torrione, mentre dava la scalata alle mura, lo stesso condottiero fu colpito a morte. In seguito Benvenuto Cellini, lo scultore, si vantò di essere stato proprio lui ad esplodere quel colpo mortale.
Dopo un breve momento di sbandamento l’assalto riprese con vigore: i mercenari spagnoli sfondarono la Porta del Torrione, mentre i lanzichenecchi invasero Borgo S. Spirito e S. Pietro.
La Guardia Svizzera, compatta ai piedi dell’obelisco che allora si trovava vicino al Campo Santo Teutonico, e le poche truppe romane resistettero disperatamente per sei ore. Il comandante Kaspar Röist, ferito, venne trucidato dagli spagnoli a casa sua, sotto gli occhi della moglie Elisabeth Klingler.
Dei 189 svizzeri che formavano la Guardia del papa se ne salvarono solo quarantadue, quelli che all’ultimo momento, al comando di Hercules Göldli, avevano accompagnato Clemente VII nel suo rifugio di Castel Sant’Angelo: il resto cadde massacrato sui gradini dell’altare maggiore di S. Pietro.
La salvezza di Clemente VII e dei suoi uomini fu resa possibile dal “Passetto”, un corridoio segreto fatto costruire da papa Borgia sul muro che collegava il Vaticano e Castel Sant’Angelo.
Memorabile è rimasta la disperata fuga del papa attraverso lo stretto corridoio fortificato, con l’abito bianco coperto dal mantello violaceo del vescovo Paolo Giovio, affinché non fosse un facile bersaglio per i nemici, giunti ormai sotto le mura leonine.
La fuga del papa non servì a placare l’orda selvaggia che si riversò sull’Urbe con furia iconoclasta: ci furono omicidi, stupri, la sistematica depredazione delle chiese, perfino le tombe dei papi furono violate per rubare quanto custodivano. Le
strade della città divennero un cimitero a cielo aperto solcate da soldataglia ubriaca sempre più avida di delitti e bottino.
Il 5 giugno Clemente VII dovette arrendersi e accettare le pesanti condizioni di pace imposte: abbandono delle fortezze di Ostia, Civitavecchia e Civita Castellana, cessione delle città di Modena, Parma e Piacenza e il pagamento di quattrocentomila ducati.
Tedeschi e spagnoli sostituirono la guarnigione papale; la Guardia Svizzera fu soppressa e ad essa subentrarono duecento lanzichenecchi. Clemente VII ottenne che ne facessero parte anche i superstiti che lo avevano accompagnato nella fuga, ma soltanto 12 tra questi accettarono di servire fianco a fianco con gli odiati lanzi.
Ogni anno il 6 maggio le Guardie Svizzere, in uniforme di gala, ricordano il sacrificio dei loro predecessori con il solenne giuramento delle nuove reclute in una suggestiva cerimonia che si celebra nel Cortile di S. Damaso.
5. Ritorno a casa
Nel settembre del 1547 l’omicidio di Pier Luigi Farnese per mano degli imperiali convinse papa Paolo III, padre del condottiero ucciso, a licenziare i lanzichenecchi e a ripristinare, a partire dall’anno dopo, la Guardia Svizzera.
I compiti dei militari elvetici furono limitati alla protezione del pontefice e alla guardia cerimoniale delle stanze vaticane, cosa che non impedì comunque a dodici di loro di prendere parte alla Battaglia di Lepanto (1571) prestando servizio sotto l’ammiraglio Marcantonio Colonna.
Tra Settecento e Ottocento, lo storico esercito seguì le alterne fortune dei pontefici, finendo con l’essere soppresso più volte e puntualmente ricostituito.
Rimase invece al suo posto quando Roma passò al neonato Regno d’Italia: gli svizzeri non avevano partecipato ai combattimenti, sostenuti invece dagli zuavi pontifici, volontari francesi, olandesi e belgi, corsi in soccorso del papa.
Ma quella non era già più la Guardia Svizzera delle origini. La tradizione che voleva i suoi componenti scelti soltanto tra i cittadini dei Cantoni, e i comandanti espressione delle famiglie svizzere più influenti, si era annacquata al punto che tra le sue fila militavano soprattutto romani, sebbene con ascendenze elvetiche.
A far tornare il corpo all’antico splendore contribuì l’opera riformatrice intrapresa all’inizio del Novecento dal comandante Jules Repond. L’ufficiale ripristinò l’arruolamento dei soli cittadini svizzeri per nascita e impose che i militi svolgessero un severo apprendistato militare.
Fu invece stoppata da papa Pio X la pretesa di fornire le guardie di armi moderne con le quali meglio avrebbero potuto assolvere ai loro compiti.
Nel tentativo di recuperare alle Guardie il prestigio perduto, Repond disegnò personalmente le nuove divise – quelle che gli svizzeri indossano ancora oggi – ispirandosi alle uniformi di tipi rinascimentale.
Il nuovo look venne indossato a partire dal maggio del 1914. Lo sforzo del comandante tuttavia non suscitò il plauso di tutti i componenti del corpo e si arrivò perfino ad aperti atti di insubordinazione e al licenziamento di tredici guardie. Nel 1929, con la nascita del Vaticano, le Guardie Svizzere diventarono la milizia ufficiale del nuovo stato.
E dopo l’attentato a Giovanni Paolo II, il 13 maggio del 1981, cadde anche l’ultima resistenza a trasformarli in un efficiente corpo di guardia del papa, all’occorrenza in abiti borghesi e equipaggiato con armi moderne, per salvaguardarne l’incolumità durante le cerimonie ufficiali e i viaggi.
Quando invece indossano la divisa della tradizione, gli svizzeri continuano a impugnare soltanto spada e alabarda, restando comunque pronti a morire per il papa.