Roma ha lasciato in eredità al mondo moderno un complesso sistema di leggi di cui si trovano ancora molti elementi nei codici giuridici dei Paesi contemporanei.
Per questo fa una certa impressione constatare come le pene previste da questo sofisticato sistema siano molto lontane dalla nostra sensibilità e dal nostro concetto di “giusta pena”.
La differenza va ricercata nel significato che la punizione ha nella società romana e nella nostra: noi pensiamo che derivi dalla trasgressione di leggi civili, debba essere commisurata alla trasgressione e tendere a correggere il reo.
I Romani, al contrario, esigevano che rimediasse alla violazione di leggi divine, concedesse una giusta vendetta alle parti lese e costituisse uno spettacolo tale da insegnare al popolo i rischi di certi comportamenti.
Grandi legislatori e padri del diritto anche per noi moderni, i Romani non esitavano a punire i trasgressori delle leggi, divine e umane, con spietata determinazione.
E questo perché avevano una visione delle pene molto diversa dalla nostra. Scopriamo insieme quale…
1. LA RICERCA DELLA PACE CON GLI DEI
Alla base delle normative più antiche di Roma c’è la necessità di mantenere la pax deorum, il patto che garantiva l’armonia tra l’uomo e gli dei, che gli antichi facevano risalire direttamente a Romolo.
Questo insieme di regole, definito mos maiorum, “costume degli antenati”, era sacro per i Romani. In esso si trova l’intento di garantire stabilità alla nascente comunità impedendo il sorgere di faide e vendette incontrollate.
A mettere in crisi il patto sacro erano infatti le azioni che coincidevano con possibili turbative dell’ordine costituito: il tradimento contro lo Stato (perduellio), l’uccisione del padre (parricidium), l’infrazione del legame tra patrono e cliente, il veneficium (la somministrazione di sostanze velenose) a scopo di aborto, l’appropriazione di terre di privati.
A giudicare questi reati era preposto il rex, non solo supremo magistrato di Roma ma anche sacerdote. Tutto il resto era considerato “privato” e la giustizia veniva applicata dal pater familias, piccolo re all’interno del nucleo familiare.
Le punizioni dovevano essere esemplari:
- la perduellio era punita bastonando a morte il reo dopo averlo appeso a un albero;
- il parricidio con la poena cullei, il supplizio del sacco (l’assassino, chiuso in un sacco di cuoio assieme a un cane, un gallo e una vipera, veniva gettato in un fiume);
- chi infrangeva il legame tra patrono e cliente veniva consacrato a Plutone, come fosse una vittima per un sacrificio, e chiunque poteva ucciderlo;
- analogamente, consacrato a Giove, era invece chi spostava i confini di un terreno.
Alcune violazioni “preterintenzionali” si potevano espiare sacrificando un animale sostitutivo. Queste regole confluirono nella prima normativa scritta di Roma, le Leggi delle XII tavole, redatta all’inizio del periodo repubblicano.
2. DALLA MORTE FISICA ALLA MORTE CIVILE
Durante la Repubblica si introdussero sfumature di gravità.
Per i reati capitali non si previde soltanto la morte “fisica”, ma anche quella civile: la perdita della cittadinanza e l’esilio.
La privazione della cittadinanza veniva definita aquae et ignis interditio (allontanamento dall’acqua e dal fuoco), essendo acqua e fuoco considerati elementi essenziali del vivere civile.
Era un provvedimento di media gravità, in quanto non prevedeva la perdita della libertà.
L’esilio costringeva anche a risiedere in un luogo specifico, solitamente un’isola remota (deportatio ad insulam), ed era accompagnato dalla confisca dei beni e dalla perdita definitiva dei diritti civili.
Una forma attenuata di questo provvedimento, la relegatio ad insulam, prevedeva che a un certo punto il reo fosse perdonato e richiamato in patria.
Questa variante, tipica di reati come l’adulterio, l’omicidio involontario, lo stuprum (rapporti sessuali illeciti fuori dal matrimonio) fu applicata nei primi anni dell’Impero a diverse donne della famiglia Giulio-Claudia: la figlia di Augusto, Giulia maggiore, per la sua condotta licenziosa fu esiliata a Pandataria (Ventotene); la nipote, Giulia minore, sull’isola di Tremerus (Tremiti); Agrippina e Livilla, sorelle di Caligola, finirono a Ponza.
Nella foto sotto, Agrippina con un giovane Nerone.
3. PUNIZIONI UMILIANTI O DISONOREVOLI
Per alcuni delitti minori, come danni fisici inflitti involontariamente, si poteva essere semplicemente frustati o battuti con verghe.
Questa pena, riservata a schiavi o stranieri privi di cittadinanza romana, era inflitta anche ai cittadini allo scopo di umiliarli.
Era molto dolorosa, perché spesso veniva comminata con strisce di cuoio in cima alle quali si trovava una pallina di piombo, ed era applicata dai littori, guardie personali dei magistrati.
Questo spiega il significato dei fasci che essi recavano come simbolo del potere: il fascio di verghe alludeva alle punizioni minori, la scure, che si trovava al centro, alle punizioni capitali.
Le pene detentive non esistevano e il carcere era solo il preludio a una morte disonorevole, per impiccagione o strangolamento.
L’unico carcere di Roma, il Tullianum, era poco più di una stanza sotterranea su due livelli, forse in origine una cisterna per l’acqua.
Lì, nel 104 a.C., fu chiuso Giugurta, re della Numidia sconfitto da Mario, prima di essere strangolato; nel 46 a.C. vi fu relegato Vercingetorige, il condottiero dei Galli vinto da Cesare e poi ucciso nello stesso modo.
Gli schiavi pericolosi potevano anche essere costretti all’ergastulum, un seminterrato dove venivano obbligati a lavorare incatenati uno all’altro, senza mai poter uscire. Tuttavia, l’imperatore Adriano abolì questa pratica, considerandola troppo disumana.
Anche essere condannati alle miniere (ad metalla) o alla gladiatura era considerato infamante. La prima, pur essendo una pena più lieve della morte, non era più umana.
Lavorare nelle miniere equivaleva a una lenta agonia, infatti la maggior parte dei condannati, se aveva scelta, preferiva la gladiatura, dalla quale, con un po’ di fortuna e abilità, si poteva uscire vivi e magari perfino liberi.
Esisteva anche una punizione adatta ai patrizi o agli esponenti politici più eminenti, ma si trattava di una pena “definitiva”.
Il suicidio era considerato un’onorevole “uscita di scena” in situazioni difficili ed era scelto dai nobili perché evitava l’esproprio dei beni e lasciava intatta la proprietà familiare per gli eredi.
Fu praticato da molti personaggi illustri della storia romana, di solito in seguito a condanne politiche. Il caso più noto è forse quello del filosofo Seneca, (foto sotto) caduto in disgrazia per aver partecipato a una congiura contro l’imperatore Nerone.
Il modo più dignitoso di darsi la morte per un cittadino romano era la sua spada, sulla quale ci si doveva gettare dopo averla infissa nel terreno, ma i più preferivano aprirsi le vene immersi in un bagno caldo, che facilitava il dissanguamento e permetteva di scivolare lentamente in un letale torpore.
4. LA MORTE COME SPETTACOLO
Quando si parla di punizioni nell’antica Roma, il pensiero corre però alle più spettacolari e atroci, come la crocifissione e la damnatio ad bestias.
Esse occupano un posto privilegiato nell’immaginario collettivo, perché legate ai momenti fondanti del cristianesimo, e sono state molto utilizzate al cinema, fin dalle sue origini.
Si trattava di punizioni così crudeli che venivano comminate solo agli schiavi e agli stranieri.
La crocifissione provoca una morte lenta, che poteva durare anche diversi giorni, e nacque come punizione per briganti o schiavi ribelli: il fatto che i condannati restassero visibili a lungo mentre agonizzavano costituiva un monito per gli altri schiavi.
Nel 71 a.C., 6.000 ribelli seguaci di Spartaco furono crocifissi lungo la via Appia, tra Capua e Roma (foto sotto). Da allora non vi furono più rivolte servili nella storia dell’Urbe. La stessa pena veniva comminata anche per omicidi, gravi furti, sedizioni o tradimenti.
Degli ultimi due crimini erano accusati in modo particolare i cristiani che, rifiutandosi di riconoscere l’autorità dello Stato e la sua religione, turbavano l’ordine pubblico, infrangendo la pax deorum.
Essere gettati alle “bestie” (animali selvatici genericamente intesi) inizialmente era una pena legata alla guerra: Lucio Emilio Paolo, vincitore della Terza guerra macedonica, nel 167 a.C. fece schiacciare dagli elefanti i disertori dell’esercito nemico.
Nel 146, Scipione Emiliano inserì un’esecuzione simile in uno spettacolo offerto per celebrare il suo trionfo dopo la vittoria definitiva su Cartagine.
L’unione di animali esotici all’esecuzione pubblica e granguignolesca dei criminali piacque così tanto da diventare presto un tipo ben codificato di intrattenimento, tanto popolare da essere raffigurato su mosaici e vasellame.
Di solito era una pena per avvelenatori, falsari e sobillatori di rivolte (perciò anche i cristiani) e fu praticata senza mai perdere popolarità fino a quando Costantino, nel 325, stabilì di commutare tutte le condanne a morte nell’arena in deportazioni alle miniere.
L’avvento e la diffusione del cristianesimo modificò molte di queste punizioni, ma non cancellò la crudeltà con cui i condannati venivano in genere trattati.
Bisognerà attendere l’Illuminismo e il saggio di Cesare Beccaria Dei delitti e delle pene, del 1764, per introdurre concetti oggi scontati, come la differenza tra reato e peccato, il rispetto dei diritti dei condannati e l’abolizione della tortura e della pena di morte.
5. LE LEGGI DELLE XII TAVOLE: UNA COSTITUZIONE ANTICHISSIMA
A metà del V secolo a.C., la plebe di Roma sentì la necessità di far mettere per iscritto una serie di consuetudini legali che fino a quel momento erano state tramandate oralmente e applicate con un certo arbitrio dai giuristi-pontefici del patriziato.
Un’apposita commissione, i decemviri legibus scribundis, raccolse le prescrizioni in vigore per il diritto pubblico e privato e per lo svolgimento dei processi e le fece incidere su dieci tavole, non si sa se di legno o di bronzo.
Altre due tavole furono aggiunte poco dopo. Le dodici tavole furono esposte nel foro ma bruciarono nel sacco di Roma del 390 a.C. Il loro testo è stato ricostruito dagli studiosi sulla base di citazioni riportate nelle opere antiche.
Questo corpus giuridico era così importante che, come testimonia Cicerone, veniva fatto imparare a memoria ai bambini, come parte dell’istruzione elementare.
CURIOSITA': UN SOLLIEVO PER I CONDANNATI
I Vangeli ricordano il soldato romano che avvicinò alle labbra di Gesù crocifisso una spugna «imbevuta d’aceto».
Si trattò probabilmente di un gesto di pietà: il soldato offrì a Cristo il conforto di una bevanda a base di aceto detta posca, molto popolare tra i soldati.
È possibile però che si trattasse di un sedativo, contenuto appunto in una spugna, detta spongia somnifera.
Questo preparato era uno dei pochi anestetici disponibili nell’antichità: la spugna veniva bollita a lungo in una mistura di erbe medicinali, tra cui mandragora, cicuta ed estratti di papavero, poi veniva fatta seccare e “rinvenuta” nell’acqua o in altro liquido quando era necessario addormentare un paziente.
Appoggiata sulle labbra dei condannati ai supplizi capitali (come nel caso di Gesù), li avrebbe leggermente “drogati”, aiutandoli a sopportare meglio il dolore.