Dalla falange macedone alla testuggine romana, dall’uso delle fortificazioni all’uso degli elefanti come carri armati, ecco, in 5 battaglie, come gli eserciti antichi hanno sbaragliato i loro avversari in scontri cruciali.
1. L’imbattibile falange, Gaugamela 331 a.C.
A Gaugamela, nei pressi dell’odierna Mosul, Alessandro Magno si trovò di fronte un’armata immensa.
Il re persiano Dario III era riuscito ad assemblare quasi 200mila uomini.
Sul campo di battaglia Dario era schierato al centro con le truppe migliori disposte su due linee molto profonde, mentre sulle ali erano sistemati contingenti di cavalleria, provenienti da tutto l’impero.
Alessandro per sopperire all’inferiorità numerica adottò una strategia molto particolare. Il centro dello schieramento era occupato dalla falange disposta su una linea molto profonda, mentre sui fianchi erano posizionati il re con cavalieri e fanti, a destra, e il suo miglior generale Parmenione con altri reparti sulla sinistra.
Alle loro spalle, in posizione di rincalzo, una linea di falange, formata da ausiliari, aveva il compito di chiudere le possibili falle nello schieramento. Poiché il rapporto numerico fra le cavallerie era di cinque a uno e la linea formata dai Persiani superava di oltre un chilometro quella della falange, sembrava inevitabile che i Macedoni sarebbero stati aggirati sui fianchi.
Per questo Alessandro diede ordine che le ali più esterne, costituite da reparti di cavalleria e fanteria alleata, avanzassero scaglionate e disposte a 45° rispetto al resto dello schieramento per proteggere i fianchi e indurre i nemici ad attaccare in quei punti. Una sorta di schieramento a trapezio, che avrebbe dovuto muoversi all’unisono evitando di sfaldarsi.
L’idea del sovrano macedone era chiara: affrontare la massa di cavalleria nemica sulle ali e impegnarne il maggior numero possibile per poi, con il resto dell’esercito, avanzare rapidamente contro il centro dello schieramento dove era disposto Dario. La premessa era costringerlo ad attaccare per primo, e così fu.
I carri falcati si avventarono a gruppi sulla falange. I soldati macedoni erano, però, preparati: rimasero impassibili e si aprirono quanto basta per far passare i carri che, una volta defluiti, furono assaliti dalle seconde linee e messi fuori combattimento.
Allo stesso tempo la cavalleria persiana si lanciò in massa contro le ali macedoni che si difesero strenuamente anche se in forte inferiorità numerica. Mentre i persiani insistevano con l’attacco ai fianchi, Alessandro lentamente s’incuneava nel loro schieramento, finché un vuoto si aprì nel centro, proprio quando erano state gettate nella mischia le ultime riserve.
Il Macedone ordinò alla sua cavalleria di disimpegnarsi e di prepararsi per l’attacco decisivo. Continuando a marciare dispose le sue unità come a formare un’enorme freccia con lui al vertice. Dietro di sé aveva la cavalleria e tutti i battaglioni della falange che era riuscito a disimpegnare.
Questa “grande freccia” attaccò i persiani, proprio dove erano più sguarniti, mettendo fuori gioco la guardia reale e i reparti mercenari. L’attacco fu così rapido e concentrato che Dario, temendo di essere ucciso, decise di ritirarsi, mentre i suoi uomini ancora combattevano.
Quando questi si accorsero che il loro sovrano si era dato alla fuga cominciarono a ritirarsi in disordine e furono massacrati. Questa battaglia decise il corso della guerra. Alessandro avanzò fino a occupare Babilonia e, da lì in pochi giorni, arrivò a Persepoli. L’impero persiano si era liquefatto e Alessandro era padrone dell’Asia.
LA MOSSA TATTICA:
Fu il genio di Alessandro a vincere la battaglia di Gaugamela e con essa la guerra contro i Persiani.
La tattica tipica dei Macedoni, inventata da Filippo, era quella dell’incudine e martello. Il nucleo era costituito dalla falange macedone: quando essa entrava in battaglia, gli uomini delle prime cinque file abbassavano le loro lance lunghe fino a sei metri, chiamate sarisse, in modo che le punte venissero a trovarsi oltre la prima linea degli scudi.
Le lance dei soldati delle file retrostanti erano invece rivolte verso l’alto, creando così una selva di aste che fungeva da protezione contro le frecce.
L’unità tattica di base era il syntagma, un quadrato di 16 colonne per 16 file. Se la falange costituiva l’incudine contro cui si doveva infrangere l’attacco nemico, la cavalleria scelta di Alessandro svolgeva il ruolo del martello che schiacciava il nemico prendendolo alle spalle.
A Gaugamela Alessandro fece di meglio: consapevole della sua inferiorità numerica che non gli consentiva di sopravanzare sui fianchi l’esercito nemico, riuscì a ripetere la manovra individuando e isolando il cuore dello schieramento avversario, che conteneva lo stesso re.
Con una finta simulò l’aggiramento sulla propria destra, poi lanciò la parte migliore della propria cavalleria, che guidò personalmente, nel varco che si era creato tra il centro e l’ala sinistra dei Persiani. Dario fuggì e il suo esercito fu messo in rotta.
Ma tutto questo, che si svolse sul fianco destro dello schieramento macedone, non sarebbe mai stato possibile se il centro e l’ala sinistra non avessero svolto perfettamente il compito loro assegnato da Alessandro: resistere.
E i Macedoni poterono resistere contro gli assalti di truppe molto più numerose soprattutto grazie alla falange.
La selva di lunghe lance risultò, infatti, insuperabile tanto per i cavalieri quanto per i fanti nemici.
2. Elefanti come carri armati, Eraclea 280 a.C.
Fu di fatto la prima volta che Greci e Romani si confrontavano sul campo di battaglia. Il primo scontro fra la falange e la legione.
Ma a fare la differenza furono gli elefanti. Il re Pirro di Epiro, imparentato con Alessandro Magno, era stato chiamato in Italia Meridionale dalla città di Taranto.
Il grande porto della Magna Grecia era entrato in conflitto con Roma quando questa aveva iniziato a estendere la propria presenza sul sud Italia.
Nella primavera del 280 a.C. Pirro approdò a Taranto con 20mila fanti, 2mila arcieri, 500 frombolieri, 3mila cavalieri tessali e alcune decine di elefanti da combattimento prestatigli dal faraone macedone d’Egitto.
A luglio le forze epirote e quelle romane si trovarono faccia a faccia presso Eraclea, vicino all’attuale Policoro in Lucania. I Romani schieravano due legioni con le truppe ausiliarie agli ordini del console Publio Valerio Levino, per un totale di circa 20mila soldati.
Pirro aveva qualche uomo in più dopo aver unito al suo contingente alcune forze locali. Ma soprattutto disponeva degli elefanti – forse una ventina – sconosciuti ai Romani.
Furono questi ultimi a prendere l’iniziativa dato che Pirro si era attestato in una posizione difensiva oltre il fiume Siri, probabilmente speranzoso nell’arrivo di rinforzi da parte delle popolazioni lucane e sannitiche.
I Romani riuscirono ad attraversare il fiume sostanzialmente indisturbati e Pirro avviò l’attacco quando lo schieramento avversario si stava disponendo. Questo forse spiega perché gli elefanti all’inizio della battaglia si trovarono posizionati tra le “riserve”.
Di solito infatti – come avvenne in quasi tutte le battaglie dell’antichità, dall’Idaspe a Zama fino a Rafia – gli elefanti costituivano l’avanguardia dell’esercito e venivano impiegati come una sorta di “carri armati”, per attaccare frontalmente e infrangere il fronte nemico, scompaginandolo e consentendo alle forze che li seguivano di penetrare tra gli avversari per completare l'opera.
A Eraclea invece il primo impatto fu quello fra le opposte cavallerie, durante il quale lo stesso Pirro rischiò di morire. Poco dopo si accese lo scontro fra le fanterie: le possenti falangi macedoni si contesero con ferocia ogni palmo di terreno con l’altrettanto tenace legione romana.
Per capire la furia di quei combattimenti “corpo a corpo” basti ricordare che alcune fonti sostengono che nella battaglia morirono circa la metà dei fanti di entrambi gli eserciti (ancora si usa la frase “vittoria di Pirro” per indicare un obiettivo raggiunto a un prezzo così alto da renderlo vano).
Lo scontro tra i fanti così come quello tra i cavalieri sembrava volgere in parità, ma tutto cambiò quando entrarono in campo i “buoi lucani”, come furono chiamati gli elefanti dai Romani che non li avevano mai visti prima.
I pachidermi misero presto in rotta la cavalleria romana, perché già da lontano i cavalli non abituati alla loro vista diventavano ingovernabili, terrorizzati dalla mole, dall’aspetto e dai barriti di quelle gigantesche bestie.
E fu così anche per i legionari che cedettero al panico quando si resero conto che il loro fianco era stato lasciato scoperto e proprio da quel lato stavano arrivando a passo di carica quei “mostri”.
Pirro aveva vinto. Il re epirota marciò quindi verso Roma fino a Preneste, prima di ritirarsi. Sconfisse di nuovo e a caro prezzo i Romani ad Ascoli Satriano nel 279, passò poi in Sicilia dove si scontrò con i cartaginesi.
Tornato di nuovo in Italia affrontò per l’ennesima volta i Romani, che però in pochi anni avevano appreso tutte le lezioni necessarie, compreso il modo per evitare la furia devastante degli elefanti. Nel 275 a Benevento le legioni inflissero al re d’Epiro la sconfitta decisiva. Lui tornò in Grecia e Roma rimase padrona incontrastata d’Italia.
LA MOSSA TATTICA:
Mai come ad Eraclea gli elefanti da guerra risultarono decisivi e costituirono la mossa tattica che risolse la battaglia.
Contrariamente al solito, forse costretto dalle circostanze, Pirro non utilizzò le sue “forze corazzate” all’inizio dello scontro, né tantomeno le lanciò contro le fanterie nemiche nel tentativo di indebolirle.
Gli elefanti epiroti invece rimasero in riserva, forse a causa del tempo necessario per avvicinarsi al fronte di combattimento.
Ma al momento giusto sbucarono dalle retrovie per avventarsi sulla cavalleria romana. La loro carica di grande impatto terrorizzò i cavalli e gli uomini avversari, e li mise in rotta prima ancora di sconfiggerli fisicamente.
Grazie a questa mossa Pirro si assicurò la permanenza nel sud Italia ancora per diversi anni, costruendo la propria leggenda.
Al momento della battaglia di Eraclea, nel 280 a.C., gli elefanti erano utilizzati in guerra sui campi asiatici già da almeno un secolo e Alessandro Magno se li era ritrovati di fronte in India nella battaglia dell’Idaspe.
I suoi successori si contesero l’eredità del suo impero mettendo spesso in campo i pachidermi come unità decisiva, attrezzata con corazze, spunzoni, torrette per ospitare arcieri e lancieri dalle lunghissime sarisse.
Un massiccio scontro fra due opposte schiere di elefanti avvenne a Rafia, fra i Tolomei d’Egitto e i Seleucidi d’Asia. Anche Annibale, durante la sua guerra contro Roma, aveva al seguito degli elefanti, perché i pachidermi facevano normalmente parte dell’esercito cartaginese.
3. L’uso delle fortificazioni, Alesia 52 a.C.
La battaglia di Alesia fu in realtà per il mondo antico un evento dalle conseguenze storiche e politiche assai più importanti di quelle di un semplice scontro armato.
Prima del trionfo di Alesia le sorti della guerra gallica intrapresa da Cesare apparivano ancora piuttosto incerte, tanto che a Roma gli avversari politici del proconsole, preoccupati della costante crescita del suo prestigio, confidavano in una imminente sconfitta.
Alla rivolta antiromana scoppiata nel 53 a.C. si unirono quasi tutte le tribù galliche, sotto il comando di Vercingetorige. Non ritenendo di poter affrontare in campo aperto le disciplinate legioni, neanche in condizioni di superiorità numerica, gli 80mila Galli di Vercingetorige si rinchiusero nella città fortificata di Alesia in attesa dei rinforzi.
Cesare allora ordinò la costruzione di una possente fortificazione attorno alla città per contenere qualsiasi tentativo di sortita dall’interno.
Quindi, ben sapendo che alle spalle si sarebbe trovato presto un esercito gallico assai più numeroso, decise di realizzare anche una seconda linea fortificata rivolta verso l’esterno, e di distribuire le sue legioni nella fascia compresa tra le due linee.
La lungimiranza di Cesare fu evidente quando l’esercito gallico di soccorso, forte di ben 240mila uomini, si avvicinò ad Alesia con l’intento di stringere i 50mila Romani in una morsa mortale.
Il confronto delle forze in campo in termini numerici appariva, almeno sulla carta, improponibile: ogni legionario romano avrebbe dovuto fronteggiare più di sei guerrieri nemici.
Di fatto però la posizione fortificata, faticosamente costruita attorno ad Alesia a colpi di dolabra, il tradizionale piccone romano, permise di riequilibrare la situazione determinando anche l’esito della battaglia.
Non solo i Romani sotto la magistrale guida di Cesare resistettero, ma quando egli, spostando lungo il perimetro le sue forze di cavalleria, le fece convergere sul punto sotto attacco, determinando una superiorità locale fu persino in grado di mettere in rotta l’esercito gallico.
Il giorno dopo Vercingetorige decise di arrendersi. Alesia costituì di fatto l’ultimo conflitto armato tra Galli e Romani, e fu il chiaro segnale che Roma si espandeva ormai con decisione a nord delle Alpi.
Con la vittoria di Alesia Cesare pose le basi del suo progetto politico, realizzatosi alcuni anni dopo al prezzo di una lunga e dolorosa guerra civile contro Pompeo in seguito alla quale il vincitore dei Galli divenne il governante unico di Roma.
LA MOSSA TATTICA:
Fu la lungimiranza di Cesare nel costruire fortificazioni d’assedio la mossa tattica rivolte sia verso la città sia verso l’esterno a rendere possibile una vittoria numericamente impensabile.
A questo va aggiunto il genio tattico del generale romano che seppe individuare il punto decisivo della battaglia.
Si trattava del monte Rea, un’altura che non era stato possibile incorporare nelle linee difensive, e che offriva ai Galli l’opportunità di attaccare il campo romano in discesa.
Costituiva dunque il punto debole delle fortificazioni romane e non si può escludere che Cesare avesse deciso di usarlo come “trappola” per attirare il nemico e batterlo.
Dopo numerosi e infruttuosi tentativi di penetrare nella linea fortificata romana, i Galli dell’esercito giunto in aiuto di Vercingetorige si decisero per un ultimo attacco frontale proprio nel tratto in corrispondenza del monte Rea, coordinandolo con un assalto nello stesso punto da parte dell’esercito rinchiuso ad Alesia.
Mentre i fanti romani resistevano, Cesare spostò lungo il perimetro le sue forze di cavalleria, facendole convergere sul punto sotto attacco così da creare una superiorità militare in grado di mettere in fuga il nemico.
Le strutture difensive hanno sempre giocato un ruolo fondamentale nelle battaglie, specie prima dell’introduzione dell’artiglieria.
Ma di solito sono state le strutture difensive fisse – come le mura urbane – a consentire la vittoria.
L’abilità romana fu quella di saper costruire notevoli opere difensive direttamente sul campo: celebri sono i loro accampamenti militari fortificati.
4. La testuggine romana, assedio di Gerusalemme 70 d.C.
Il popolo ebraico è sempre stato molto refrattario al dominio romano e le rivolte si sono susseguite con ritmo costante.
La più importante fu senz’altro la Guerra Giudaica combattuta fra il 66 e il 73 dopo Cristo.
L’episodio decisivo fu l’assedio e la conquista romana di Gerusalemme da parte di Tito, figlio ed erede dell’imperatore Vespasiano. I ribelli ebrei avevano occupato fin dall’inizio della rivolta la città, ma poi si erano dilaniati in conflitti fratricidi tra diverse fazioni.
Nel 70 Vespasiano, appena nominato imperatore, mandò il figlio Tito a tentare di riconquistare Gerusalemme per porre fine alla guerra. Ispezionato il perimetro esterno della città, Tito decise di assediarla nella speranza che la popolazione estenuata da anni di guerra scegliesse la resa.
Anche perché il conflitto interno fra le fazioni ebraiche non si placava nemmeno con le truppe romane accampate alle porte della città. Il primo scontro però fu favorevole ai ribelli: essi lanciarono una sortita e sorpresero i Romani mettendoli in fuga.
Lo stesso Tito scampò alla morte per un pelo. Appresa la lezione, il generale romano iniziò la costruzione di campi fortificati per le sue quattro legioni, posti in modo da controllare gli accessi alla città.
Con mossa abile, Tito permise ai pellegrini di entrare nella Città santa per festeggiare la pasqua, ma poi impedì loro di uscire in modo da ridurre le riserve di cibo nemiche.
Nuove sortite ebraiche furono respinte e Tito cominciò ad attaccare con sempre maggior frequenza. Nonostante l’imponenza delle fortificazioni gerosolimitane, le tecniche di assedio romane erano potenti e sperimentate.
I Romani disponevano di numerose macchine ossidionali e ben sapevano applicare le tecniche di assalto alle mura. Fra queste l’impiego della testuggine, una formazione di legionari che con i loro scudi proteggevano tutti lati del loro schieramento, compreso lo spazio sopra le teste.
In questo modo si difendevano dai proiettili scagliati dall’alto delle mura e potevano avvicinarsi a esse in sicurezza. A volte l’approssimarsi serviva a portare un assalto con le scale, più spesso invece si trattava di proteggere il lavoro condotto dai loro commilitoni, con picconi e altri attrezzi, per minare la base delle mura.
La testuggine poteva anche condurre con sé un ariete per forzare le porte, anche se nella maggior parte dei casi questi strumenti di sfondamento erano già dotati di una struttura protettiva.
Con metodicità e grazie alle opere di assedio i Romani riuscirono a espugnare la prima cinta di mura nel settore occidentale di Gerusalemme, e dopo cinque giorni cadde anche la seconda cerchia.
A quel punto Tito divise le sue truppe, mandando due legioni contro le mura interne, e altrettante contro le fortificazioni del monte del tempio. La difesa ebraica fu strenua, ma alla fine la superiorità romana ebbe la meglio e Gerusalemme espugnata non si riprese per secoli.
LA MOSSA TATTICA:
Le antiche macchine da guerra da sole non potevano conquistare le città. Gerusalemme fu un esempio di questa situazione.
Infatti i difensori ebrei tentarono continuamente sortite contro i Romani assedianti, e in questo modo minacciarono costantemente di distruzione le macchine ossidionali avversarie, a volte riuscendo nell’impresa.
Per proteggerle quindi durante gli assalti era necessario un consistente schieramento di fanteria.
Ma i fanti erano a loro volta esposti al continuo tiro degli arcieri e delle catapulte dall’alto delle mura di Gerusalemme. Fu per questo che la formazione a testuggine tipica dei legionari romani risultò determinante.
E lo fu anche nelle fasi successive della battaglia, quando i Romani irruppero in città attraverso una breccia. A quel punto i combattimenti si svolgevano nelle strade strette, con la possibilità per i difensori di bersagliare gli invasori da ogni edificio.
Per questo molte unità romane si disposero a testuggine. Questa formazione consisteva in un drappello di legionari armati di grandi scudi, che venivano tenuti in modo da creare muri protettivi su tre o quattro lati dello schieramento e sopra le teste.
In questo modo la massa offerta al nemico era compatta e difficilmente penetrabile dalle frecce. Questa formazione richiedeva molto addestramento e grandi capacità.
Secondo lo storico Tito Livio i Romani iniziarono a usarla già in età repubblicana, e le prime volte lo fecero durante le esercitazioni solo per dimostrare l’abilità dei legionari.
In seguito però iniziò a essere usata anche in battaglia. Negli assedi, come detto, ma anche in campo aperto, specialmente nelle guerre partiche, per contrastare il tiro degli arcieri asiatici.
Una chiara rappresentazione di questa tattica compare anche sulla Colonna Traiana, che narra le vicende militari legate alle guerre daciche.
5. La forza della cavalleria, Adrianopoli 378 d.C.
I fatti del 378 d.C. non sono che l'evento culminante di una vera e propria crisi umanitaria.
Alcuni anni prima intere tribù di Goti, in fuga dalle regioni transdanubiane perché incalzate da un nuovo, terribile nemico, Gli Unni, avevano iniziato a migrare verso il territorio romano.
I loro capi avevano negoziato con le autorità romane il trasferimento delle proprie genti all'interno dei confini dell'impero in cambio di forza-lavoro per le campagne e di volontari per l’esercito imperiale.
Poi però, probabilmente a causa dell’incapacità (e della corruzione) delle autorità romane, impreparate a gestire un flusso migratorio assai più cospicuo di quanto preventivato, e dei contrasti tra locali e nuovi arrivati, si giunse a una crisi e allo scoppio delle ostilità tra i Romani e nuovi arrivati.
I Goti iniziarono a razziare il territorio romano, respingendo con successo i tentativi di opporvisi compiuti dalle guarnigioni locali, e vi si stabilirono attirando a sé altre tribù da oltre confine.
Nella primavera del 378 l’imperatore Valente decise di radunare un’armata di proporzioni considerevoli per sbarazzarsi una volta per tutte delle masnade gotiche ormai fuori controllo.
Concentrate le forze ad Adrianopoli all’inizio di agosto, Valente decise di puntare sull’accampamento fortificato dei nemici senza attendere l’arrivo ormai dato per imminente delle truppe dell’Augusto d’Occidente, Graziano.
Il contingente romano ammontava a 15-40mila effettivi, divisi fra unità di fanteria (armate di lancia lunga e spada) e unità di cavalleria, che comprendevano i reparti della guardia imperiale e diversi battaglioni di cavalieri corazzati (catafratti).
La fanteria gotica si era schierata a protezione del grande cerchio di carri che fungeva al contempo da accampamento e da riparo nel caso la battaglia dovesse volgere al peggio, e all’interno del quale restavano donne, bambini e inabili al combattimento. Le schiere romane si lanciarono contro i fanti goti.
Nel frattempo la cavalleria imperiale, dopo aver respinto i primi assalti di quella nemica, sopraggiunta all’improvviso (e forse sottostimata dai generali romani) iniziò lentamente a perdere terreno, rimanendo schiacciata tra gli avversari e l’accampamento, fino a soccombere.
La fanteria romana, che non era riuscita a sfondare le linee avversarie, si trovò ben presto circondata da fanti e cavalieri goti.
Le perdite furono ingentissime: caddero due terzi dei veterani e molti ufficiali. Solo il sopraggiungere della notte consentì ai legionari sopravvissuti di mettersi in salvo. L’imperatore Valente cadde sul campo di battaglia.
LA MOSSA TATTICA:
Fu la cavalleria gotica a rompere gli equilibri della battaglia.
Mentre sul fronte infuriava lo scontro ad alta densità fra le fanterie dei due eserciti, da dietro la collina su cui sorgeva il cerchio di carri germanici sopraggiunse la numerosa e agguerrita cavalleria dei Goti, che poté prendere sui fianchi quanto rimaneva della cavalleria romana e poi la schiera di fanti impegnata in combattimento.
In queste condizioni tattiche – ottimali per i Goti – non poteva che finire con un massacro di Romani.
Nell’antichità le funzioni tattiche della cavalleria erano soprattutto legate alla mobilità, alla sua capacità di spostarsi rapidamente sul campo di battaglia e prestare soccorso ai reparti di fanteria in difficoltà.
Goti e Alani erano eredi della tradizione dei popoli asiatici, superiori ai cavalieri del mondo classico.
Con la vittoria di Adrianopoli si comincia a delineare quell’era della cavalleria, in cui essa diventa il nerbo dell’esercito, che caratterizzerà il Medioevo.