Sepolti sotto 60 piramidi, grandi (e soprattutto pesanti) come quella di Cheope: 335 milioni di tonnellate prodotte e disseminate in tutto il mondo.
È questa la quantità di plastica che ci invade ogni anno (5,8 milioni di tonnellate solo in Italia, dati del 2017).
Appena il 14% viene avviato al riciclo, il resto finisce nelle discariche o viene disperso senza controllo.
Stando ai dati dell’Unep, l’agenzia per la protezione dell’ambiente delle Nazioni Unite, 8 milioni di tonnellate finiscono ogni anno negli oceani e da qui, sminuzzandosi in microparticelle, raggiungono gli organismi marini che le ingeriscono.
È una “piccola quantità” rispetto a quella prodotta, ma è sufficiente a provocare danni enormi.
Che fare, allora? Innanzitutto dovremmo cambiare le nostre abitudini: usare meno plastica e riciclarla di più. Ma un aiuto può arrivare dalla tecnologia.
Dalle “scope” oceaniche ai batteri che la digeriscono, ecco le idee più brillanti e promettenti per risolvere ed eliminare un problema che diventa sempre più… soffocante.
1. “Scopa” marina e leggerne i colori
- “Scopa” marina
Uno dei simboli dell’inquinamento marino è l'isola di spazzatura detta Pacific Trash Vortex, una sorta di “zuppa” di rifiuti tra la California e le Hawaii che contiene, secondo le stime, 80mila tonnellate di frammenti plastici e si estende su un’area grande 3 volte la Francia.
Un inventore e imprenditore olandese, Boyan Slat, ritiene che metà di questo materiale possa essere raccolto in 5 anni con un sistema di tubi galleggianti, al di sotto dei quali pende una rete leggera e rigida, che “pesca” a una profondità di qualche decina di centimetri.
I tubi, lunghi circa 2 km, sono ancorati a una zavorra che li guida seguendo la corrente, e si comportano come un enorme rastrello. La plastica verrebbe poi raccolta da navi d’appoggio.
Il progetto si chiama Ocean Cleanup, ha ricevuto 30 milioni di dollari di finanziamenti e quest’anno dovrebbe partirne la sperimentazione.
- Leggerne i colori
Sul fatto che Ocean Cleanup possa funzionare, però, non tutti sono d’accordo.
C’è anche chi vorrebbe evitare che la plastica raccolta finisca nelle grandi discariche, soprattutto dei Paesi in via di sviluppo, per destinarla invece al riciclo.
Esistono già sistemi in grado di riconoscere e separare automaticamente diversi tipi di plastica dal resto dei rifiuti (carta, vetro, lattine, legno e metalli), come quelli usati dal gruppo Hera in Emilia-Romagna, basati su lettori ottici capaci di distinguere i materiali a seconda del loro colore e di come riflettono la luce.
Ogni tipo di plastica, infatti, è formato da un polimero differente, che a sua volta riflette le radiazioni luminose che lo colpiscono, visibili o nell’infrarosso, con una lunghezza e ampiezza d’onda caratteristiche, rendendo possibile la selezione automatica di questi materiali a una velocità tripla rispetto a quella manuale usata un tempo.
I risultati? Questi impianti trattano da 8 a 15 tonnellate di rifiuti ogni ora, contro le 5 dei sistemi tradizionali.
2. Centrifugata e da rifiuto a combustibile
- Centrifugata
Dopo essere stata recuperata, la plastica deve di solito essere separata nelle sue varie tipologie: Pet, polipropilene e altri polimeri, che seguono trattamenti diversi.
Per farlo, la società tedesca Flottweg ha ideato una speciale centrifuga chiamata Sorticanter: utilizza un fluido che ha un peso specifico intermedio tra quelli delle varie plastiche da separare.
Quelle più pesanti, così, tendono ad affondare, mentre quelle più leggere vengono a galla.
Grazie alla rotazione impressa dalla centrifuga, insomma, le diverse plastiche vengono differenziate.
Ed escono da questo processo industriale asciutte, quindi più facili da lavorare.
- Da rifiuto a combustibile
Un’altra strada è trattare i rifiuti per ricavare oli da usare come materia prima per realizzare altre plastiche, o come combustibile per produrre energia.
Lo fa BioCellection, una startup californiana che si ripropone di recuperare 5 tonnellate al giorno di pellicole e sacchetti dispersi nell’oceano Pacifico e di convertirli in nuova plastica.
La startup ha messo a punto un processo con cui tratta questi rifiuti a oltre 140 °C e li scompone in molecole più semplici, riutilizzabili in combinazione con altre sostanze per produrre per esempio poliammide, cioè nylon.
BioCellection ha avviato un impianto pilota per testare la sua soluzione, ora a un livello di sviluppo molto avanzato. La commercializzazione dei suoi prodotti è prevista per il 2019.
Il grafico sopra mostra, in media, per quanto tempo vengono usate le materie plastiche in vari settori prima di essere buttate via. Poi, se non sono smaltite o bruciate, si riversano nell’ambiente, dove possono restare in circolo per secoli.
3. Scomporla e ricomporla
Scomporla e ricomporla
Una volta recuperata la plastica, rimane il problema di come riutilizzarla, visto che finora quella riciclata non ha molti impieghi.
Per realizzare i prodotti di consumo, in genere i polimeri plastici vengono uniti a una vasta serie di additivi che ne determinano colore, durezza, lavorabilità, resistenza all’usura.
Per riciclare i rifiuti, scomponendo le molecole della plastica fino a tornare ai polimeri di partenza, servirebbero quindi processi in grado di eliminare tutti quegli additivi.
E non è semplice. Nemmeno il Pet (polietilentereftalato), il materiale di cui sono fatte le bottiglie di acqua e bibite, si riesce a recuperare con un’efficienza elevata, se non per produrre una fibra tessile usata nel tessuto di cui sono fatti i pile.
La società olandese Ioniqa, spinoff dell’Università di Utrecht, però, ha messo a punto un processo che, grazie a un liquido “magnetizzato”, riesce a rimuovere coloranti e additivi utilizzati nel Pet per riottenere il materiale puro.
Tonnis Houghoudt, fondatore dell’azienda, spiega: «Con il nostro processo possiamo utilizzare rifiuti di qualsiasi provenienza, incluso il polimero trasformato in fibra tessile, oltre a quello delle bottiglie colorate. E possiamo ricavarne una plastica che può essere impiegata anche per fare contenitori per alimenti».
Ioniqa ha costruito un impianto funzionante vicino a Rotterdam, e nel 2019 lo affiancherà con un altro, ottenendo una capacità di riciclo di 10.000 tonnellate al giorno.
4. Produrla dalle erbacce e mangiarla
- Produrla dalle erbacce
Una strategia efficace è lo sviluppo di plastiche biodegradabili e compostabili che, una volta gettate, si decompongano in altre sostanze non inquinanti, utilizzabili anche per concimare il terreno.
La più nota è Mater-Bi, messa a punto e commercializzata a partire dagli anni Novanta da Novamont: si produce a partire da materie prime naturali come amido di mais, grano e patate.
Test condotti nelle sabbie di arenili e sul fondo marino hanno rivelato che, se viene disperso nell’ambiente, ha un comportamento simile a quello della cellulosa, materiale considerato non inquinante, che si biodegrada a percentuali vicine o superiori all’80% in meno di un anno.
Insieme con Versalis (società del gruppo Eni), Novamont ha ora creato una joint-venture, Matrìca, che ottiene un materiale biodegradabile ma a partire da piante come il cardo, coltivabile in terreni incolti o marginali: un tipo di produzione che permette di servirsi di risorse altrimenti inutilizzate, e non interferisce con l’agricoltura.
- E c’è chi se la mangia
Ma la soluzione finale potrebbe essere... mangiarsela. A farlo potrebbero essere alcuni batteri in grado di scomporre i polimeri e digerirli.
La ricerca in questo settore ha preso il via nel 2016, quando un gruppo di scienziati giapponesi ha scoperto, in un centro per il riciclo di bottiglie in plastica nella città di Sakai, un batterio sconosciuto, battezzato Ideonella sakaiensis, in grado di “digerire” il Pet in tempi rapidissimi.
Ora si sta cercando di capire come funziona la molecola prodotta dall’Ideonella e che rende possibile questo processo.
Ne è stato ricostruito il modello in 3D da alcuni ricercatori dell’università britannica di Portsmouth, che vorrebbero avviarne la produzione e adattarlo ad altre materie plastiche.
Più di recente si è scoperto che anche un bruco, la larva della Galleria mellonella, la tarma della cera, è in grado di mangiare e digerire il polietilene, la plastica dei vecchi sacchetti della spesa.
Ad accorgersene è stata una ricercatrice italiana, Federica Bertocchini, che lavora all’Istituto di biomedicina della Cantabria, a Santander, in Spagna, e che ora sta analizzando le reazioni chimiche alla base del processo.
Non ci resta che augurare alle sue creature... buon appetito!
5. Risucchiamola!
Ogni giorno finiscono nel Mediterraneo 90 tonnellate di plastica che, decomponendosi in piccoli frammenti, vengono ingerite dai pesci e rischiano di finire sulle nostre tavole.
La soluzione? Potrebbe essere una flotta di “cestini” galleggianti detti Seabin, pronti a entrare nei nostri porti.
Ancorati a un pontile a pelo dell’acqua, sfruttano il moto naturale delle correnti e dei venti per risucchiare al loro interno – grazie anche a una pompa capace di trattare 25mila litri l’ora – 1,5 kg di microdetriti al giorno, comprese le plastiche da 2 a 5 millimetri di diametro.
Questo materiale può, poi, essere riciclato e riutilizzato. Ideati dagli australiani Pete Ceglinski e Andrew Torton, i Seabin (foto in alto a sinistra) sono stati sviluppati da Volvo Car Italia, in partnership con Lifegate.
A settembre 2018 saranno istallati in 3 porti italiani: Marina di Cattolica (Rn), Marina di Varazze (Sv) e Venezia Certosa Marina (Ve). E questo è solo uno degli impegni che ha messo in campo la casa automobilistica svedese Volvo.
A cominciare dalle sue sedi: le plastiche monouso sono state eliminate negli uffici, nelle mense e negli eventi, portando alla sostituzione di oltre 20 milioni di articoli – tra posate, bicchieri e contenitori – con alternative più sostenibili o biodegradabili.
Per finire, presto sarà lanciata la regata Volvo Ocean Race 2018-2019, in cui le barche saranno equipaggiate con sensori per analizzare e raccogliere dati sull’inquinamento delle acque marine, compresi i livelli di microplastiche.
Impariamo a distinguerla! Oltre alla tecnologia, l’arma migliore che abbiamo per combattere l’invasione della plastica è riciclarla. Anche perché questo ci aiuta a prendere consapevolezza del problema, e a usarne di meno.